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Sudan e Ciad: le strategie di Washington e Parigi
di Frédéric Delorca
Frédéric Delorca, Mensual Bastille-République-Nation - Traduzione in spagnolo di Rocio Anguiano*03/01/2008
La zona del Sahel situata a sudest del Sahara vive da un quarto di
secolo convulsioni drammatiche in uno scenario di desertificazione,
rivalità petrolifere e impegni neocoloniali di Francia, Regno
Unito e Stati Uniti. L’epicentro della crisi, che si estende
progressivamente ai paesi vicini, è il Sudan anglofono.
Il Sudan è uno dei paesi più grandi dell’Africa ma anche
uno dei più fragili, in cui coesistono popolazioni molto varie
(vi si parlano 572 lingue), con una separazione importante tra la
popolazione musulmana di lingua araba nel nord e la popolazione
cristiana o animista nera nel sud. Devastato dal 1983 dalla guerra
civile che contrappone i ribelli del sud, l’Esercito di Liberazione del
Popolo Sudanese, alle forze regolari (un conflitto appena regolato da
un precario accordo di pace firmato ufficialmente il 9 gennaio 2005,
quando aveva già perso la vita un milione e mezzo di persone),
dal febbraio 2003 deve fronteggiare la comparsa di una nuova guerriglia
nella sua parte occidentale, il Darfur.
Nella guerra del sud i guadagni derivanti dalla distribuzione del
petrolio hanno svolto un ruolo non trascurabile. Il controllo dell’oro
nero, scoperto nelle province meridionali nel 1980, fa da sfondo alla
rivendicazione autonomista. Ora lo fa anche nel Darfur, in cui parte
dello sfruttamento è appannaggio di una concessione petrolifera
cinese. Anche l’acqua è un elemento chiave nel conflitto: gli
allevatori arabi di cammelli, che trovano sempre meno pascolo, si
spostano progressivamente verso sud, entrando in concorrenza per la
terra con gli agricoltori e i pastori sedentari locali, in una
provincia, la cui popolazione è raddoppiata in venti anni.
Dal 1989, lo Stato federale sudanese, impoverito dalla guerra e dai
regimi draconiani imposti dal FMI (con un debito di 29.000 milioni di
dollari, il Sudan dodici volte maggiore, se proporzionato al PIL di
questi paesi, di quello della Nigeria e quattro volte maggiore di
quello del Ciad e dell’Etiopia) cerca faticosamente di conservare una
politica di sovranità e di non allineamento per iniziativa di un
governo a predominio islamista. Oggi rappresenta una preda facile per
politiche imperiali “senza complessi”.
Gli Stati Uniti che nel 1993 hanno incluso Khartum nella lista degli
Stati canaglia (rogue states), non hanno provato imbarazzo ad armare la
guerriglia del sud, ad infliggere al governo federale sanzioni
economiche dal 1997 ed anche a bombardare nel 1998 l’unica impresa
farmaceutica del paese, privando delle medicine buona parte della
popolazione già per altro sottoposta all’embargo. L’oleodotto
costruito nel 1999 da malesi, canadesi e cinesi (che importano ogni
anno il 60% del petrolio sudanese) e le royalties generate hanno
portato una boccata d’ossigeno al paese. Ma Washington, che si è
vista obbligata ad appoggiare il processo di pace nel sud per impedire
che TotaFinaElf diventasse l’unico concorrente dei cinesi nella
realizzazione di nuovi contratti petroliferi nella zona, ha trovato il
modo di influire nuovamente sul futuro del Sudan, immischiandosi nel
conflitto del Darfur. I gruppi di pressione evangelisti e sionisti, che
erano attivi sul fronte meridionale, non cessano ormai da anni di
accusare Khartum dell’organizzazione di un genocidio nel Darfur, una
posizione questa a cui ha aderito in modo quasi unanime il Congresso
degli Stati Uniti in luglio 2004, ma che non è condivisa dal
resto del mondo.
L’amministrazione Bush, alleata con i britannici, ha premuto
insistentemente in seno alle istanze internazionali per ottenere
l’intervento militare nel Darfur. Il 3 febbraio 2005, il Segretario
Generale della NATO ha dichiarato che la sua organizzazione era
disposta ad intervenire in questa provincia. Il 1 settembre 2006, gli
anglo-statunitensi hanno ottenuto dal Consiglio di Sicurezza l’invio di
20.000 caschi blu dell’ONU in sostituzione dei 7.000 soldati della
forza di interposizione dell’Unione Africana nel Darfur.
Da quel momento le pressioni sul governo di Khartum non sono cessate, e
le ingerenze sono state favorite dalla nomina nell’amministrazione
dell’ONU di amici di George W. Bush, come Francis Deng, un sudanese del
sud, direttore di Sudan Peace Support Project nell’Istituto Americano
per la Pace, che occupa l’incarico di Consigliere Speciale per la
Prevenzione dei Genocidi presso il Segretario Generale dell’ONU. Ma
tuttavia, non è stata ancora vinta la partita con i paesi del
Terzo Mondo (specialmente africani), con la Russia e la Cina, sempre
più decisi ad opporsi, dovunque, all’egemonia occidentale.
Il conflitto del Darfur è molto difficile da controllare,
poiché ci si trova di fronte a gruppi rivali, divisi a loro
volta in fazioni: il Movimento di Liberazione del Sudan, presieduto
dall’avvocato residente in Francia Abdel Wahid Mohamed El Nur,
difensore delle tribù Fur, un duro che difende il varo di un
programma “petrolio per alimenti” e la proibizione di sorvolare il
Darfur secondo il modello iracheno, allo scopo di abbattere il governo
sudanese; il Movimento Giustizia e Uguaglianza, presieduto dal dottor
Khalil Ibrahim, un islamista dissidente che difende gli interessi del
Sudan centrale; il Fronte Unito per la Liberazione e lo Sviluppo, ed
anche capi militari non affiliati ad alcun movimento come Djar el Neby
e Suleiman Maradjane. Tutto ciò complica i negoziati in corso su
scala regionale (l’ultimo, che ha avuto luogo in ottobre con il
patrocinio del colonnello Gheddafi a Tripoli, è stato boicottato
dal Movimento di Liberazione del Sudan e da sette fazioni del Movimento
Giustizia e Uguaglianza).
I danni “collaterali” nei paesi vicini del Sudan – Ciad e Repubblica
Centrafricana – sono significativi: dei 2 milioni di rifugiati che dal
2003 cercano di fuggire dai massacri, 200.000 hanno riparato nel Ciad,
e le frontiere porose permettono incursioni armate da una parte e
dall’altra. Il governo del Ciad del presidente Idriss Débry
(appartenente anch’egli all’etnia zaghawa, presente pure nel Darfur),
che si è alleato con i ribelli del Darfur dopo aver appoggiato
il governo sudanese, deve ora scontrarsi con l’Unione delle Forze per
la Democrazia e lo Sviluppo, gruppo armato del generale Mohamat Nur
appoggiato direttamente da Khartum. Nella Repubblica Centrafricana,
dove si sono rifugiati 36.000 civili del Darfur, il regime di Francois
Bozizé deve affrontare l’Unione delle Forze Democratiche per
l’Unione, i cui rapporti con la crisi del Darfur sono certamente
difficili da stabilire.
Fino a poco tempo fa, la Francia di Jacques Chirac aveva difeso due
linee di comportamento in questa parte del mondo. Nel Darfur aveva
cercato di contribuire alla pacificazione, differenziandosi in parte
dai suoi alleati anglo-statunitensi, ad esempio rifiutandosi di parlare
di genocidio ed opponendosi ad un tribunale ad hoc (secondo il modello
ruandese o jugoslavo) per giudicare i crimini di guerra. Nei paesi
vicini ha continuato la sua politica tradizionale di appoggio ai
governi vassalli di Ciad e Repubblica Centrafricana (ai quali la
uniscono accordi sulla difesa), arrivando anche al pieno coinvolgimento
in conflitti del secolo scorso (senza proiezione mediatica e senza
alcun dibattito pubblico). Così nell’aprile 2006 concesse
appoggio logistico all’esercito del Ciad alle porte di N’Djamena. Nel
marzo 2007, l’esercito francese partecipava direttamente alla battaglia
di Birao contro l’Unione delle Forze Democratiche per l’Unione nella
Repubblica Centrafricana.
Il tandem Sarkozy-Kouchner ha modificato sensibilmente la linea di
Chirac. Nel dossier sul Darfur, Parigi si è allineata all’asse
anglo-statunitense. E’ certo che il dottor Kouchner non è
riuscito a far prevalere il suo progetto di “corridoio umanitario” per
portare aiuto ai civili, in realtà una scusa per una vera e
propria invasione militare (in quanto non si disponeva di una copertura
adeguata da parte della fanteria), ma la Francia ha fatto in modo,
insieme all’Australia, che si votasse il 31 luglio scorso al Consiglio
di Sicurezza dell’ONU una risoluzione che ha autorizzato il
dispiegamento di 26.000 soldati e poliziotti nel Darfur, nell’ambito
della Missione delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana nel Darfur
(Unamid) e l’uso della forza per proteggere i civili. La Francia
sperava anche di ottenere un coinvolgimento dei suoi partner europei in
tutta la zona e ha quasi raggiunto questo obiettivo, poiché
Parigi, nel corso della sessione speciale del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU del 25 settembre scorso, ha ottenuto che venisse approvato
all’unanimità l’invio nel Ciad e nella Repubblica Centrafricana
di una forza di 4.000 soldati. L’operazione consiste in due fasi: una,
di polizia, che compete all’ONU (300 poliziotti dell’ONU affiancheranno
circa 850 poliziotti del Ciad dislocati nei campi dei rifugiati
provenienti dal vicino Darfur); l’altra fase, militare, sotto l’egida
dell’Unione Europea (UE), con un contingente la cui missione
sarà quella di assicurare la sicurezza delle zone in cui operano
le milizie armate nell’est del Ciad e nel nordest della Repubblica
Centrafricana. Un generale irlandese ne assumerà immediatamente
il comando.
L’idea è ispirata al precedente del Congo (BRN del 23 maggio
2006), ma anche, in certo qual modo, a quelli della Macedonia e
dell’Afghanistan, dove il contribuente europeo è stato
insistentemente chiamato a spegnere le braci dei conflitti suscitati da
Washington e a rimpiazzare l’esercito statunitense allo scopo di
difendere gli interessi economici occidentali in quelle regioni.
Può essere che ciò abbia fatto scuola in altre zone
dell’Africa. Così, nello stesso giorno della votazione
sull’invio di una forza europea nel Ciad, il Ministro degli Affari
Esteri britannico, Kim Howells, ha richiamato l’attenzione delle
Nazioni Unite sul problema dei rifugiati nello Zimbabwe – un paese nel
mirino di Londra per la sua politica di redistribuzione delle terre. Ma
l’esperienza appare di una portata limitata, a causa delle reticenze
manifestate dal Ciad (che ha sempre meno fiducia nella Francia, e non
solo a causa dell’affare dell’Arca di Zoé), da certe ONG ed
anche dai partner europei della Francia poco inclini ad impegnare i
loro eserciti nella protezione di regimi usciti dal dispositivo di
Francafrica.
Fonte: http://atlasalternatif.over-blog.com/article-14276050.html
* Rocio Anguiano collabora a Rebelion, Tlaxcala e Cubadebate
Traduzione dallo spagnolo per Resistenze a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare