Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che
piove su di loro terrore e morte, timorosi della terra che continua a
tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c'erano le case,
le scuole, le università, i mercati, gli ospedali, seppellendo
per sempre le loro vite. Ho visto carovane di palestinesi disperati
sfollare da Jabiliya, Beit Hanoun e da tutti i campi profughi di Gaza,
ed andare ad affollare le scuole delle Nazioni Unite come terremotati,
come vittime di uno tsunami che giorno per giorno sta inghiottendo la
Striscia di Gaza e la sua popolazione civile, senza pietà, senza
alcuna minima osservanza dei diritti umani e delle convenzioni di
Ginevra. Soprattutto senza che nessun governo occidentale muova un solo
dito per fermare questi massacri, per inviare qui personale medico, per
arrestare il genocidio di cui si sta macchiando Israele in queste ore.
Continuano gli attacchi indiscriminati a ospedali e a personale medico.
Ieri dopo aver lasciato l'ospedale di Al Auda a Jabiliya ho ricevuto
una telefonata da Alberto, compagno spagnolo dell'Ism, una bomba
è caduta sull'ospedale. Abu Mohammed, infermiere, è
rimasto seriamente ferito al capo. Giusto poco prima, con lui,
comunista, davanti a un caffè, ascoltavo le eroiche gesta dei
leader del Fonte Popolare, i suoi miti: George Habbash, Abu Ali
Mustafa, Ahmad Al Sadat. Gli si erano illuminati gli occhi al sapere
che le prime nozioni di cosa fosse l'immensa tragedia della Palestina
mi erano stati impartiti dai miei genitori, comunisti convinti. Mi
aveva chiesto quali erano i leader di sinistra italiani davvero
rivoluzionari, del passato, e gli avevo risposto Antonio Gramsci, e
quelli di oggi, mi ero preso tempo, gli avrei risposto oggi. Abu
Mohammed giace ora in coma nell'ospedale dove lavorava, si è
risparmiato la mia deludente risposta. Verso mezzanotte ho ricevuto
un'altra chiamata, questa volta da Eva, l'edificio in cui si trovava
era sotto attacco. Conosco bene anche quel palazzo, al centro di Gaza
city, ci ho passato una notte con alcuni amici fotoreporters
palestinesi, è la sede dei principali media che stanno cercando
di raccontare con immagini e parole la catastrofe innaturale che ci ha
colpito da dieci giorni. Reuters, Fox news, Russia today, e decine di
altre agenzie locali e non, sotto il fuoco di sette razzi partiti da un
elicottero israeliano. Sono riusciti a evacuare tutti in tempo prima di
rimanere seriamente feriti, i cameramen, i fotografi, i reporter, tutti
palestinesi dal momento in cui Israele non permette a giornalisti
internazionali di mettere piede a Gaza. Non ci sono obbiettivi
«strategici» attorno a quel palazzo, né resistenza
che combatte l'avanzata dei mortiferi blindati israeliani, ben
più a nord. Chiaramente qualcuno a Tel Aviv non riesce a
digerire le immagini dei massacri di civili che si sovrappongono a
quelle dei briefing, con rinfresco offerto ai giornalisti prezzolati.
Tramite queste conferenze stampa stanno dichiarando al mondo che gli
obbiettivi delle bombe sono solo terroristi di Hamas, e non quei
bambini orrendamente mutilati che tiriamo fuori ogni giorno dalle
macerie. A Zetun, una decina di chilometri da Jabaliya, un edificio
bombardato è crollato sopra una famiglia, una decina le vittime,
le ambulanze hanno atteso diverse ore prima di poter correre sul posto,
i militari continuano a spararci a contro. Sparano alle ambulanze,
bombardano gli ospedali. Pochi giorni fa una «pacifista»
israeliana mi avevo detto a chiare lettere che questa è una
guerra dove le due parti contrapposte utilizzano tutte le loro armi a
disposizione. Invito allora Israele a sganciarci addosso una delle sue
tante bombe atomiche che tiene segretamente stivate contro tutti i
trattati di non proliferazione nucleare. Ci tiri addosso la bomba
risolutiva, terminino l'inumana agonia di migliaia di corpi maciullati
nelle corsie sovraffollate degli ospedali che ho visitato. Ho scattato
alcune fotografie in bianco e nero ieri, alle carovane di carretti
trascinati dai muli, carichi all'inverosimile di bambini sventolanti un
drappo bianco rivolto verso il cielo, i volti pallidi, terrorizzati.
Riguardando oggi quegli scatti di profughi in fuga, mi sono corsi i
brividi lungo la schiena. Se potessero essere sovrapposte a quelle
fotografie che testimoniano la Naqba del 1948, la catastrofe
palestinese, coinciderebbero perfettamente. Nel vile immobilismo di
stati e governi che si definiscono democratici, c'è una nuova
catastrofe in corso da queste parti, una nuova Naqba, una nuova pulizia
etnica che sta colpendo la popolazione palestinese. Fino a qualche
istante fa si contavano 650 morti, 153 bambini uccisi, più di
3000 i feriti, decine e decine i dispersi. Il computo delle morti
civili in Israele, fortunatamente, rimane fermo a quota 4. Dopo questo
pomeriggio il bilancio sul versante palestinese va drammaticamente
aggiornato, l'esercito israeliano ha iniziato a bombardare le scuole
delle Nazioni Unite. Le stesse che stavano raccogliendo i migliaia di
sfollati evacuati dietro minaccia di un imminente attacco. Li hanno
scacciati dai campi profughi, dai villaggi, solo per raccoglierli tutti
in posto unico, un bersaglio più comodo. Sono tre le scuole
bombardate oggi. L'ultima, quella di Al Fakhura, a Jabiliya, è
stata centrata in pieno. Più di 40 morti. In pochi istanti se ne
sono andati uomini, anziani, donne, bambini che si credevano al sicuro
dietro le mura dipinte in blu con i loghi dell'Onu. Le altre 20 scuole
delle Nazioni Unite tremano. Non c'è via di scampo nella
Striscia di Gaza, non siamo in Libano, dove i civili dei villaggi del
Sud sotto le bombe israeliane evacuarono al nord, o in Siria e in
Giordania. La Striscia di Gaza da enorme prigione a cielo aperto, si
è tramutata in una trappola mortale. Ci si guarda sconvolti e ci
si chiede se il consiglio di sicurezza dell'Onu riuscirà questa
volta a pronunciare un'unanime condanna, dopo che anche le sue scuole
sono prese di mira. Qualcuno fuori di qui ha deciso davvero di fare un
deserto, e poi chiamarlo pace. Ci aspetta una lunga nottata sulle
ambulanze, anche se l'alba da queste parti è ormai una chimera.
I ripetitori dei cellulari lungo tutta la Striscia sono stati
distrutti, abbiamo rinunciato a contarci. Spero di riuscire a rivedere
un giorno tutti gli amici che non posso più contattare, ma non
mi illudo. Qui a Gaza siamo tutti bersagli ambulanti, nessuno escluso.
Mi ha appena contattato il consolato Italiano, dicono che domani
evacueranno l'ultima nostra concittadina. Una anziana suorina che da
ventanni anni abitava nei pressi della chiesa cattolica di Gaza,ormai
adottata dai palestinesi della Striscia. Il console mi ha gentilmente
pregato di cogliere quest'ultima opportunità, aggregarmi alla
suora e scampare da questo inferno. L'ho ringraziato per la sua
offerta, ma da qui non mi muovo, non ce la faccio. Per i lutti che
abbiamo vissuto, prima ancora che italiani, spagnoli, inglesi,
australiani, in questo momento siamo tutti palestinesi. Se solo per un
minuto al giorno lo fossimo tutti, come molti siamo stati ebrei durante
l'olocausto, credo che tutto questo massacro ci verrebbe risparmiato.
Restiamo umani. Vittorio Arrigoni da Il manifesto, 7 gennaio 2009