Le implicazioni e le pesanti conseguenze, simboliche e pratiche,
della
iniziativa di legge che ha istituito il cosiddetto “Giorno del
Ricordo”
sono sotto agli occhi di tutti. Meno noti sono gli interessi
materiali
che motivano concretamente queste operazioni...
TERRE IRREDENTE
di A. Martocchia
responsabile politico del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia
La propaganda italiana sulle “foibe” e l’”esodo”, sempre affiorante
nel
corso della Guerra Fredda e poi pesantemente scatenata a livello di
massa dalla metà degli anni Novanta, è basata su molte
menzogne e
sull´uso di lenti di ingrandimento /ad hoc/ che fanno apparire
come
abnormi fatti sostanzialmente assimilabili a quelli accaduti ovunque
durante la Seconda Guerra Mondiale.
Questa propaganda ha due scopi: da una parte, è la vendetta
morale di
chi ha perso la guerra ma vorrebbe vincerla adesso dal punto di
vista
del giudizio storico; contemporaneamente, c´è un
interesse
geo-strategico molto concreto ad agitare queste questioni per
esercitare
pressioni ai danni dei nuovi piccoli Stati balcanici, sorti dallo
squartamento della Jugoslavia. Essi non possono infatti
efficacemente
difendersi né dalle campagne propagandistiche né
tantomeno dalle mire
neocoloniali dei paesi limitrofi.
Il contenzioso sul confine orientale dell’Italia, pur presentandosi
a
prima vista nella forma oscena del revisionismo storico, è
insomma ben
altro che non un semplice dibattito storiografico. Lo scopo che ci
prefiggiamo con questo scritto è quello di fare luce anche
sugli
aspetti
concreti, materiali della complessa /querelle/.
Ritorneremo?
8 novembre 1992. Gianfranco Fini viene ritratto al fianco di Roberto
Menia, all’epoca segretario della federazione MSI-DN di Trieste,
mentre,
in barca al largo dell’Istria, lanciano in mare bottigliette
tricolori
recanti il seguente testo:
<< /Istria, Fiume, Dalmazia: Italia!... Un ingiusto confine
separa
l’Italia dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane,
venete,
italiche. La Yugoslavia/ [con la Y, sic] /muore dilaniata dalla
guerra:
gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del
1975
oggi non valgono più... E’ anche il nostro giuramento:
“Istria,
Fiume,
Dalmazia: ritorneremo!”/ >>.(1) 1992: MSI irredentista
Roberto Menia, oggi parlamentare della Repubblica, già
all’epoca
doveva
la sua notorietà in particolare a certe spedizioni in Carso,
insieme ad
altri suoi camerati per demolire a colpi di piccozza le targhe
bilingui
dedicate alla liberazione dal nazifascismo, ed agli insulti razzisti
rivolti a suoi noti concittadini di lingua slovena, per i quali si
era
beccato qualche denuncia penale. Egli si vanta tuttora del fatto che
ogni anno, a ottobre, usa festeggiare l’anniversario della Marcia su
Roma. Tra le “frasi celebri” di Roberto Menia, cresciuto in quegli
ambienti triestini tra i cui slogan spicca “/Bilinguismo mai!”/,
ricordiamo ad esempio: “/L’Istria diventi pure un’euroregione.
Purché
torni all’Italia/”, ed anche: “/Abolire il Trattato di Osimo,
restituire
a Trieste la Zona B, annullare il Trattato di pace in base al quale
abbiamo perso l’Istria, Fiume e Zara, e finalmente chiedere la
restituzione della Dalmazia/”.(2)
Saltiamo al 30 marzo 2004, giorno in cui il Parlamento della
Repubblica
Italiana proclama la data del 10 febbraio “Giorno del ricordo”. Per
l’occasione, i deputati delle destre, e primi tra tutti i
governativi
di
/Forza Italia/ (sic) ed /Alleanza Nazionale/ (sic), inclusi i
suddetti
Fini e Menia, festeggiano la votazione della legge tra brindisi e
lacrime di gioia.
Che cosa hanno da festeggiare o da commuoversi, quei deputati? Il 10
febbraio è l’anniversario del trattato di pace di Parigi
(1947)
con cui
si pose formalmente termine alle ostilità della Seconda
Guerra
Mondiale
tra Italia e Jugoslavia. Secondo il testo ufficiale, «/la
Repubblica
riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di
conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle foibe/». Di fatto dunque il 10 febbraio
è stato
assunto come data simbolica dell’inizio del cosiddetto “esodo degli
italiani da Istria e Dalmazia”. Come nelle tesi tradizionalmente
sostenute dalla pubblicistica di estrema destra, inoltre, per questo
“esodo” viene addotta come causa la presunta persecuzione, o
“pulizia
etnica”, attuata in quelle terre dagli slavi contro gli italiani “in
quanto tali”. Tale persecuzione sarebbe esemplificata da orrendi
crimini
di guerra quali, appunto, le “foibe”.
Crimini di guerra sul “confine orientale” ed “esodo degli italiani”
Le foibe sono fenditure profonde provocate dall’erosione millenaria
delle acque nelle rocce calcaree. Esse sono sempre state usate dagli
abitanti delle zone carsiche per far sparire ciò di cui
intendevano
disfarsi: oggetti, carcasse di animali, ma anche vittime di tragedie
private o delle violenze della storia. La storiografia di destra ha
offerto versioni contraddittorie, ma sempre truculente, su presunte
uccisioni di massa di “molte migliaia di italiani”, gettati (vivi?
morti?) in fondo alle “foibe” da parte dei “comunisti slavi” nel
corso
della Guerra di Liberazione. Tuttavia, del contenuto di queste
presunte
fosse comuni in termini di cadaveri poco si riesce a capire, nella
ridda
delle versioni propagandistiche. È noto inoltre che le foibe,
il
cui
utilizzo viene correntemente attribuito solo ai partigiani di Tito,
furono utilizzate per le frettolose sepolture delle vittime degli
scontri armati da tutti quelli che combatterono in quei luoghi.
Durante la Guerra Fredda, sui media italiani la campagna sulle
“foibe”
emergeva occasionalmente, legandosi alle operazioni di propaganda
psicologica dei servizi segreti - nella zona giuliana strutturati e
cresciuti attorno alla Decima Mas, poi trasformatasi in Gladio: chi
ricorda il “nasco” di Aurisina/Nabrezina, in Carso? La campagna
sulle
“foibe” era stata però iniziata dalla stampa nazista
dell´/Adriatisches
Küstenland/ (Cernigoi 2002, 2005). Essa ha ripreso particolare
enfasi
dopo il 1991 come forma di pressione su Slovenia e Croazia, e si
avvale
oggi del contributo in senso revisionista di storici “democratici”,
fino
a lambire i libri di testo delle scuole dell´obbligo.(3)
Per compiere l’operazione istituzionale denominata “Giorno del
Ricordo”,
le autorità italiane si sono avvalse di consulenze storiche
parziali,
faziose, o di nessuna consulenza storica. Non è stato tenuto
in
alcun
conto il lavoro degli studiosi non revanscisti: in particolare,
è stato
censurato il lavoro realizzato dalla Commissione mista
italo-slovena.(4)
Nel corso di dieci anni di studi e ricerche, questa commissione
aveva
elaborato un rapporto finale che, pur nei limiti che ciascuno
può
rilevare a seconda della propria personale prospettiva
politico-ideologica, rappresenta comunque un punto d’incontro di
diversi
punti di vista su quelle vicende.
Niente da fare. Il Presidente Ciampi quest’anno, nell’ambito delle
celebrazioni del Giorno del Ricordo, ha attribuito una medaglia
d’oro a
Norma Cossetto, uccisa da antifascisti in Istria. La motivazione
recita:
«/Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai
partigiani
slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri
e
poi barbaramente gettata in un foiba. Luminosa testimonianza di
coraggio
e di amor patrio/». Nel suo recente libro “Dossier Foibe”
Giacomo
Scotti
ha documentato come Norma Cossetto, figlia del podestà di
Visinada,
fosse la responsabile locale della Gioventù Universitaria
Fascista
(GUF). Norma Cossetto figura insieme ad altri fascisti e
collaborazionisti nell’elenco dei 26 nominativi cui è stata
attribuita
l’onoreficenza per la Giornata del Ricordo 2006. Questa “luminosa
testimonianza di amor patrio” rivendicò sempre il suo
fascismo,
tanto da
inneggiare a Mussolini davanti a chi la catturò ed uccise.
Dal
verbale
del capo dei Vigili del Fuoco di Pola non emerge nessuno dei
particolari
efferati che sono generalmente riferiti riguardo alla sua uccisione:
Scotti elenca le contraddizioni; Ciampi invece, evidentemente, non
se
ne
cura proprio.
Neanche l’allora presidente Scalfaro si curò di verificare
che
cosa
effettivamente era o non era stato trovato in fondo alla “foiba di
Basovizza” quando, una decina di anni fa, firmò il decreto
con
cui
questa veniva proclamata monumento di interesse nazionale. È
stato
mostrato (Cernigoi 2005) che non esiste alcun elemento concreto che
possa far ritenere che in fondo alla foiba si trovino o siano stati
trovati cumuli di cadaveri di italiani sterminati; al contrario, la
foiba, svuotata nel primissimo dopoguerra da carcasse di animali e
cadaveri di soldati morti in combattimento, fu destinata a discarica
comunale (sic) dal sindaco democristiano di Trieste dell’epoca,
Gianni
Bartoli - il quale era, per inciso, anche il compilatore del primo
elenco di “infoibati”.
A proposito di elenchi: non ce n’è uno che sia affidabile. Un
trucco
spesso usato è quello di definire “infoibati” tutte le
persone
scomparse, ma non si disdegnano le falsificazioni grossolane.
All’inizio
di marzo 2006 è stato reso noto un elenco di 1048 nominativi
di
persone
deportate dalla provincia di Gorizia ad opera del IX Korpus nel
maggio
1945. L’ANSA e molti quotidiani italiani ne hanno subito
approfittato:
“/Quei 1048 nomi riemersi dalle foibe/”, titolava la velina di Paolo
Rumiz su Repubblica del 10/3/2006. Eppure, tra i nomi contenuti
nell’elenco ci sono 110 persone che sono ritornate vive e vegete; la
stragrande maggioranza dei nominativi riguarda militari,
nazifascisti o
collaborazionisti - persino /domobrani/, cioè sloveni
filo-fascisti -
internati in Slovenia ed in parte, evidentemente, giustiziati, in
parte
morti per malattie. Manca l’ubicazione dei cadaveri. Secondo lo
storico
sloveno Boris Gombac, “gli architetti della tensione sul confine
hanno
usato questi elenchi a fini propagandistici”.(5)
Non è questa la sede per una disamina completa del lavaggio
del
cervello
compiuto ogni anno a latere della “Giornata del Ricordo”. Ci
limitiamo
qui a richiamare alcuni aspetti della disinformazione corrente,
rinviando per l’approfondimento agli ottimi studi e materiali
prodotti
negli ultimi anni, frutto essenzialmente - in un contesto ufficiale
ed
accademico purtroppo tutto piegato alle opportunità politiche
-
del
lavoro volontario di pochi intellettuali indignati.(6)
Facciamo di nuovo qualche passo indietro. Dopo la fase
“tardo-risorgimentale” - la Prima Guerra Mondiale, la
italianizzazione
forzata e l’irredentismo (si pensi all’”impresa di Fiume” di
Gabriele
D’Annunzio) - sotto il Fascismo l’occupazione coloniale di vasti
territori, da Lubiana a Pristina (1941-1943), era stata
particolarmente
violenta. Vi erano campi di concentramento italiani in territorio
slavo,
ad esempio a Rab/Arbe, ma anche campi per prigionieri jugoslavi in
territorio attualmente italiano, come a Gonars in Friuli.(7) Il
tasso
di
mortalità in questi luoghi era molto alto. I crimini di
guerra
commessi
dall’esercito d’occupazione italiano - villaggi bruciati,
fucilazioni
di
massa, eccetera - sono regolarmente omessi dalle narrazioni
ufficiali e
“pubbliche”. Essi non fanno, in effetti, parte della memoria
collettiva
degli italiani; ed i responsabili di quei crimini furono protetti e
si
riciclarono nell’Italia del dopoguerra.(8)
Dopo l´8 settembre 1943, Trieste ed il suo entroterra
divennero
parte
della regione del Terzo Reich denominata /Adriatisches
Küstenland/. In
questa regione i collaborazionisti di ogni “etnia” - fascisti
italiani
di Salò ma anche /domobrani/, /ustascia/ e /cetnici/ - si
resero
responsabili di crimini difficilmente riassumibili in questa sede...
La
risposta dei partigiani fu quella necessaria e giusta, e ben
raramente
sconfinò nelle vendette personali. Di fatto, queste ultime,
regolarmente
sottoposte a giudizio dai tribunali jugoslavi nel dopoguerra,
causarono
assai meno lutti (parliamo di cifre con uno o due zeri di meno)
nella
regione giuliana di quanto nello stesso periodo non successe, ad
esempio, in Piemonte o in Emilia-Romagna - tanto per citare un dato:
furono circa 20.000 i collaborazionisti passati per le armi solo a
Milano e provincia.
In un contesto italiano quale quello attuale, segnato da un
revisionismo
dilagante di segno nazionalista e revanscista, cadono nel vuoto le
proposte, reiterate sia da parte slovena che da parte croata, di
incontri ed atti simbolici per una definitiva riconciliazione delle
tre
parti: a Ciampi, o al suo successore, si chiede di rendere omaggio
alle
vittime slave dei campi di concentramento di Gonars o Rab/Arbe, o
magari
andare anche sui luoghi dove le truppe di occupazione italiane
bruciarono villaggi e commisero eccidi di massa. Le controparti
slovena
e croata, dal canto loro, renderebbero omaggio alle “vittime delle
foibe”. Ciampi però non si degna nemmeno di replicare a
Drnovsek
e Mesic
su queste ipotesi: d’altronde, anche lui fu soldatino dell’esercito
di
occupazione italiano nei Balcani, all’epoca - in Kosovo, per la
precisione.
Veniamo al cosiddetto “esodo da Istria e Dalmazia”. Le ragioni di
esso
furono molteplici, ma non si può proprio dire, come fa certa
storiografia neofascista/postcomunista, che esso fu dovuto ad una
ostilità di carattere nazionale. Da una parte, il moto
migratorio dalle
campagne alle città in quell´epoca era generalizzato, e
comportò ad
esempio anche la emigrazione di triestini ed istriani verso
città
industriali più grandi, ed anche verso l´estero.
Dall’altra,
interagirono fattori di carattere politico-ideologico. Tra chi
abbandonava la Jugoslavia c’erano: persone semplici, soggette alla
propaganda anticomunista violentissima veicolata soprattutto dal
clero;
anticomunisti convinti; persone accusate o timorose di essere sotto
inchiesta per collaborazionismo; ed anche veri e propri criminali
fascisti. Non a caso in quel periodo Trieste pullulava -
letteralmente
-
di esuli sloveni, croati e serbi legati ai movimenti fascisti e
nazisti
delle loro terre, che avevano anch´essi perso la guerra. Non
solo: tra
gli esuli di lingua italiana vanno annoverati i tanti “regnicoli”,
vale
a dire quegli italiani della penisola trapiantati in Istria e
Dalmazia
solo da pochissimi anni, essenzialmente nel periodo tra le due
guerre
mondiali. Sparsi tra questi, anche fanatici irredentisti italiani,
dei
quali possiamo facilmente immaginare la posizione politica rispetto
alla
nascita di una Jugoslavia plurinazionale e socialista. Insomma, ad
andarsene erano sia italiani che slavi, povera gente in cerca di
fortuna
e ricchi possidenti in fuga, persone che non nutrivano fiducia nella
costruzione del socialismo o anche persone nient’affatto
politicizzate,
insieme a fascisti e - dal luglio 1948 in poi - anche comunisti
filosovietici: dopo la Risoluzione del Cominform se ne andarono
infatti
tanti lavoratori, rappresentanti della classe operaia delle
città e dei
porti costieri, come ad esempio i portuali di Pola. Va detto poi
che,
in
seguito al trattato di pace di Parigi, agli abitanti di Fiume,
Istria e
Dalmazia fu accordata la facoltà di scegliere in tutta
onestà se
accettavano la nuova sovranità jugoslava, o se preferivano
andar
via:
per questo chi sceglieva di andarsene veniva tecnicamente definito
/optante/, e non /esule/.
L’afflusso di decine e decine di migliaia di persone a Trieste
è
durato
molti anni, concentrandosi soprattutto tra il 1947 ed il 1954. In un
certo senso esso non è mai smesso, per ragioni economiche
come
anche,
oggigiorno, per gli effetti della distruzione della Jugoslavia. Tale
afflusso ha pesantemente aggravato la crisi di una città che
sin
dalla
fine della Prima Guerra Mondiale fatica a ritrovare un proprio ruolo
ed
una propria identità. Da grande porto della Mitteleuropa qual
era,
Trieste diventa infatti, nel 1918, un centro periferico e tutto
sommato
marginale del giovane Regno d’Italia; “importante” solo
simbolicamente
e
come base di lancio delle “epiche imprese” degli irredentisti. Dopo
la
Seconda Guerra Mondiale, che l’ha vista teatro di gravissimi eventi
bellici, essendo collocata in una posizione geopolitica assai
scomoda,
Trieste sembra soffrire di una crisi esiziale. La popolazione,
già
scissa per ideali, culture e condizioni economiche differenti ed
instabili, assiste con comprensibile diffidenza e risentimento
all’afflusso di tanta gente da Istria e Dalmazia; gente per la quale
bisognerà trovare alloggio e lavoro. In molti, in effetti,
proseguiranno
il loro viaggio ben oltre Trieste, fino alle Americhe ed in
Australia
talvolta, o almeno verso tante diverse regioni d’Italia. In tutto si
parla di solito di circa 350mila persone.(9)
Degli italiani rimasti in Jugoslavia, invece, o di quelli che
addirittura ci si sono intenzionalmente trasferiti per convinzioni
ideologiche, per decenni si è preferito non parlare.
D’altronde,
un
aspetto piuttosto evidente, a tutt’oggi, nella problematica relativa
agli istrodalmati, è quello della polarizzazione tra “esuli”
e
“rimasti”. La comunità italofona, oggi stimata in circa
30mila
persone,
è in una posizione effettivamente difficile, con l’aria che
tira
dal
1989 in poi. Qualcuno di loro si ricicla e prova a spacciarsi per
super-italiano, mettendosi in vario modo al servizio degli interessi
di
“oltrefrontiera”; qualcun altro prova, con fatica, a costruire
relazioni
di buona vicinanza con tutti, salvaguardando e valorizzando da una
parte
la propria radice culturale italiana, ma usando questa
specificità
soprattutto per il bene della sua terra - vale a dire, anche per la
democratizzazione della Croazia e della Slovenia e per la
integrazione
in un contesto europeo nel quale, si presume, tutte le frontiere
sarebbero destinate a cadere. È d’altronde innegabile che
proprio queste
fasce di popolazione, abitanti “a cavallo” dei confini e di etnia
“altra”, abbiano sofferto particolarmente per la situazione venutasi
a
determinare con le secessioni jugoslave, ovvero con la creazione di
ulteriori frontiere in un’area nella quale nessuna frontiera
può
avere
alcuna legittimità culturale o sociale.(10)
Destra-sinistra-destra-sinistra
In occasione del Giorno del Ricordo 2006, in pieno centro a Trieste
si
è
svolto un corteo, animato da cori inneggianti al duce e saluti
romani.
Oltre un centinaio di persone, appartenenti al Gruppo Unione Difesa
(GUD), hanno infatti voluto celebrare a modo loro, rivendicando la
restituzione di tutti i territori della Venezia Giulia passati sotto
la
sovranità jugoslava dopo la guerra. In piazza Goldoni i
manifestanti
hanno acceso alcuni fumogeni per protestare sotto il consolato
croato.
Dopo un breve comizio tenuto dai due candidati della lista
«Prima
gli
italiani» (sic), il corteo è tornato al punto di
partenza.
Tra le
ragioni fondative del GUD c’è pure la volontà di
contrastare la legge
(38/2001) di tutela della minoranza slovena.
Si dirà: i neofascisti ci sono sempre stati. La novità
gravissima dal
punto di vista politico, però, è il ruolo svolto dalla
sinistra in
queste vicende almeno a partire dalla metà degli anni
Novanta.
Era il 21 agosto 1996 quando, con un articolo sull’Unità,
l’allora
segretario del PDS di Trieste, Stelio Spadaro, sollevò a
livello
nazionale il “problema” delle foibe, auspicando una «severa
autocritica»
della sinistra, da lui ritenuta «/colpevole di aver rimosso la
tragedia
delle foibe e i crimini di Tito/». L’anno successivo, le
dichiarazioni
di Luciano Violante - allora presidente della Camera - sui “ragazzi
di
Salò” destarono ulteriori, più note polemiche.
Il 18 marzo 1998 si svolse al Teatro Verdi di Trieste un incontro di
Luciano Violante e Gianfranco Fini con gli studenti sulla storia
della
Venezia Giulia. In quella occasione Violante disse: “/Ci sono state
delle responsabilità gravi del movimento comunista e
responsabilità
gravi del movimento fascista: non si tratta di contrapporre una
memoria
all’altra, ma di capire e poi di misurarsi con l’altro sulla base
della
propria memoria/”. Anche per Fini era necessario “/definire una
memoria
storica condivisa/”. Un netto dissenso sui contenuti del confronto
fu
espresso da 75 storici italiani, tra cui Angelo Del Boca, che in un
documento denunciarono «/l’infondatezza storica
dell’argomentazione e
l’inconsistenza delle richieste avanzate/» da Violante e da
Fini:
«/iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la
verità
storica e con i valori fondamentali della Costituzione/».(11)
Il momento più grave di questo ri-orientamento delle
“sinistre”
nel
senso del revisionismo storico e del revanscismo nazionale si
è
avuto
proprio attorno alla istituzione del “Giorno del Ricordo”. Piero
Fassino, segretario dei DS, ha rilasciato ignobili dichiarazioni in
una
conferenza stampa pubblica a Trieste poche settimane prima della
votazione del provvedimento, il 5 febbraio 2004. Egli ha affermato
testualmente che l’aggressione fascista alla Jugoslavia non
giustificava
né “/la perdita dei territori/” né l’”/esodo degli
istriani/”. Si è
trattato della prima proclamazione palesemente irredentista da parte
di
un leader della sinistra italiana. Nella lettera inviata alla
federazione degli esuli, distribuita nel corso della conferenza
stampa,
si legge: “/Il PCI sbagliò perché non avvertì
le
tragiche conseguenze
dell’espansionismo slavo, che nel vivo della lotta antifascista si
era
manifestato in comportamenti e linguaggi propri delle contese
territoriali e nazionalistiche presenti da decenni in quelle
terre/”.
Il
PCI avrebbe sbagliato a vedere la vicenda del confine orientale come
una
lotta tra fascismo ed antifascismo; essa andrebbe letta piuttosto
come
“/una delle manifestazioni di quel nazionalismo pericoloso che ha
prodotto tante sofferenze in questa parte dell’Europa e che torna a
risorgere ogni tanto come s’è visto nel decennio scorso nei
Balcani/”.
Un riferimento alla recente guerra fratricida ed imperialista in
Jugoslavia, alla quale però - si badi bene - Fassino ha
partecipato
attivamente, come esponente del governo D’Alema nel 1999.
Dopo avere dato questo spettacolo senza precedenti a Trieste, gli
esponenti del nazionalismo italiano di marca diessina ed
ex-antifascista
hanno coronato l’opera con il voto in Parlamento.
Gli anni passano veloci. Insieme al “Giorno del Ricordo”, anche vie
e
piazze della penisola vengono dedicate ai “martiri delle foibe”;
vengono
poi prodotti e trasmessi dalla televisione di Stato telefilm e
/spot/
di
ispirazione slavofoba ed antipartigiana. La /fiction/ “Il Cuore nel
Pozzo”, commissionata dal Ministro delle telecomunicazioni
Gasparri,(12)
rappresenta i partigiani slavi come efferati stupratori che danno
fuoco
agli asili d’infanzia; il suo attore protagonista, un cabarettista
“di
sinistra”, ritiene che “/la fiction ha fatto sapere a 12 milioni di
italiani che cosa sono state le foibe/”. Nel corso della cerimonia
per
il “Giorno del Ricordo” tenutasi nel 2006 a Roma, in Campidoglio,
è il
sindaco Veltroni - che nel frattempo pare essere diventato
“foibologo”
per vocazione, visti gli interventi profusi sul tema persino su
riviste
femminili come /Vanity Fair/ - a teorizzare che si deve
“/riconoscere
il
sopruso e la violenza di cui furono vittime non solo fascisti, ma
anche
antifascisti, semplici civili privi di una particolare convinzione
politica. Italiani colpevoli solo di essere tali”/.
Anche sul versante della “sinistra alternativa” le cose non sono
proprio
limpide.
Nel settembre 2003, il prosindaco di Venezia Bettin, notoriamente
vicino
agli ambienti dell’ex Autonomia padovana (“Centri sociali del
nordest”),
ed il sindaco di Venezia Paolo Costa, con l’assenso, controfirmato,
dell’assessore all’ambiente Paolo Cacciari (PRC), decretano il
cambio
di
nome del Piazzale Tommaseo a Marghera, intitolato oggi ai “martiri
delle
Foibe”. Parte del PRC locale, giustamente dissenziente, indice una
manifestazione di protesta, ovviamente pacifica, contro il
cambiamento
revisionistico della toponomastica. Vi partecipano anche i Comunisti
Italiani, I Verdi Colomba (Boato), i Cobas Scuola e la Rete
Antirazzista. È il 28 settembre. I “Centri sociali del
nordest”
arrivano, prima minacciano e poi aggrediscono sia la rappresentanza
di
Rifondazione, sia un gruppo di AN, intervenuto ovviamente per motivi
opposti, costituendo di fatto un servizio d’ordine di picchiatori
alla
cerimonia revisionistica. In cinque finiscono in ospedale. Una
provocazione mirata, dunque, a rendere ingestibile la protesta di
piazza, a difendere con la violenza la scelta di ribattezzare
Piazzale
Tommaseo, ad intimorire quei settori del PRC che caldeggiano
coerentemente una rivalutazione dell’antifascismo e della memoria
storica della Resistenza.
L’azione degli squadristi dei centri sociali “Pedro” e “Rivolta”
viene
poi rivendicata dal loro capo, Luca Casarini: “/Noi personalmente
approviamo la nuova intitolazione della piazza, perchè ci
sembra
importante non solo tornare in maniera critica su una delle pagine
più
tragiche della storia del ‘900 nel nostro paese, ma anche per
togliere
alla destra fascista qualsiasi alibi e vittimismo legato a questa
vicenda... Risulta evidente che dentro Rifondazione si annidano
alcuni
personaggi nostalgici che hanno organizzato per il giorno della
commemorazione una presenza in piazza per contestarla... Noi siamo
contro lo stalinismo e il fascismo/”.(12)
In seguito a questo episodio, la maggioranza della Federazione PRC
di
Venezia promuove un incontro pubblico sul tema delle “foibe”, al
quale
interviene lo stesso Bertinotti, rilasciando dichiarazioni
inequivocabili. Bertinotti afferma che in passato la Resistenza
sarebbe
stata “angelizzata”, e presunti gravi crimini sarebbero stati
nascosti.
È il 13 dicembre 2003. Nei mesi successivi, l’/input/
bertinottiano
sortisce il suo perverso effetto: da una parte viene aperto sulle
pagine
di Liberazione uno scivoloso dibattito sulla “nonviolenza”, assurta
a
nuovo valore ri-fondativo della Rifondazione; dall’altro, la
maggioranza
del PRC in tante realtà locali si presta ad operazioni di
segno
revisionista, quali le ulteriori re-intitolazioni di vie e piazze -
ad
esempio a Cesena.(13) L’operazione prosegue fin dentro il VI
Congresso
del Partito, quello della /nuova Bad Godesberg/.(14) L’attacco
finale
di
Bertinotti contro la “angelizzazione della Resistenza” viene portato
a
termine proprio a Venezia, dove era stato avviato.(15)
Dalle divisioni tra comunisti alla distruzione della Jugoslavia
Tra le tante amarezze di questi anni, dobbiamo dunque constatare
come
l’apice di questo revisionismo sia stato toccato proprio al tornante
del
60.esimo anniversario della Liberazione. È stato raramente
ricordato,
per questo anniversario, che Trieste fu liberata dal IX Korpus
jugoslavo, e che la popolazione slava era e resta una grande
percentuale
degli abitanti, soprattutto nei quartieri popolari, nelle periferie
operaie e nei sobborghi carsici, che sono tuttora di lingua slovena.
Nell’autunno del 2004, per i 50 anni di “Trieste italiana” sono
state
organizzate svariate iniziative, sulle quali le voci critiche da
sinistra sono state poche e flebili. Eppure, nell’occasione Trieste
ha
dovuto subire cerimonie iper-militarizzate, nelle quali la
componente
slovena della città era assente. Nota bene: nel marzo 2006,
il
decreto
attuativo della Legge di tutela 38/2001 per la minoranza slovena
è stato
bloccato dal governo italiano.
Quella giocata da tale schieramento nazionalista /bipartisan/
è
una
partita ambiziosa. Essa passa attraverso la demolizione della
memoria
della Resistenza, anzi attraverso la sua demonizzazione, per poter
giungere alla cosiddetta “memoria condivisa”: una lettura della
storia
nazionale che si vuole /super partes/, consistente nella
archiviazione
della dicotomia fascismo-antifascismo e nella equiparazione e
scambio
di
ruolo tra vittime e carnefici. Lo scopo di tutto questo è la
ri-costruzione di una coscienza /nazionale/, ricostruzione che passa
attraverso la negazione di storia e valori dell’Italia democratica,
dalla Resistenza ai rapporti con i paesi e popoli confinanti.
Diciamocelo francamente: alla demonizzazione del movimento di
Liberazione partigiano sul “fronte orientale”, effettuata dalle
destre
e
dai moderati con finalità di propaganda anticomunista e
nazionalista per
decenni, la sinistra italiana non ha mai ribattuto con la necessaria
controinformazione neanche in passato. Viceversa, nel tempo si sono
rafforzate concezioni assurde; e si è preferito rimuovere la
memoria
della Resistenza in quelle terre, che fu una lotta squisitamente
internazionalista, e mai di “pulizia etnica”. I partigiani
inquadrati
nelle formazioni jugoslave erano in effetti di /tutte/ le
nazionalità -
anche in Istria ed a Trieste - e le loro vittime (quelle della
guerra e
quelle di eventuali vendette personali) idem, poichè la
guerra
era tra
fascisti ed antifascisti, /non/ fra italiani e slavi. Le “pulizie
etniche” nella storia le hanno fatte, e continuano a farle, solo i
nazifascisti ed i loro epigoni.
In Italia la sinistra porta delle responsabilità anche per
non
aver
parlato abbastanza né del carattere colonialista ed
imperialista
del
fascismo né dei crimini commessi da camicie nere ed ufficiali
dell´esercito italiano all´estero, innanzitutto nei
Balcani. Oggi essa
preferisce evocare i “lager di Tito”: ecco allora che destra
fascista e
post-fascista e sinistra ex-comunista in queste campagne slavofobe
si
vanno alternando e sostenendo a vicenda, in un ping-pong alla
ricerca
di
legittimazione e spazio in un sistema politico-istituzionale votato
a
nuove imprese coloniali, e ad un nuovo ruolo di media potenza
regionale.
La riscrittura della storia sul nostro “confine orientale” è
strategica
per la riconquista economica dei Balcani.
Gli eventuali appassionati di una ipotetica disciplina, che
denomineremo
/dietro(ideo)logia,/ andranno magari alla ricerca delle radici
“ideali”
(meglio: /ideologiche/, nel senso della falsa coscienza) che possano
spiegare la persistente distanza tra la sinistra italiana ed il
mondo
jugoslavo. Una distanza fatta di ignoranza, diffidenza,
non-comprensione.
Per analizzare tali pregresse attitudini, questi appassionati
/dietroideologi/ possono sbizarrirsi a ricostruire all’indietro,
fino
alla rottura tra Jugoslavia e Cominform, nel 1948, o magari anche
prima.
La tensione tra comunisti di diverso orientamento - non sempre
coincidente con l’appartenenza nazionalitaria! - a partire dal 1948
fu
effettivamente forte; essa durò, nella sua forma più
acuta, fin verso il
1953, quando nel PCI si ritenne di poter trarre ulteriore
legittimazione
nazionale, istituzionale e sociale posizionandosi sulla questione di
“Trieste italiana” (Galeazzi 2005). A partire dal 1948 furono in
gran
parte rescissi i naturali legami tra comunisti italiani e comunisti
jugoslavi - compresi i cittadini jugoslavi di lingua italiana
presenti
in Slovenia e Croazia, la cui bandiera è rimasta in tutti
questi
decenni
il tricolore bianco, rosso e verde con la stella rossa al centro.
Eppure
attraverso quei legami scorreva la linfa dell’Italia partigiana,
dell’antifascismo combattente. I cimiteri, nei quali a centinaia
sono
sepolti i partigiani jugoslavi che combatterono sulla penisola
italiana
(soprattutto nel centro Italia, ad esempio a Visso nelle Marche)
sono
stati da allora dimenticati, come dimenticati sono pure gli episodi
eroici della lotta fianco a fianco sulle montagne dall’una come
dall’altra parte dell’Adriatico.(16)
Un’altra scuola /dietroideologica/ potrebbe invece soffermarsi
sull’attitudine nei confronti dei “socialismi reali”. E, anche qui,
non
senza ragione: a sinistra paiono infatti essere di più gli
appassionati
dei /libri neri del comunismo/ - al plurale, perchè ognuno si
scrive o
si immagina il capitolo che più gli aggrada e gli serve - che
non gli
estimatori dei pensatori comunisti e dei combattenti antifascisti.
Questo vezzo autodistruttivo è, certo, particolarmente
radicato
nella
cultura trotzkista, post-trotzkista e “socialista utopista”; ma
altrettanto spesso ad attaccare su questo versante dei “crimini del
comunismo” sono i nuovi convertiti alle magnifiche sorti e
progressive
del liberismo, e gli opportunisti di ogni risma.
Comunque, queste pur esistenti radici “ideologiche” della distanza
tra
i
due mondi, italiano e jugoslavo, oltre ad essere palesemente
anacronistiche, restano sovrastrutturali, e non sono in grado di
spiegare le ragioni concrete, materiali, della deriva e della
non-comprensione delle attuali vicende balcaniche da parte della
nostra
sinistra. Cerchiamo allora, piuttosto, di capire quali interessi
materiali si muovono dietro alle ideologie.
Il “grande gioco” dei Balcani
L’Italia è dentro fino al collo nella contesa imperialista
apertasi con
lo squartamento della Jugoslavia. Essa ha riconosciuto le secessioni
-
/divide et impera/ -, ha partecipato alla aggressione militare, ha
investito economicamente, ha occupato militarmente i territori. Il
contingente più significativo, tra quelli italiani dislocati
all’estero,
è proprio quello nei Balcani.
Il quadro a prima vista non presenta contraddizioni di carattere
politico-militare con i nuovi Stati confinanti: la Slovenia è
già dentro
a NATO ed UE, tanto che aerei italiani ne pattugliano il territorio
regolarmente (fatto simbolicamente grave); anche la Croazia è
in
ottimi
rapporti sia con la NATO che con la UE, ed attende di essere
inglobata
in entrambe al più presto. Ma le contraddizioni non sono
risolte
con
l’appartenenza alle medesime alleanze politico-militari: al centro
del
grande contenzioso nell’area ci sono infatti gli interessi di
carattere
strettamente economico, analizzabili seguendo le direttrici dei
“corridoi”. In particolare, relativamente alle aree che stiamo qui
considerando, l’Italia ha un interesse strategico nelle
modalità
di
realizzazione del Corridoio numero 5 - quello che dall’Ucraina
andando
verso ovest dovrebbe attraversare tutto il settentrione del nostro
paese, fino alla Val di Susa ed oltre, con una diramazione al porto
di
Trieste - e nel completamento dell’asse costiero adriatico.
Quest’ultimo
è il sistema ferroviario e stradale che percorre tutta la
costa
adriatica sul versante balcanico, da Trieste fino in Grecia, e che
ha
attualmente forti insufficienze strutturali. Lo sviluppo turistico
della
costiera croata richiederebbe interventi urgenti, la “torta” degli
appalti è cospicua, e l’Italia ha un ovvio interesse ad
orientare (o
impedire) gli investimenti come meglio le aggrada. Per l’interesse
nazionale italiano è poi prioritario vincere nella contesa
apertasi tra
i porti dell’area istriana: Trieste è infatti soggetta alla
fortissima
concorrenza di Koper/Capodistria, Pula/Pola, e Rijeka/Fiume,
città in
veloce sviluppo in termini di infrastrutture, anche in quanto
diramazioni del Corridoio 5. Notiamo per inciso che Pola ha assunto
una
importanza strategico-militare fondamentale, in quanto base per il
controllo dell’Adriatico, come dimostra il movimento di ufficiali e
basi
militari USA da qualche anno a questa parte.
In questo contesto, questioni come quella dell’acquisto della
cittadinanza italiana per gli abitanti dell’Istria non sono
questioni
secondarie.
Negli stessi giorni in cui i massmedia italiani letteralmente
impazzavano per il “Giorno del Ricordo”, il Parlamento italiano
approvava disposizioni di legge che rimettono in discussione il
Trattato
di Pace del 1947, che ha fin qui regolato le materie relative a
sovranità e cittadinanza in quelle aree! Il 9 febbraio il
Parlamento
approvava infatti definitivamente le “/Disposizioni per
l’acquisizione
della cittadinanza italiana da parte dei connazionali residenti
nelle
Repubbliche di Croazia e di Slovenia e dei loro discendenti/” (Legge
8/3/2006, n. 124). I beneficiari del provvedimento sono
potenzialmente
non solo tutti quelli che avevano cittadinanza e lingua d’uso
italiane
prima della guerra (circa 8000 di questi si sono già potuti
avvalere di
due provvedimenti transitori, risalenti risp. al 1992 ed al 2000),
ma
anche i loro discendenti, e senza limiti temporali per formulare la
richiesta. Gli interessati stavolta non sono dunque solo gli
appartenenti alle attuali minoranze in Croazia e Slovenia, di
madrelingua sicuramente italiana (circa 30mila persone), ma anche il
resto della popolazione autoctona slovena e croata, che l’Italia
fascista costrinse ad imparare ed usare solo l’italiano e ad
italianizzare i nomi ed i cognomi, ed i loro discendenti.
D’altronde,
che vuol dire “persone di lingua e cultura italiane”? “/Gli sloveni
e i
croati che faranno frequentare ai propri bambini scuole italiane, al
termine degli studi non avranno figli sloveni e croati che parlano
italiano, bensì figli italiani nel senso proprio del
termine/”.(17) Ecco
che allora gli Amici della Terra di Trieste ne traggono inquietanti
conclusioni:
<< /Il Ministero degli Esteri italiano ha aperto da mesi nuove
sedi
consolari in Istria e Dalmazia prevedendo oltre 100mila richieste di
persone desiderose delle possibilità di lavoro e assistenza
connesse
alla nuova cittadinanza. In forza di un’apposita legge
costituzionale
recente (n. 2/2000) questi neocittadini eleggeranno anche propri
rappresentanti nel Parlamento italiano oltre che in quello sloveno e
croato, concretando un regime anomalo di «doppia
sovranità».
L’iniziativa del Parlamento italiano infrange perciò i
principi
fondamentali del diritto internazionale ed europeo sulla
sovranità e
cittadinanza, sulla multilateralità e
sull’inviolabilità
dei trattati.
Il fatto non ha precedenti ed è una vera e propria bomba
politica
innescata negli equilibri politici italiani, europei ed
internazionali,
che può destabilizzare sia i rapporti italo-sloveno-croati
che
le
situazioni di tensione analoghe in Europa - da quella tedesca verso
Polonia e Repubblica Ceca, all’ungherese verso Romania, Slovacchia e
Serbia, a quelle dei Balcani tra serbi, musulmani, croati
erzegovesi,
albanesi, turchi e bulgari - e nelle principali aree di crisi
extraeuropee, inclusa l’arabo-israeliana. (...) Sul caso è
già stata
presentata (13/2) dall’eurodeputata slovena Mojca Drcar Murko /(18)/
un’interrogazione al Parlamento Europeo nella quale l’Italia viene
accusata di violare oltre al diritto internazionale la
sovranità
statale
della Slovenia/ >>.(19)
Eppure, per la Slovenia, che già fa parte della UE, le
conseguenze
pratiche della nuova legge italiana non saranno di grande rilievo.
Diverso è il caso per la Croazia, dove, mentre scriviamo, la
polemica
divampa. Se la annessione della Croazia alla UE non fosse imminente,
in
Istria e Dalmazia si avrebbero presto centomila “europei” (gli
italiani
o dichiaratisi tali), e tutti gli altri sarebbero “extracomunitari”,
privati dunque dei diritti di mobilità, accesso al mercato
del
lavoro,
eccetera, vigenti per chi possiede un passaporto della UE.
Perciò le
autorità croate hanno incominciato a fare i passi necessari
per
denunciare l’Italia alla Commissione Europea e al Consiglio
d’Europa;
hanno anche rinviato la firma della dichiarazione d’intenti per la
costituzione dell’Euroregione tra Friuli Venezia Giulia, Slovenia,
Carinzia austriaca, Istria e Quarnero. I rappresentanti ufficiali
della
comunità italiana in Croazia hanno reagito difendendo a spada
tratta il
provvedimento sulla cittadinanza italiana, e minacciando di...
ritirare
la fiducia al governo Sanader. Bisogna infatti ricordare che per
“diritto di etnia” la “Unione Italiana” dispone di un parlamentare
al
Sabor, Furio Radin, il quale appoggia (che strano...) la coalizione
della destra nazionalista, che fa perno sul famigerato HDZ. In
effetti,
la Croazia non ha alcun modo di impedire che la nuova legge italiana
venga promulgata ed applicata: anche perchè essa è del
tutto simmetrica
rispetto a quelle leggi che regolano l’acquisto della cittadinanza
croata per persone di “etnia croata” oggi abitanti in paesi vicini
come
la Bosnia-Erzegovina o anche in paesi lontanissimi (si calcola che
in
totale la Croazia abbia concesso la propria cittadinanza a
più
di un
milione di persone non abitanti sul suo territorio). Paese fondato
sul
nazionalismo e l’identità etnica, la Croazia adesso paga il
pegno del
nazionalismo e dell’inglobamento demografico altrui.
I “beni”
Altra materia del contendere è quella dell’indennizzo dei
beni
nazionalizzati dal regime socialista, e di quelli abbandonati dagli
“optanti”. Anche essa era stata regolata negli anni da tutta una
serie
di accordi, a partire dal Trattato di pace (1947) fino agli accordi
di
Osimo (1975) e di Roma (1983), ma... Il punto è che, seppure
ci
siano
ancora degli indennizzi da riscuotere in base a quegli accordi, essi
non
bastano più alle organizzazioni della “diaspora”
giuliano-dalmata,
strutturatesi e rafforzatesi nei decenni tanto da apparire oggi come
vera e propria /lobby/ di pressione in grado di condizionare le
scelte
di politica estera del nostro paese. Queste organizzazioni, infatti,
hanno deciso di trarre il massimo profitto possibile dalla
distruzione
della Jugoslavia, e dunque di alzare continuamente la posta in
gioco.
<< /Le vecchie case, i ruderi, i piccoli poderi lungo la costa
o
sulle
isole che i dalmati una volta erano costretti ad abbandonare per
cercare
fortuna altrove, oggi... valgono oro, complice lo sviluppo del
turismo.
Le casupole diroccate e i lotti che fino a qualche decennio fa sul
libero mercato erano poco quotati, oggi hanno raggiunto prezzi a dir
poco folli. Chi è rimasto in Dalmazia ed ha avuto la fortuna
di
non
perdere i propri beni a causa delle nazionalizzazioni e delle
confische
del dopoguerra, oggi può venderli guadagnando un sacco di
soldi... >>./(20)
La questione della “restituzione dei beni” va al di là delle
rivendicazioni di carattere nazionalitario: essa si inserisce
infatti
pure nel contesto delle rivendicazioni provenienti da svariati
soggetti
(dalla Chiesa Cattolica alla comunità ebraica a tutti i
possidenti di un
tempo), che chiedono la “restituzione” dei beni nazionalizzati in
epoca
socialista. In questa problematica generale si inserisce quella
specifica degli italiani. Il Trattato di pace, nel 1947, assegnava
all’Italia il dovere di risarcire i connazionali esuli come parte
dell’indennizzo di guerra dovuto alla Jugoslavia. Per capire come la
posta in gioco nel frattempo si sia trasformata facciamo un esempio
concreto. Su Il Gazzettino del 7/2/2006 veniva raccontata la vicenda
di
una famiglia di esuli istriani, attualmente residente in provincia
di
Venezia. Essa è riuscita ad ottenere, a distanza di quasi
sessant’anni,
la condanna del ministero dell’Economia e delle Finanze a versare
loro
un indennizzo supplementare rispetto a quello a suo tempo percepito,
a
copertura parziale del valore delle proprietà immobiliari
perdute e
delle società commerciali possedute a Pola: si trattava di un
piccolo
impero economico, comprendente una trattoria, una linea di trasporti
che
collegava Pola a Parenzo, una ditta di autotrasporti, una che si
occupava di vendita all’ingrosso, e ancora una rivendita di sali e
tabacchi, una società che si occupava del commercio di
carbone,
legna e
materiale da costruzioni...
La prima cosa che possiamo notare è che la condizione sociale
di
una
gran parte degli italiani abitanti Istria e Dalmazia prima del
crollo
del fascismo era quella dei benestanti. Si trattava degli esponenti
di
una borghesia mercantile, stanziata sulla costa, che aveva acquisito
il
proprio status sociale privilegiato sin dai tempi della Repubblica
di
Venezia. Questa borghesia si è vista espropriata e declassata
all’improvviso, nel 1945, a vantaggio essenzialmente delle masse
contadine, abitanti piuttosto l’entroterra e di idioma slavo.
Orbene: per tutto il suo patrimonio, il ministero del Tesoro aveva
liquidato alla suddetta famiglia di esuli poco più di 38
milioni
di
vecchie lire, pari ad un valore dei beni abbandonati, valutato al
1938
in 192mila lire. I beni sono stati cioè rivalutati “soltanto”
di
200
volte, a fronte di una svalutazione monetaria che supera oggi il
coefficiente di duemila. L’avvocato di famiglia sta portando avanti
il
contenzioso per ottenere il massimo possibile, in questo caso dallo
Stato italiano.
Il 18 gennaio 2006, il Ministro Fini ha avviato alla Camera l’iter
di
un
progetto di legge riguardante il ri-calcolo degli indennizzi degli
“esuli”.(21) L’iniziativa era in effetti rimasta “in sospeso” per
anni,
ed ha suscitato malumori nella /lobby/ degli esuli il fatto che Fini
se
ne sia ricordato solo quasi alla scadenza della Legislatura. Due le
ragioni possibili: da una parte, c’è un evidente utilizzo
della
questione come elemento di propaganda elettorale; dall’altra, in
termini
quantitativi la materia del contendere rischia di rivelarsi
poderosa,
determinando per lo Stato italiano una previsione di spesa notevole,
della quale nessun governo si fa volentieri carico. Perchè -
è bene
ricordarlo - a forza di vezzeggiare gli esuli, lo Stato italiano nel
secondo dopoguerra ci ha rimesso un sacco di soldi! Solo fino al
1975
lo
Stato aveva già speso 49 miliardi di lire per costruire
complessi
edilizi per 8.326 famiglie, senza contare gli alloggi IACP.
L’O.A.P.G.D.
- Opera per l’Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati -
trovò
lavoro
in poco tempo a 60.542 persone. Gli esuli già dipendenti
pubblici
venivano riassunti automaticamente presso enti similari con
continuità
di servizio e con il pagamento degli stipendi anche per il periodo
di
disoccupazione dovuto all’esodo... Essi usufruivano inoltre di tutti
i
benefici degli ex combattenti. Potevano partecipare ai concorsi per
l’assunzione presso gli uffici pubblici fino all’età di 55
anni.
Godevano di finanziamenti per reimpiantare le loro aziende (sono
stati
così erogati più di tre miliardi ad un migliaio di
aziende). Specifici
mutui erano concessi dallo Stato ad interesse minimo e con un
pagamento
trentennale. Ed ancora: per i giovani esuli furono spesi nove
miliardi
e
mezzo per edilizia scolastica e borse di studio mirate; fino al 1956
gli
studenti giuliano-dalmati erano esentati dalle tasse scolastiche e,
in
certi casi, anche dal servizio militare. Per i pensionati era
riconosciuto il servizio prestato nell’esercito austro-ungarico
durante
la guerra 1914-1918, nonché quello civile prestato sotto
l’Austria e
nello stato libero di Fiume, e tutto il lavoro eventualmente
prestato
sotto l’amministrazione jugoslava - beninteso, senza il versamento
dei
contributi. Per non parlare delle pensioni di guerra e di tante
altre
regalìe e benefici.
Questo il trattamento riservato dallo Stato italiano agli “esuli”
del
periodo fino al 1954.(22)
Altro discorso è quello relativo ai beni degli esuli istriani
abbandonati all’indomani del Memorandum di Londra (1954), che
riconobbe
l’autorità jugoslava nella zona B del Territorio libero di
Trieste
(TLT), dunque nella zona nord occidentale dell’Istria, oggi divisa
tra
le due nuove repubbliche. Il risarcimento di tali beni non era
incluso
nel Trattato di pace; perciò nel 1983 i governi italiano e
jugoslavo
raggiunsero un accordo secondo il quale la Jugoslavia avrebbe dovuto
pagare una somma di 110 milioni di dollari in 13 date annuali,
ritardate
dal 1990, per i beni degli esuli della zona B. Prima della
dissoluzione
nel 1991, la Jugoslavia aveva pagato le prime due rate, portando il
debito a 93 milioni di dollari, spartito poi tra Zagabria e Lubiana
nella misura di 37 e 56 milioni rispettivamente. Pur non rispettando
lo
scadenzario, la Slovenia ha comunque versato tutta la somma su di un
conto aperto presso la filiale della Dresdner Bank in Lussemburgo:
/l’Italia non l’hai mai ritirata/. La Croazia ha offerto di fare la
stessa cosa per i suoi 37 milioni:*/ Roma si è rifiutata di
indicare un
conto bancario apposito/*. Secondo Stipe Mesic, presidente della
Croazia, in base agli accordi di Osimo la Croazia ha ancora “/verso
l’Italia un debito di 34 milioni di dollari e desidera saldarlo non
appena Roma fornirà il numero di conto sul quale effettuare
il
versamento. In tal modo saranno chiuse tutte le questioni che si
riferiscono alla seconda guerra/”.(23) Le associazioni degli esuli
ciurlano nel manico, sostenendo che l’accordo del 1983 sarebbe
invalido
per l’inadempienza della controparte, e richiedono /non più
il
risarcimento/, ma la /restituzione/ dei beni abbandonati dopo il
1954.
E non c’è solo la questione dei “beni abbandonati”: l’Italia
pone anche
un problema in materia di libero accesso al mercato immobiliare.
Il mercato immobiliare della Croazia è ancora chiuso, in
teoria,
ai
cittadini di quei paesi stranieri, tra cui l’Italia, con cui non
sussiste un sistema bilaterale di accordi di reciprocità;
inoltre, tutti
gli stranieri hanno bisogno, per comprare, di un permesso del
Ministero
degli Esteri previo giudizio del dicastero della giustizia. Zagabria
si
dice disposta a rivedere questa normativa non prima nel 2009, quando
il
mercato dovrebbe essere compiutamente liberalizzato in vista della
piena
adesione del paese all’UE. La prudenza fin qui mantenuta dalla
Croazia
è
comprensibile: gli stranieri che arrivavano, subito dopo la
proclamazione della “indipendenza”, pieni di soldi in valuta
pregiata,
avrebbero potuto letteralmente saccheggiare tutti i beni immobili
del
paese in poche settimane. Ma oggi, anche le residue restrizioni
protezionistiche ancora in vigore sono facilmente aggirabili. A
giudicare dai numeri forniti dalle agenzie immobiliari, il mercato
sottobanco s’è mosso, eccome. Si stimano in 30-40 mila le
case
passate
per vie traverse nelle mani di cittadini non croati: basta firmare
qualche contratto in più e pagare per la documentazione
necessaria. Nel
catasto si continua a far figurare ad esempio il vecchio
proprietario,
ma i nuovi arrivati vengono iscritti, eredi inclusi, come
usufruttuari
a
vita. Esiste poi un altro escamotage: aprire un’azienda e intestarvi
l’immobile appena acquistato. Secondo il quotidiano Novi List, di
recente con questi trabocchetti “/la metà delle case vendute
nella città
vecchia di Rovigno sono state acquistate da cittadini italiani/”.
Fate bene attenzione: “/all’inizio degli anni Novanta, quando in
Croazia
è scoppiata la guerra, gran parte dei proprietari di case e
appartamenti
a Rovigno erano cittadini di nazionalità serba, i quali hanno
deciso di
lasciare il Paese e nella paura di perderli hanno deciso di venderli
a
basso prezzo. E naturalmente gli italiani hanno sfruttato queste
possibilità/”.(24) Senza commento.
Gli italiani, di origine autoctona o meno, non sono dunque assenti
da
questa “corsa all’oro”. E vengono agevolati da “oltreconfine” un po’
con
pressioni politiche verso la Croazia, affinchè essa
liberalizzi
subito
il mercato, un po’ con agevolazioni e provvedimenti talora
scandalosi.
Lo scorso novembre, l’importante ‘Privredna banka Zagreb’ (Pbz), che
in
effetti da qualche anno è parte del gruppo italiano
BancaIntesa,
decideva di offrire “/agli appartenenti della comunità
nazionale
italiana in Croazia e ai simpatizzanti della cultura e della lingua
italiana/”(25) prestiti bancari più favorevoli rispetto a
quelli
offerti
agli altri cittadini croati. Concretamente l’accordo, sottoscritto
tra
la banca e l’Unione degli italiani (UI), prevedeva tra l’altro mutui
a
interesse ridotto per gli “italiani” rispetto ai “non-italiani” per
l’acquisto della casa, ed analoghe agevolazioni per i prestiti per
l’acquisto di automobili, per il consumo, per il rosso su conti
correnti
e altri servizi bancari. Il vicepresidente dalla Pbz spiegava
candidamente alla stampa che “/il gruppo bancario intende rafforzare
la
presenza in Istria e a Fiume e proprio tramite l’UI/”.
La decisione della Pbz ha subito suscitato uno scandalo enorme.
Mentre
il quotidiano /Glas Istre/ di Pola rivelava che la decisione era
stata
presa dalle autorità centrali di BancaIntesa, il presidente
della
repubblica Stipe Mesic sosteneva che “/tutti i cittadini dovrebbero
avere pari diritti quando si avvalgono dei servizi bancari... penso
che
non sia giusto che una comunità nazionale abbia dei diritti
particolari/”; il premier Ivo Sanader dal canto suo si dichiarava
preoccupato per “/la politicizzazione del sistema bancario, che noi
non
possiamo permettere/”. Di fronte alle ovvie e crescenti polemiche,
l’iniziativa rientrava.
Pressioni
Il 17 gennaio 2006 a Strasburgo, la delegazione europarlamentare di
AN
-
partito di governo in Italia, al quale appartiene il Ministro degli
Esteri - chiedeva di “/sospendere i negoziati di adesione/ (della
Croazia) /all’UE fin quando le autorità croate manterranno il
divieto
per i cittadini comunitari di nazionalità italiana/ /di
accedere
al
mercato immobiliare/”. Come altra condizione per l’adesione si
poneva
ovviamente “/il pieno risarcimento per i beni sequestrati/ /alle
migliaia di cittadini di origine italiana espulsi dal territorio
croato/
/dal 1946/”, nonchè il riconoscimento “/delle deportazioni,
delle
atrocità, dei massacri e della pulizia etnica contro migliaia
di
persone
di origine italiana/, /perpetrate dal regime comunista di Tito dal
1946/”.(26)
Il giorno dopo, sempre a Strasburgo, organizzata dall’Unione degli
Istriani e con la partecipazione dell’europarlamentare neofascista
Romagnoli, della Fiamma Tricolore, si teneva una manifestazione per
chiedere l’istituzione di un arbitrato internazionale europeo /”che
stabilisca l’invalidità e la nullità di tutti gli
accordi
italo-jugoslavi e di conseguenza riconosca formalmente il pieno
diritto
di proprietà sui loro beni illegalmente sottratti ed il
diritto
alla
loro restituzione senza vincolo alcuno”./(27) La delegazione veniva
ricevuta dalla presidenza dell’Europarlamento e dal Commissario
all’Allargamento Olli Rehn e tutte le istanze venivano poi inviate
alle
istituzioni internazionali. L’iniziativa era inoltre sostenuta con
una
mozione /bipartisan/ dai parlamentari Roberto Damiani (gruppo misto,
primo firmatario), Ettore Rosato, Roberto Menia, Marco Boato,
Giovanni
Bianchi, Luana Zanella, ed altri. Qualche settimana dopo
«abbiamo
avuto
una serie di contatti e incontri estremamente proficui e il
più
significativo è quello con il presidente della Commissione
per
la
Cooperazione e la sicurezza in Europa (CSCE), il senatore americano
(SIC) Sam Brownback, che si è dimostrata persona estremamente
sensibile
verso ogni sorta di violazione dei diritti di
proprietà...».(28)
Fini, da Ministro degli Esteri, ha ripetutamente ammonito che la
Croazia
per poter entrare nella Unione Europea dovrà saldare il
presunto
debito
verso gli esuli istriani: essa “/deve prima pagare i conti con la
storia/”.(29) “/Non accadrà come accadde quando la sinistra
al
governo
disse frettolosamente di si’ all’entrata della Slovenia in
Europa/”.(30)
Secondo Berlusconi, “/pur avendo aperto le porte alla Croazia
nell’iniziare la trattativa di ingresso nella Comunità
Europea,
la
coalizione (...) sarà sempre assolutamente ferma nel
pretendere
dalla
controparte croata il rispetto e la libertà necessarie per
aderire alla
compagine europea, primo fra tutti il diritto per gli Italiani ad
acquistare beni immobili in Croazia/”.(31) “/Noi siamo in una
posizione
che dobbiamo assolutamente sfruttare. La Croazia può entrare
solo con il
nostro accordo. Intendiamo avvalerci di questo perchè non ci
devono
essere discriminazioni/”, ha detto il presidente del Consiglio nel
corso
della celebrazione in Quirinale per il 10 Febbraio, non perdendo
occasione per ricordare che “/il comunismo è stato l’impresa
più
disumana e criminale della storia/”.(32)
Gustavo Selva, da Presidente della Commissione Esteri della Camera,
ha
dal canto suo affermato che l’Italia oggi ha il potere di aprire una
vertenza con la Croazia per ottenere contestualmente sia gli
indennizzi
agli esuli e agli eredi sia il riconoscimento morale degli “orrori
perpetrati contro gli italiani”: “/l’entrata della Croazia nella
Unione
Europea passa attraverso il potere di veto che l’Italia può e
deve
opporre qualora non vengano accettate queste condizioni
minime/”.(33)
Il riconoscimento che tutti questi esponenti della destra chiedono
è
insomma un riconoscimento morale... ma anche tanto, tanto materiale.
La pressioni sulla Croazia non vengono solo da parte italiana. In
base
ad un accordo raggiunto con l’Austria nell’autunno 2005, la Croazia
avrebbe dovuto pagare ricompense agli esuli di lingua tedesca che
abbandonarono il territorio e persero le proprietà in seguito
alla
sconfitta del nazifascismo.(34) Stando ad alcune stime, la Croazia
dovrebbe in particolare far fronte a circa mille richieste di
indennizzo
da parte di attuali cittadini austriaci. In seguito al parere
sfavorevole della Corte costituzionale, dopo il disappunto
manifestato
anche dall’estero (a cominciare dalla Repubblica Ceca, da dove dopo
la
fine dell’occupazione nazista fuggirono centinaia di migliaia di
tedeschi della regione dei Sudeti), e dopo il pronunciamento
pubblico
del presidente Mesic - nettamente contrario ai contenuti
dell’accordo,
definito “/un precedente pericoloso/” non solo per la Croazia - il
governo croato ha rinunciato a portarlo dinanzi al Sabor
(parlamento)
ed
ha annunciato invece una legislazione universale per tutte le
richieste
di risarcimento, che siano provenienti dall’estero o
dall’interno.(35)
Si tratta in pratica di approvare alcune modifiche alla “legge sulla
denazionalizzazione”, il che dovrebbe avvenire entro l’estate 2006.
Le
modifiche di legge estenderanno anche ai cittadini di paesi esteri e
ai
loro eredi la facoltà di rivendicare beni a suo tempo
espropriati; esse
si limiteranno però ai soli casi non coperti dai trattati -
quindi:
nessuna rimessa in discussione del trattato di Osimo, e non
sarà
possibile alcun nuovo accordo interstatale separato.
Dunque, anche gli esponenti degli “esuli di lingua tedesca”, dopo
aver
goduto dello spettacolo sanguinoso della guerra fratricida in
Jugoslavia, possono finalmente reclamare indietro i “loro” beni,
proprio
come fanno i tedeschi dei Sudeti ai danni della Repubblica Ceca, o
come
fanno gli esuli italiani di Istria e Dalmazia. Tra tutti questi
esiste
una convergenza di fatto, che si sta trasformando in una alleanza di
respiro transnazionale, potenzialmente aperta ai tanti “gruppi
etnici”
le cui classi dirigenti furono a suo tempo collaborazioniste del
nazifascismo. La tedesca “Bund der Vetriebenen” (Lega degli esuli)
ha
reso noto a Berlino che intende cooperare con gli esuli italiani,
“/soprattutto in vista della costituzione di un ‘Centro contro le
espulsioni’./” Erika Steinbach, presidente della BdV, ha anche
annunciato il suo appoggio ad una iniziativa della “Unione degli
Istriani” per una “/Giornata europea del ricordo di tutte le vittime
delle espulsioni/”.(36)
Particolarmente attivo a sostegno di tutte le rivendicazioni
revansciste
degli esuli sconfitti della II G.M. è lo statunitense di cui
sopra, Sam
Brownback. Egli “è già intervenuto personalmente (...)
condannando le
discriminazioni di Varsavia nei confronti dei diritti degli esuli
tedeschi espulsi in circa cinque milioni dall’attuale area
geografica
della Polonia e da qui è partito l’invito rivoltogli
dall’Unione
degli
Istriani di verificare le gravi discriminazioni e i
«furti»
a danno
degli esuli istriani, fiumani e dalmati espropriati illegalmente
delle
loro proprietà. Intanto ci sono alcune importanti adesioni
alla
richiesta di arbitrato internazionale europeo per dirimere la
questione
dei beni, proposta sempre dall’Unione degli Istriani. L’eurodeputato
bavarese di origine boema, Bernd Posselt, presidente della
Südetendeutsche Landsmannschaft (l’Organizzazione degli oltre
tre
milioni di esuli tedeschi dai Sudeti) ha aderito alle richieste e
all’orizzonte, anche in vista del prossimo raduno dei Sudeti in
programma per il primo fine settimana di giugno a Norimberga, al
quale
una delegazione dell’Unione degli istriani è stata invitata,
c’è proprio
un vertice tra esuli tedeschi ed istriani, proposto dalla presidente
della Federazione delle Associazioni tedesche, la deputata al
Bundestag
Erika Steinbach, peraltro molto vicina al cancelliere Angela
Merkel...”(37)
Conclusione
Le questioni legate al “Giorno del Ricordo” non hanno dunque
solamente
una rilevanza di carattere morale ed ideologico, ma sono invece
questioni di grande concretezza ed attualità negli equilibri
politici
internazionali. Una volta di più, sotto al velo della
battaglia
delle
idee si cela quel fondo di ragioni ed interessi materiali che, in
particolare, i comunisti farebbero bene a tenere sempre presenti
nelle
analisi.
L’ipotesi secondo cui le tesi revisioniste sarebbero enfatizzate per
mere ragioni elettorali e di politica interna(38) ci appare,
purtroppo,
consolatoria. Essa non è in grado di spiegare il ruolo
perverso
giocato
anche dalle sinistre in queste vicende. Riduttivo è anche
pensare che ci
troviamo semplicemente di fronte alla esplosione “fuori tempo
massimo”
di un revisionismo storico che, dopo l’Ottantanove, non trova
più freni
e può dunque riscrivere la storia del Novecento ribaltando i
ruoli tra
vittime e carnefici. Ci sono sicuramente anche queste due
componenti,
quella elettorale e quella culturale, beninteso: ma c’è
qualcosa
di più
grave e di più fondamentale. Stiamo parlando di concrete
rivendicazioni
materiali, sempre suscettibili di trasformarsi in vere e proprie
rivendicazioni territoriali, in un contesto europeo nel quale i
confini
tra i paesi sono stati messi irresponsabilmente in discussione, ed
allegramente delegittimati, anche “da sinistra”, dopo il 1989.
Ha spiegato l’ambasciatore italiano a Zagabria: “/Per quanto attiene
alla questione dell’accesso dei cittadini italiani al mercato
immobiliare e alla concessione della cittadinanza italiana, tutti i
partiti hanno le stesse posizioni e pertanto non è una
questione
di
campagna elettorale. Anche se l’Italia avesse un Governo
completamente
diverso queste due questioni rimarrebbero di primaria importanza...
Si
tratta di interessi nazionali e bisogna sottolineare che i partiti
politici italiani sono concordi sulle due questioni.”/
“Se si tratta di una politica a lungo termine allora non si
può
essere
troppo ottimisti sulla prospettiva dei rapporti tra Croazia e
Italia”,
commenta amaro l’intervistatore.(39)
Con l’istituzione del “Giorno del Ricordo” l’Italia si tuffa nel
contenzioso balcanico, da protagonista nel conflitto tra
nazionalismi.
Gli ingredienti ci sono tutti: falsificazione della storia, partiti
nazionalisti al potere, razzismo televisivo, revanscismo ed
irredentismo
nelle dichiarazioni dei leader politici, truppe fuori confine,
canaglia
fascista nelle piazze. L’Italia nei Balcani ha interferito, ha
bombardato, ha sfruttato economicamente; adesso, essa fa con
l’Istria
quello che l’Albania fa con il Kosovo, la Bulgaria con la Macedonia,
la
Croazia con l’Erzegovina... Altrove, la Germania fa lo stesso con
Kaliningrad ed i Sudeti - e questa sarà magari materia di
preoccupata
riflessione in altra sede, o almeno lo auspichiamo. È insomma
in
atto in
tutta Europa una inversione degli esiti della Seconda Guerra
Mondiale,
inversione che vede proprio nella martoriata area balcanica,
drammaticamente orfana della Jugoslavia multinazionale ed
antifascista,
il suo epicentro geografico ed il suo punto di massima espressione.
E
Trieste è già Balcani.
Il quadro delle pressioni, delle rivendicazioni, dei concreti atti
di
ingerenza ed interferenza da parte italiana nei confronti di Croazia
e
Slovenia, dunque, si è arricchito e si è acuito nelle
ultimissime
settimane. Le due piccole repubbliche jugoslave, che non a caso
godettero dello sconsiderato, immediato riconoscimento italiano per
la
loro “indipendenza” - pagata al prezzo di una guerra civile i cui
strascichi persistono -, non hanno il potere contrattuale né
l’importanza geopolitica della grande Jugoslavia, viceversa devono
assoggettarsi a tutti i “diktat” esterni per poter accedere ai
“salotti
buoni”. Le classi dirigenti di queste repubbliche a sovranità
limitata
constano di una borghesia compradora succube dell’imperialismo
straniero. Reazionarie per vocazione, esse non conoscono altro
linguaggio che quello nazionalista. Esse non sono pertanto in grado
di
rispondere alle pressioni e provocazioni italiane né sul
piano
della
difesa della memoria storica antifascista - perchè proprio
sul
revisionismo e sul revanscismo antipartigiano ed antijugoslavo hanno
“inventato” se stesse - né tantomeno sul piano della
giustizia
sociale e
della difesa della propria indipendenza - perchè la loro
religione è
quella del “libero mercato”. Esse non possono quindi mettere freni
alla
prepotenza del capitale straniero. Il nazionalismo rappresenta per
loro
la sola possibile, /falsa/ coscienza della loro precaria condizione
ed
incerta identità.
In termini socialmente meno gretti e politicamente più
auspicabili, una
vera risposta al neoirredentismo italiano potrebbe venire dalla
alleanza
tra antifascisti ed antimperialisti delle diverse
nazionalità.
La
contraddizione è infatti, come sempre, una contraddizione
sociale e
materiale; lo scontro, come sempre, è scontro di classe.
Teorici
e
propagandisti borghesi non forniranno mai una soluzione delle
contese
tra borghesie nazionali, perchè loro stessi sono parte del
problema.
D’altro canto, il fatto che le splendide ville di Abbazia/Opatija o
di
Laurana finiscano in mano agli arricchiti locali, o addirittura alla
mafia polacca, non è meno triste di una eventuale
riappropriazione da
parte dei possidenti, italiani o austriaci, di un tempo. Altrettanto
negativo è il fatto che straordinari tratti di costa, dove
per
decenni
erano sorte le colonie di villeggiatura delle imprese cooperative e
statali della Jugoslavia, siano adesso depredati da imprenditori
tedeschi o catene alberghiere anglosassoni.
Contrastare il revanscismo italiano non implica alcun tipo di
indulgenza
verso le attuali classi dirigenti croate e slovene, tantomeno verso
la
grande speculazione transnazionale. Ma è soprattutto
sbagliato
assumere
atteggiamenti del tipo “tanto peggio tanto meglio” - “hanno
distrutto
il
socialismo, che vadano in malora” - perchè l’euforia
revanscista
può
avere conseguenze assai gravi per tutti. I danni causati in Italia,
prima ancora che in Slovenia o Croazia, dalle campagne revisioniste
e
revansciste degli ultimi anni sono già molto pesanti in
termini
tanto
politici quanto culturali-ideologici.
Per chiudere con le parole del noto accademico massone Augusto
Sinagra,
legale di fiducia di Licio Gelli ed avvocato dell’accusa nella causa
contro Piskulic ed altri (quel “processo per le foibe” dissoltosi
come
neve al sole per la provata inconsistenza della denuncia: Cernigoi
2002): “/il disfacimento della Jugoslavia (...) riapre per l’Italia
prospettive un tempo impensabili, per dare concretezza
all’irrinunciabile speranza di riportare il Tricolore nelle terre
strappate alla Patria dal diktat e dal trattato di Osimo/”.
Bibliografia essenziale
Spartaco Capogreco: “I campi del Duce”, Einaudi, Milano 2004
Claudia Cernigoi: “Le foibe tra storia e mito” , dossier n.6 de La
Nuova
Alabarda”, Trieste 2002 (www.nuovaalabarda.it http://www.nuovaalabarda.it
(4) Istituita nel 1990 proprio perchè lavorasse sul tema
delle
relazioni
fra i due popoli, dalla seconda metà dell’Ottocento fino al
1956:
http://www.kozina.com/premik/indexita_porocilo.htm#kazal .
(5) Il Piccolo, 14/3/2006.
(6) Ad esempio: Cernigoi 2005, Pol Vice 2005, Scotti 2005.
(9) Per ogni approfondimento si rimanda a: Volk 2004.
(10) Su questa cultura transfrontaliera ha scritto pagine di
notevole
spessore Fulvio Tomizza. I suoi libri sono scevri dell’accanimento
ideologico e slavofobo di alcuni autori più recenti e,
disgraziatamente,
più in voga (E. Bettiza, S. Tamaro, A.M. Mori...).
(15) Durante il Congresso, un importante ordine del giorno contro il
revisionismo storico connesso al “Giorno del Ricordo” viene respinto
dalla maggioranza bertinottiana. Se ne legga l’ottimo testo alla
pagina: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4308
.
(16) Si vedano: Scotti 2006, Clementi 1989, Gardini 1987, http://www.cnj.it/PARTIGIANI/
. Tanti italiani furono inquadrati, in
proprie specifiche formazioni, nell’Armata di Tito: ricordiamo con
gratitudine l’eroismo della Divisione Garibaldi guidata da Giuseppe
Maras.
(17) Fabrizio Radin, oggi candidato alla carica di vicesindaco di
Pola,
al quotidiano “Primorske novice” nel 1992; fonte: La Voce del
Popolo,
28/2/2006.
(18) La eurodeputata slovena, che appartiene all’Alleanza dei
liberaldemocratici europei (Adle), ha parlato nientemeno che di
“/una
rioccupazione di territori che l’Italia aveva ceduto/” a seguito dei
trattati seguiti alla seconda guerra mondiale (ANSA 13/2/2006). Si
veda
il suo sito internet: http://www.drcar-murko.si/en/index.php
(19) Fonte: Il Gazzettino 17/02/06, rubrica Lettere.
(20) La Voce del Popolo, 18/2/06.
(21) Nella sua introduzione in Aula, Fini spiegava: “/Da una
verifica
degli indici di svalutazione ISTAT, comparati con quelli stabiliti
dalla
legge 5 aprile 1985, n.135, ci si rende conto che gli indennizzi
finora
concessi sono, in taluni casi, del tutto irrisori... L’unito
provvedimento... /(istituisce)/ una Commissione per il riordino
della
disciplina sulla materia degli indennizzi/” http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?PDL=6273
(22) Fonte: Gianni Ursini, da un articolo di Flaminio Rocchi su “Il
Piccolo” del 30 agosto 1975.
(23) La Voce del Popolo, 20/01/2006.
(24) Il Piccolo, 9/3/2006.
(25) Così l’ANSA del 14/11/2005.
(26) ANSA, 17/01/2006.
(27) La Voce del Popolo, 20/1/2006.
(28) Il presidente dell’Unione degli Istriani, Lacota, su Il Piccolo
del 31/3/2006.
(29) La Voce del Popolo, 11/2/2006.
(30) Dichiarazione di Fini a Trieste, 17 ottobre 2005.
(38) Vedi ad es. Di Francesco sul Manifesto, 11/2/2006. Di fatto, la
stessa lobby degli esuli si muove con strategia /bipartisan/. Un
documento della Federazione degli Esuli stilato “/per le forze
politiche
in occasione delle prossime elezioni politiche/”, datato 21 marzo
2006,
inviato a Prodi e Berlusconi con richiesta di incontro, richiede la
costituzione di un “Tavolo di Concertazione” a livello di Presidenza
del
Consiglio. Tale tavolo dovrebbe tra le altre cose servire per
espandere
ulteriormente la recente normativa sulla cittadinanza!