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RIFLESSIONI
SULLA
NECESSITA’
DI RIFONDARE E RILANCIARE IL SINDACALISMO AUTORGANIZZATO E DI CLASSE.
CONTRORIFORMA DELLE PENSIONI.
11
dicembre 1991:
viene sospesa
la “scala mobile”.
31
luglio 1992:
abolita per
decreto la scala mobile, sono bloccati i contratti del settore
pubblico, si
introducono pesanti balzelli nella sanità, sono approvati dal
governo i primi
meccanismi peggiorativi di tutto il sistema previdenziale pubblico.
3
luglio 1993:
l’operazione di
ridimensionamento di tutte le conquiste che i lavoratori avevano
ottenuto negli
ultimi quarant’anni di lotte, si conclude con un accordo che ridisegna
in senso
centralistico e burocratico tutto il sistema contrattuale.
Il
nuovo modello, per la prima volta nel nostro paese, non contiene nessun
meccanismo di adeguamento dei salari rispetto all’aumento del costo
della
vita. E’ un modello confuso, totalmente
subordinato alle scelte capitalistiche e governative.Da questo momento
in poi i
contratti avranno obbligatoriamente la durata di quattro anni, con
adeguamenti
salariali ogni due; gli impianti contrattuali non potranno contenere
aumenti superiori
al tasso d’inflazione programmato unilateralmente dagli istituti del
potere
(ISTAT) e la contrattazione decentrata e articolata non sarà
automatica e verrà
subordinata e condizionata dalla redditività e dalla
produttività media delle
imprese pubbliche e private. Le materie di contrattazione saranno
decise
centralmente e non dai lavoratori in
base all’organizzazione del lavoro e ai loro bisogni. Con gli accordi
del luglio
1993 vengono poste le basi per l’introduzione del cosiddetto “lavoro
interinale” o “lavoro in affitto”, aumentando in tal modo la
precarizzazione e
l’insicurezza e depotenziando e disarticolando i rapporti di forza e l’
unità
di classe.
Ho
fatto riferimento a questi passaggi di dieci anni orsono perché
è in questa
fase politica che il sindacalismo confederale (CGIL-CISL-UIL)
formalizza e
definisce la sua definitiva linea di collaborazione di classe e di
ricorso alla
lotta solo in casi estremi, portando a conclusione il percorso iniziato
nel
1977 con l’accettazione (anche da parte della CGIL di Lama) del teorema
secondo
cui i salari sono automaticamente una variabile dipendente dalla
produttività
media del sistema imprenditoriale capitalistico.
E’
in questo contesto che nascono o si rafforzano le prime esperienze di
autorganizzazione sindacale all’interno delle fabbriche e in settori
del
pubblico impiego (comitati di base-COBAS); realtà che fino ad
allora erano
concentrate quasi esclusivamente nella scuola. Tali esperienze
presuppongono
una diffusa e alta conflittualità sociale ed un livello di
acquisizione di
coscienza di classe assai elevato. Esse devono contrastare radicalmente
le politiche
concertative del sindacato confederale e ridare voce ai lavoratori che
non si
sentono più rappresentati da tale politica, che produce
progressivamente
sfiducia e rassegnazione. Si tratta, cioè, di iniziare un
percorso che freni e
ribalti il processo di passivizzazione delle masse, favorito sempre
più dal
peso crescente che la televisione ed altri mezzi di comunicazione di
massa
hanno nella formazione-distorsione delle coscienze. E’ chiaro che il
progetto
dell’autorganizzazione ha degli obiettivi molto ambiziosi e viene
contrastato
con tutti i mezzi non solo dal capitalismo, dal governo borghese, ma
anche
dalle organizzazioni confederali che non vogliono essere disturbate
nelle loro
scelte di integrazione e di accettazione delle compatibilità del
sistema.
L’autorganizzazione sindacale reintroduce nella sua prassi i metodi di
lotta
che sono stati patrimonio storico della classe lavoratrice (scioperi
selvaggi,
scioperi articolati, scioperi bianchi e forme di boicottaggio ecc… vedi
l’esperienza dell’Alfa-FIAT). Cerca di far superare gli steccati del
corporativismo e del particolarismo. Vengono rivendicati i livelli
minimi di
democrazia e di decisionalità da parte dei lavoratori, si
riprende il vecchio obiettivo
degli anni ’70 del superamento della delega, in una situazione in cui i
consigli di fabbrica (C.d.F.), le rappresentanze sindacali aziendali
(RSA) e le
nascenti RSU avrebbero dovuto fungere da strumenti di controllo e di
mediazione
rispetto alle spinte sociali emergenti. Autorganizzazione
significava e
significa esaltazione della soggettività e della
creatività dei lavoratori, ma
non negazione della necessità di darsi una forte e articolata
organizzazione
fondata sul superamento delle gerarchie burocratiche e sulla negazione
che il
processo decisionale debba sempre partire dall’alto. Si trattava e
si
tratta cioè di proporre un progetto politico-organizzativo
basato sui
“consigli” (soviet), in una fase storica di capitalismo avanzato e di
decentramento produttivo. Di fronte ad un progetto così
difficile ed ambizioso
era ed è evidente che il capitale utilizza ogni mezzo per
contrastarlo, non
solo la repressione, ma anche le burocrazie dei sindacati moderati che
vogliono
contenere la spinta dirompente dell’autorganizzazione operaia e non
solo.
Sarebbe,
però, semplicistico ed autoconsolatorio sostenere che le attuali
difficoltà del
sindacalismo di classe ed autorganizzato siano solo il frutto della
repressione
o dell’efficacia della politica concertativa e collaborazionista di
CGIL-CISL-UIL. Se vogliamo rilanciare questa ipotesi “consiliare”
dobbiamo
iniziare una profonda analisi sui motivi che hanno portato all’attuale
fase di
stallo, proprio in un momento in cui gli spazi politici per tale
soluzione sono
più ampi che mai.
Ritengo che spesso il concetto di autorganizzazione sia stato equivocato come necessità di non darsi alcuna struttura organizzativa per timore che si riproducessero gli stessi meccanismi burocratici, autoritari e alienanti che hanno trasformato la natura di quello che storicamente è stato il sindacato di classe, la CGIL. (Non cito CISL e UIL perché hanno una storia ed un’ evoluzione diversa). Il rifiuto dell’organizzazione tout-court ha di fatto disgregato e indebolito lo SlaiCOBAS(Sindacato Lavoratori Autorganizzato Intercategoriale) proprio perché in questa struttura più che in altre è presente il timore e, quindi, la negazione di ogni formalizzazione organizzativa. Dall’altro lato è assente qualsiasi legame o collateralità con altre formazioni politiche, come avviene, invece, per il Sincobas (legame con aree di Rifondazione Comunista). (vedi nota1)
Un
altro aspetto che ha concorso a produrre l’attuale crisi
dell’autorganizzazione
è un insufficiente insediamento nei luoghi di lavoro; infatti
l’esperienza
dello SlaiCOBAS si è concentrata essenzialmente nelle strutture
della FIAT-Alfa
e, per il settore pubblico, in Regione Lombardia.
Spesso
non si è riusciti a passare dalla fase della propaganda e
dell’agitazione a
quella dell’organizzazione. Si è sottovalutata l’importanza di
riferirsi sia ai
lavoratori non sindacalizzati e, quindi, meno influenzati
dall’ideologia “concertazionista”
dei confederali, sia ai nuovi soggetti sociali precarizzati che
costituiscono
una quota importante di forza-lavoro impiegata. In sostanza il
sindacalismo
autorganizzato non è stato in grado di adeguare la sua proposta
e le sue
strutture organizzative alla nuova fase caratterizzata dal
decentramento
produttivo, dalla conseguente precarizzazione del rapporto di lavoro e
dall’elevata tecnologia applicata all’organizzazione del lavoro, che ha
messo
in crisi anche le strutture del sindacalismo confederale. Così
come il taylorismo
aveva contribuito alla distruzione dei sindacati di mestiere e
corporativi,aprendo però la strada ad un sindacalismo unitario e
categoriale,così la nuova organizzazione del lavoro,
caratterizzata da un
crescente aumento della tecnologia applicata, rischia di cancellare
ogni forma
di autorganizzazione di classe se non avrà una risposta adeguata
sul piano
della proposta politica e organizzativa da parte dello stesso. Occorre,
cioè,
fare un salto di qualità e mondare la nostra esperienza da
meccanismi settari,
autoreferenziali e da personalismi che hanno limitato e reso difficile
l’esercizio dell’egemonia in vasti settori di classe, privilegiando il
proprio
asfittico orticello. Anche nell’auto-organizzazione e nel sindacalismo
extra-confederale(vedi nota 2)
spesso prevalgono meccanismi e metodi di lavoro propri del ceto
politico burocratico
e sganciati dai processi e dalla dinamica sociale. Un altro errore che
si deve
evitare è quello di rivolgersi in questa fase storica ad un solo
segmento
sociale; fermo restando che la classe operaia rimane l’elemento
strategico di
riferimento nello scontro di classe. Occorre saper cogliere la profonda
disgregazione politico-sociale del proletariato contemporaneo che vede
emergere
nuovi soggetti sfruttati che hanno una collocazione diversa rispetto
alle
grandi fabbriche (ad esempio i collaboratori coordinati
continuativi-co.co.co,
i lavoratori in affitto ecc…), ma bisogna saper anche rigettare le
teorizzazioni che partendo da questa considerazione deducono che la
classe operaia
non esiste più o che non è più al centro dello
sfruttamento capitalistico,
dando spazio a delle ipotesi di fatto inter-classiste e subordinate
all’accettazione delle compatibilità capitalistiche e al
principio che questa
società non è più trasformabile in modo radicale.
Va
fatto uno sforzo, soprattutto da parte dei comunisti, per uscire da
formule
precostituite o dall’invettiva demagogica. E’ necessario che diventi
patrimonio
di tutti i comunisti la convinzione che nel dibattito in corso si debba
porre
il problema della rifondazione del sindacalismo di classe, che
sconvolga e
rimescoli le attuali insufficienti strutture; proprio su questa nozione
si sviluppa
il dibattito più acceso che rischia di sconfinare in un
confronto sterile ed astratto,
oscillante tra un’eccessiva genericità ed affermazioni valide
magari in linea
di principio, ma lontane dalla realtà e dai concreti rapporti di
forza. Noi
comunisti dobbiamo dare il nostro contributo per fare uscire il
dibattito da
questi limiti angusti e calarlo nella concretezza e nella
materialità.
Rifondare
e costruire il sindacato di classe
non può voler dire imboccare le scorciatoie minoritarie
dell’adesione a
formazioni extra-confederali già esistenti o decidere di
attendere la scissione
di segmenti del sindacalismo confederale ed in particolar modo della
CGIL (da
parte della sua corrente di sinistra). Sarebbero entrambe ipotesi
inefficaci
sul piano sociale e su quello politico e prive di propulsione
egemonica. I
comunisti dovrebbero sforzarsi di raggiungere un punto di vista comune,
qualunque sia la loro collocazione organizzativa nelle associazioni
sindacali,
rispetto al processo che si dovrebbe seguire per realizzare in tempi
medi un
sindacato di classe, unitario e confederale, partendo da alcune
considerazioni
di fondo che dovrebbero essere ormai patrimonio comune:
A)stiamo assistendo ad una
progressiva e
crescente perdita di fiducia dei lavoratori nei confronti del
sindacalismo
confederale e delle sue politiche moderate, concertative e subordinate
alle compatibilità
del sistema. Il fatto che la CGIL abbia apparentemente accentuato il
suo
dissenso rispetto alle scelte del governo Berlusconi (manifestazione
dei tre
milioni a Roma e proclamazione di scioperi
unilaterali) non significa che sia in atto una revisione radicale della
strategia politica confederale che possa ricostruire i rapporti ormai
lacerati
con la sezione di classe lavoratrice che ancora rappresenta. Si
è trattato di
un fuoco di paglia dettato da considerazioni tattiche, dalla
necessità di
ridefinire alcuni rapporti di forza nel centro-sinistra, basandosi
sulla forza
del sindacato e forse da personalismi accentuati (vedere come si
è svuotato il
ruolo di Cofferati sia rispetto alla CGIL sia rispetto alla dialettica
politica).
B)E’ sempre più diffuso un
giudizio
radicalmente critico e negativo non solo sulla controriforma delle
pensioni del
governo Berlusconi, ma anche la consapevolezza che questa controriforma
è il
risultato della precedente controriforma previdenziale del governo Dini
del
1995 sottoscritta da CGIL-CISL-UIL e che impresse un’accelerazione
all’involuzione in senso moderato del sindacalismo confederale.
L’attuale
controriforma si propone un nuovo regime pensionistico basato su un
sistema di
penalizzazioni del rendimento della pensione. Se passasse questo
provvedimento
legislativo, dal 2008 si potrà andare in pensione o con 65 anni
di età (60 per
le donne), o con almeno 40 anni di contributi a prescindere
dall’età. Non è
previsto neppure un minimo di gradualità. Chi dal 2008 volesse
andare comunque
in pensione, prima di avere raggiunto i 40 anni di contributi,
potrà farlo, ma
riceverà una pensione interamente calcolata sulla base dei
contributi versati e
quindi decurtata anche del 38% rispetto all’assegno calcolato sul
metodo
retributivo. Con la controriforma Berlusconi-Tremonti-Maroni, dal 2008
in poi,
lasciando il lavoro dopo 35 o 36 anni di contributi, si avrà una
prestazione
pensionistica pari a meno della metà dell’ultimo stipendio, se
si andrà in
pensione con il sistema retributivo(= meccanismo che si basa
calcolando il valore dell’assegno pensionistico sugli ultimi 5 o 10
anni di
stipendio a seconda dell’inizio del rapporto di lavoro e delle
categorie di
appartenenza). L’importo sarà molto più basso per chi
andrà col sistema
contributivo(= meccanismo che si basa calcolando il valore
dell’assegno
pensionistico sulla base dei contributi effettivamente versati dal
lavoratore e
dal datore di lavoro durante tutta la vita lavorativa. I contributi
saranno
rivalutati annualmente sulla base del tasso annuo di capitalizzazione
risultante dalla variazione media quinquennale del prodotto interno
lordo (PIL)
calcolata dall’ISTAT. Chi è in grado di verificare quanto si
perde con questa
complicata operazione? Chi controllerà la giustezza dei calcoli?
).
Per
chi l’avesse dimenticato, questo è in pratica quanto era stato
proposto dal
governo Berlusconi del 1994 che voleva introdurre il principio
dell’aspettativa di vita che funzionava come base per il
calcolo delle
penalizzazioni per chi sarebbe andato in pensione prima dei 65 anni di
età, pur
avendo già maturato più di 35 anni di anzianità
sul lavoro.
Lo
stesso principio fu ripreso nella piattaforma sindacale e nelle
proposte di
alcune forze politiche di centro-sinistra, sotto il nome di “godimento
medio
della pensione” che avrebbe introdotto delle disincentivazioni ad
andare in
pensione prima dei 65 anni se uomo o 60 anni se donna.
Questa “filosofia” basata
sull’aspettativa di vita, che è poi una scelta
politica, sottende a
un principio che, se introdotto, sarebbe assai grave sia dal punto di
vista
etico, sia per i suoi effetti pratici. In sostanza, per capirci, che
cosa si
teorizza? Poiché la vita degli uomini e delle donne si è,
secondo le statistiche,
assai allungata (oltre i 75 anni), questo fatto dovrà essere o
penalizzato o
monetizzato. Un po’ come si faceva e si continua a fare sulla questione
della
salute nei luoghi di lavoro, cioè più vivi e più
devi lavorare, se smetti e vai
in pensione prima, magari dopo 35 o 40 anni di lavoro, ti penalizziamo,
perché in
questo modello di società capitalistica dei consumi,
dell’immagine e dello
sfruttamento, la terza fase della vita è disprezzata e
marginalizzata, perché
non più sfruttabile nel processo produttivo. E’ implicita
una concezione
aberrante della società: vivere più a lungo per i
lavoratori dipendenti(quando
ce la fanno)non è considerata una possibilità o una
conquista positiva, ma un
privilegio che va pagato di tasca propria (quando si può),
andando ad
alimentare l’area “criminale” dei fondi pensionistici privati
controllati dal
grande capitale e una parte anche dalle confederazioni sindacali.
Per
cui la questione delle pensioni è strategica e centrale per
qualsiasi
organizzazione sindacale indipendente e di classe e va perciò
sottratta alle
speculazioni politiche della destra e del centro-sinistra e non va
subordinata
ai giochi che presiedono la ricerca di nuovi equilibri politici. Il problema della previdenza
pubblica è
un’importante decisiva questione materiale, sociale e politica che
riguarda e
riguarderà milioni di lavoratori. Le pensioni sono salario
differito e non sono
merce di scambio.
La
previdenza pubblica viene progressivamente smantellata e attaccata come
madre
di tutti i mali e dei disastri nazionali,
alla stessa stregua con cui negli anni scorsi sono stati
criminalizzati
e additati come causa della crisi la scala mobile, le indicizzazioni
salariali,
la spesa sociale, ecc… A questo attacco non c’è stata e non
poteva esserci,
data la loro natura, un’opposizione coerente e di rifiuto radicale da
parte di
CGIL-CISL-UIL, così come non ci fu quando fu abolita la scala
mobile e si aprì
la strada alla concertazione fra le parti sociali. Il sindacalismo
di classe
avrà il compito storico di far saltare la concertazione,di
rilanciare il
conflitto e di reintrodurre forme radicali di lotta.
C)Si va facendo strada, anche se con
fatica, la
convinzione che la crescente precarizzazione formalizzata dalla legge
30
dell’attuale governo è figlia della legge Treu del governo del
centro-sinistra
(del 1997). Questa introdusse per la prima volta in Italia il lavoro
interinale
e altre forme di lavoro precario e parziale e la sua approvazione non
fu
contrastata da nessuna forza politica istituzionale di sinistra, ivi
compresa
Rifondazione Comunista che la votò, in quanto sostenitrice del
governo Prodi.
Solo una piccola forza nascente, la Confederazione dei Comunisti (CCA),
cercò
di organizzare una campagna referendaria che non andò in porto
anche perché la
proposta fu lasciata cadere dalle altre forze politiche e sindacali
extra-istituzionali.
Se si ritiene che queste valutazioni siano sostanzialmente condivisibili, esse potrebbero costituire un elemento unificante nel formulare il giudizio dei comunisti sull’evoluzione dell’attuale situazione sindacale. Dobbiamo cioè essere in grado di portare avanti l’analisi e di definire alcuni passaggi nel periodo medio-breve che si basino e partano da principi minimi condivisibili, cioè: indipendenza totale del sindacato dal sistema politico e dai partiti e rottura della collateralità rispetto ai governi di qualunque natura essi siano (i governi borghesi sono tutti “uguali” proprio perché sono diversi fra loro).
Giorgio Riboldi – coordinamento nazionale SlaiCOBAS
Milano, 27 ottobre 2003
(nota1)
Risulta comunque evidente che rimane
aperta la questione della mancanza di un soggetto politico, rispetto
al quale
il sindacalismo autorganizzato e di classe possa e debba fare
riferimento. E’
una questione che già M. Capuano ha iniziato ad affrontare in
“Andare oltre il
popolo di Seattle”. E’ una questione complessa e delicata che merita di
essere
trattata a parte ed in modo approfondito.
(nota 2)
Questo scritto distingue
l’esperienza (forse parziale)dell’autorganizzazione in tutte le sue
varie
articolazioni (COBAS Scuola, SlaiCOBAS, Sincobas, Confederazione COBAS)
da
quella che viene definita, abbastanza impropriamente, del sindacalismo
di base
extra-confederale (RDB-CUB e, in parte anche l’anarco-sindacalismo
dell’USI),
che ha origini e percorsi differenti da quelli dell’autorganizzazione.
Altra cosa ancora sono i
cosiddetti sindacati autonomi che
proliferano soprattutto nel pubblico impiego (CISAL-CONFSAL ecc, ecc…)e
che
sono organismi moderati e “gialli”, con caratteristiche spiccate di
collateralità
ai padroni e ai vari governi.