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La Corte di Cassazione - Sezione lavoro - con sentenza del 7 novembre 2006, n. 23726, ha stabilito che il dipendente che rivolge - gravi critiche, polemiche e ingiurie – al datore di lavoro durante una riunione pubblica, tra colleghi e divulghi il contenuto delle sue lamentele ai media per danneggiare il datore di lavoro stesso, può essere licenziato.
La Corte infatti ha ricordato che le «regole di convivenza civile impongono il reciproco rispetto».

Cassazione Sezione lavoro Sentenza 7 novembre 2006, n. 23726
lavoro, ingiurie,licenziamento
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La prof. A.C. ha convenuto dinanzi al Tribunale di Trento il Centro di Formazione Professionale - Università Popolare del Trentino, di cui era stata dipendente in qualità di insegnante, con le mansioni di direttrice di una unità operativa, impugnando una sanzione disciplinare irrogatale il 19 aprile 2001 ed il successivo licenziamento intimatole il 29 gennaio 2002.
Il primo giudice dichiarava la nullità della sanzione disciplinare e respingeva le altre domande.
Questa decisione è stato confermata dalla Corte d'appello di Trento con sentenza 351/2004 in data 10 giugno-31 agosto 2004, notificata il 24 settembre 2004.
Per quanto ancora interessa ai fini di questo giudizio, vale a dire la legittimità del licenziamento, il giudice d'appello riteneva che il comportamento complessivo tenuto dalla dipendente in occasione dell'affidamento di un nuovo incarico di insegnamento di informatica ed, in particolare, le dichiarazioni che aveva fatte pubblicamente al consiglio di classe, avessero superato i limiti del diritto di critica e sconfinassero nell'area dell'illecito comportando la denigrazione dell'istituzione da cui dipendeva.
Contro questa pronunzia la prof. A. ha proposto ricorso per Cassazione, con due motivi, notificato, in termine, il 23 novembre 2004.
Resisteva il Centro di Formazione Professionale - Università Popolare del Trentino con controricorso notificato, in termine, il 30 dicembre 2004.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente denunzia l'insufficiente e contraddittoria motivazione, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. circa gli oneri probatori sui fatti che costituiscono una giusta causa di licenziamento.
Secondo il ricorso la sentenza, pur affermando che le dichiarazioni della prof. A. potevano in astratto giustificarsi come espressione del diritto di critica, aveva ritenuto che la divulgazione di esse a mezzo stampa avrebbe costituito la dimostrazione che l'interessata non intendeva esercitare il diritto di critica, ma denigrare l'istituzione sua datrice di lavoro.
Il ricorso argomentava che la signora A. rispondeva, però, soltanto di quello che aveva fatto o detto personalmente, e non di come la stampa riportava le sue parole e le sue azioni.
L'articolo di stampa menzionato dalla sentenza non poteva esserle riferito; l'ente datore non le aveva contestato di avere messo a disposizione dei giornalisti le dichiarazioni che questi ultimi avevano riportate, e, comunque, sarebbe stato onere dell'Università Popolare di dare prova della circostanza.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 1, della l. 300/1970.
Ricorda che non era stato affisso preliminarmente il codice disciplinare, e contesta l'interpretazione della Corte d'appello secondo cui in quel caso l'affissione preventiva non sarebbe stata necessaria perché la sanzione espulsiva si basava sulla violazione d'obblighi di carattere generale contenuti nel codice civile, osservando che, in ogni modo, quelle violazioni avrebbero potuto comportare in astratto sanzioni differenti, e che perciò dovevano essere specificate mediante l'affissione le sanzioni effettivamente applicabili nei singoli casi.
La Corte d'appello, inoltre, avrebbe dovuto tenere conto del comportamento della signora A. alla luce dell'intera vicenda in cui era maturato e, con riguardo al criterio di proporzionalità della sanzione, valutare le attenuanti ed i motivi.
3. Il ricorso è infondato e non può trovare accoglimento.
Deve essere esaminato preliminarmente il secondo motivo di impugnazione, che propone una questione di carattere pregiudiziale, quella della legittimità, o meno, dei procedimenti espulsivi in caso di mancato preventiva esposizione disciplinare ai sensi del comma 1 dell'art. 7 della l. 300/1970.
Il motivo non è fondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, «il carattere ontologicamente disciplinare del licenziamento, mentre implica la necessità dello preventiva contestazione degli addebiti (ancorché non espressamente previsti dalla contrattazione collettiva o dalla disciplina predisposta dal datore di lavoro) e della possibilità di difesa del lavoratore, non comporta invece che il potere di recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo (già previsto dagli artt. 1 e 3 della l. 604/1966) debba essere esercitato in ogni caso previa inclusione dei fatti contestati in un codice disciplinare ed affissione del medesimo. Tali ultimi adempimenti non sono, infatti, necessari in relazione a quei fatti il cui divieto (sia o no penalmente sanzionato) risiede nella coscienza sociale quale minimo etico e non già nelle disposizioni collettive o nelle determinazioni dell'imprenditore» (Cass. civ., 13906/2000, nello stesso senso, 3949/1989; 2963/1991; 1974/1994, 5434/2003; 12500/2003; 12735/2003; 13194/2003: mentre le sentenze 17763/2004 e 10201/2004 estendono questo principio anche alle sanzioni conservative).
Nel caso di specie, secondo la valutazione della sentenza impugnata, la lavoratrice avrebbe denigrato il proprio datore di lavoro, e perciò di un comportamento, contestatole formalmente e poi sanzionato con il provvedimento espulsivo, che risponde al criterio indicato dalla giurisprudenza, consistendo nella violazione di regole di convivenza civile, che impongono il reciproco rispetto e che sono radicate nella coscienza sociale, e che come tali non necessitavano di essere portate specificamente a conoscenza dei dipendenti.
4. Sempre nel secondo motivo la ricorrente lamenta anche che la Corte d'appello non avrebbe valutato il comportamento della signora A. alla luce dell'intera vicenda e non avrebbe tenuto conto delle attenuanti e dei motivi.
Questo profilo di censura è inammissibile, perché si risolve nella richiesta di una nuova valutazione dei fatti, del comportamento complessivo addebitato alla lavoratrice, mentre, proprio perché non è giudice del fatto, non rientra nei poteri del giudice di legittimità sostituire una propria valutazione nel merito dei fatti (e perciò anche dei comportamenti delle parti) a quella del giudice del fatto, ove quest'ultima sia stata motivata in modo coerente, così come è avvenuto nel caso in esame: in particolare, il giudice di legittimità non ha il potere di rivalutare i motivi del comportamento addebitato, e le eventuali attenuanti.
5. Anche il primo motivo di impugnazione è infondato.
Nel merito, sotto il profilo della violazione di legge è parzialmente inammissibile, nella misura in cui ripropone questioni di fatto, che in quanto tali (indipendentemente da possibili vizi di motivazione) non possono essere riesaminate nel giudizio di legittimità, mentre per il resto, appunto sotto il profilo del difetto di motivazione, è infondato.
La ricorrente lamenta, infatti, innanzi tutto che la sentenza impugnata avrebbe rinvenuto la causa giustificativa del provvedimento espulsivo nel fatto che le gravi critiche rivolte dalla lavoratrice all'Università Popolare di Trento avessero trovato una forte risonanza sulla stampa locale e rileva che «la signora A., come chiunque altro, risponde di ciò che personalmente ha detto e fatto, e non di come la stampa riporta le sue parole e le sue azioni».
Questa critica è infondata perché la lettura della sentenza impugnata dimostra che il giudice ha ritenuto giustificato il licenziamento perché la dipendente aveva rivolto, in una riunione pubblica, quelle gravi critiche all'Università Popolare, non perché queste ultime erano state riportate sulla stampa locale.
È vero che la sentenza ha ritenuto (a pag. 28) che sia stata la signora A. ad informare dei fatti la stampa, ma non si è basata su questo elemento nel valutare la gravità dell'addebito, e la conseguente legittimità del recesso, ritenendo piuttosto che la divulgazione dei fatti alla stampa costituiva un indice della volontà dello dipendente di denigrare la struttura, e valeva perciò ad escludere che i fatti addebitati alla lavoratrice potessero costituire soltanto un esercizio, di per sé legittimo, del diritto di critica, e che come tali non fossero suscettibili di sanzioni.
Come giustamente rileva la resistente a pag. 22 del controricorso, la sentenza non ha ritenuto affatto che se il contenuto delle dichiarazioni della prof. A. non fossero state pubblicizzate, quest'ultima avrebbe potuto fruire dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica.
Secondo la sentenza, la divulgazione dei fatti a mezzo stampa non era un elemento costitutivo della fattispecie posta a base del recesso, e che il giudice aveva ritenuto giustificativo del licenziamento, ma piuttosto un mezzo di prova, riferito all'elemento psicologico che aveva motivato la condotta della ricorrente, della volontarietà del danno che aveva cagionato (o che aveva tentato di cagionare) alla datrice di lavoro.
6. Come in qualsiasi giudizio di impugnazione di licenziamento, il giudice doveva accertare se il provvedimento fosse legittimo, o meno, e perciò se fosse fondato l'addebito contestato alla lavoratrice ed indicato dalla Università Popolare come giusta causa del licenziamento.
L'accertamento del giudice di merito doveva essere riferito a quella specifica causa di licenziamento esposta dalla datrice di lavoro, non poteva prescindere da essa.
Nel caso di specie era stato addebitato alla lavoratrice di avere espresso pubblicamente, ed in forma polemica, aspre critiche allo struttura, non di averle divulgate a mezzo stampa, e perciò l'oggetto dell'accertamento demandato al giudice, e cui il giudizio era circoscritto, era costituito da quel comportamento, da quelle critiche, e non dalla comunicazione dei fatti ai giornali; la sentenza, infatti, riporta per esteso, alle pagine da 21 a 25, la lettera di contestazione, e quest'ultima, molto dettagliatamente, fa riferimento agli avvenimenti del 7 gennaio 2002, e specificamente alle critiche, alle polemiche ed alle ingiurie che la prof. A. avrebbe esternate pubblicamente nel corso di una riunione del collegio dei docenti.
La lettera di contestazione fa riferimento alla pubblicazione (in particolare sul giornale "L'Adige" del successivo giorno 9 gennaio, due giorni dopo gli eventi) soltanto come ulteriore prova dei fatti, ma non come addebito.
La sentenza stessa, del resto, riferisce in narrativa, a pagina 11, che nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado la ricorrente aveva allegato di essere stata licenziata in tronco per i fatti avvenuti il 7 gennaio 2002, quando era intervenuta nel corso di quella riunione.
7. La censura è infondata anche sotto il profilo del difetto di motivazione perché la motivazione in fatto della sentenza impugnata è dettagliata (si snoda attraverso molte pagine fitte, e riporta la trascrizione per esteso di alcuni documenti), completa e puntuale.
La ricorrente, in realtà, non formula critiche sulla completezza o sulla coerenza logica della ricorrente, e neppure contesta sostanzialmente la ricostruzione dei fatti sostenuta dal giudice, ma contrappone a quella della Corte d'appello una propria valutazione di questi stessi fatti.
8. Il ricorso perciò è infondato, e deve essere respinto.
In applicazione del criterio della soccombenza la ricorrente deve essere condannata alle spese del grado, che si liquidano nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in euro 40 oltre ad euro 2000 per onorari, oltre ad Iva e Cpa.