La partita che si gioca sulla vicenda rifiuti e sull’emergenza
È ormai evidente che sulla vicenda dei rifiuti in Campania si
gioca una partita decisiva tanto per il governo quanto per tutti i
movimenti di opposizione a scala nazionale.
Il governo l’ha scelto come terreno di prova della sua capacità
di imporre la propria linea di sostegno agli interessi del grande
capitale, fatta di finanziamenti di grandi opere e di grandi appalti.
Contemporaneamente ha deciso di drammatizzare lo scontro proprio dove
si è manifestata una significativa resistenza di massa per dare
un segnale ai movimenti e alle comunità in lotta non solo quelle
contro il degrado e la devastazione ambientale dei territori, ma a
chiunque pensi di opporsi al rullo compressore dell’affermazione della
spietata logica dei profitti.
In perfetta continuità con i governi che lo hanno preceduto, ma
con una accelerazione significativa si continua ad agitare l’emergenza
che in questi anni è stato lo strumento attraverso cui si
è fatto incancrenire il problema rifiuti in Campania proprio per
favorire quell’intreccio affaristico malavitoso consentendo profitti
inauditi sulla pelle delle popolazioni.
Sta proprio qui uno degli elementi di novità. Sperimentata in
questi anni nel laboratorio campano, la politica dell’emergenza si
avvia a diventare uno strumento di governo da brandire in ogni
occasione in cui si tratti di imporre delle scelte altrimenti
impossibile far passare con l’“ordinaria amministrazione”. Non inganni
la drammatizzazione della vicenda rifiuti come “eccezionalità”
tale da richiedere misure straordinarie. Quella emergenza infatti
è stata costruita e rafforzata proprio da 14 anni di gestione
commissariale in nome di una urgenza da risolvere e che invece ha dato
la possibilità agli amministratori, ai funzionari, alla camorra
e alle grandi imprese di accumulare profitti enormi realizzando lo
scempio che oggi viene utilizzato in maniera ancora più
drammatica per imporre misure affaristiche ed antisociali ancora
peggiori di quelle realizzate sino ad ora.
La sinistra istituzionale è stata tra le artefici principali di
tale sistema affaristico, su cui ha rafforzato il proprio potere ed i
propri legami con il mondo imprenditoriale. Bassolino ed il suo partito
hanno realizzato in questi anni un blocco di potere imponente,
attraverso il controllo prima del comune di Napoli e di altre giunte
comunali, e poi attraverso la Regione. Naturalmente di tale blocco, sia
pure in forma subordinata, hanno fatto parte anche quelle forze della
cosiddetta “sinistra radicale”, Rifondazione Comunista in primis, che
in tutti questi anni hanno sostenuto le maggioranze di governo locale
ed hanno beneficiato delle prebende per questo loro servilismo. Ancora
oggi, rieditando in loco l’atteggiamento avuto sul piano nazionale con
il governo Prodi, non fanno mancare i loro voti alle giunte di governo
e conservano assessori chiave di queste giunte.
Sarebbe miope ritenere che si tratta di una vicenda confinata alla sola
Campania e dettata appunto da una acutissima crisi in corso derivante
da una “specificità di questi territori”. Qui si stanno facendo
le prove di un dispositivo che, in base alla sua capacità di
affermarsi in maniera incontrastata, sarà presto o tardi
utilizzato anche rispetto ad altre crisi, reali o presunte, in cui si
cercherà di imporre le soluzioni che interessano la classe
dominante e di stroncare duramente ogni ipotesi di resistenza.
La crisi dei rifiuti in Campania rivela a chi lo vuole vedere il vero
volto dello stato e delle sue istituzioni, in una situazione in cui
è costretto a spogliarsi del suo abito di entità super
partes, di presunta sintesi degli interessi di tutta la popolazione.
Esse, lungi dall’essere espressione dei cittadini indistinti che sono
chiamati periodicamente a legittimarle attraverso consultazioni
elettorali, sono nei fatti rappresentanti di quella classe
capitalistica che detiene il potere economico nella società.
Quando quei cittadini di cui dovrebbero essere i rappresentanti si
oppongono alla scelte operate da tali istituzioni non si esita ad
utilizzare la repressione più brutale pur di difendere gli
interessi ed i profitti capitalistici.
Tale aspetto, connaturato alla logica istituzionale del capitalismo,
assume dimensioni più o meno accentuate anche in virtù
dello stato dei rapporti tra le classi, della possibilità di
fare concessioni in base al livello della competizione internazionale.
In questa fase in Italia, con un processo che ha dimensione
internazionale almeno per quanto riguarda i paesi del centro, si sta
completando il passaggio verso una democrazia ancora più
blindata ed autoritaria. La lunga transizione iniziata con la fine
della I repubblica sta procedendo a rapidi passi in direzione di una
semplificazione del quadro parlamentare e legislativo. L’obiettivo
dichiarato è quello di rendere più efficienti i
meccanismi istituzionali, di eliminare gli sprechi e la corruzione, in
realtà quello cui si punta è una maggiore
centralizzazione dei poteri per dare maggiore forza agli interessi del
grande capitale, per far scomparire definitivamente ogni legame, sia
pure indiretto, tra elettori ed eletti.
Così dopo il bipolarismo imperfetto, in cui da lungo tempo le
decisioni vere venivano prese da apparati e funzionari non eletti da
nessuno e in carica oltre la continuità degli stessi esecutivi,
con un solo colpo e con l’intesa tra le principali forze di governo e
di opposizioni ci si è avvicinati al bipartitismo all’americana,
si è rafforzato il ricorso alla decretazione d’urgenza, si
procede di gran carriera verso la definitiva “normalizzazione” della
magistratura per adeguarla alla sua funzione di cane da guardia della
proprietà e di repressore per gli sfruttati ed i marginali.
Forse ora risulterà più chiaro anche a chi si era fatto
affascinare dalla campagna contro gli sprechi della politica e contro
la corruzione, quali fossero i reali obiettivi che ci si proponeva di
raggiungere.
L’ulteriore passaggio autoritario che il governo Berlusconi sta
promuovendo sta in questa linea di continuità e, come tutti
possono vedere è gestito con il pieno consenso dell’opposizione
parlamentare. Da tale punto di vista l’emergenza rifiuti in Campania e
la resistenza espressa dalle popolazioni rappresenta una formidabile
occasione da utilizzare per imporre un passo in avanti verso la
democrazia autoritaria con il consenso di buona parte dell’opinione
pubblica.
Una montagna di falsità a difesa dei poteri forti e dei profitti
Se si fosse voluta affrontare davvero l’emergenza rifiuti in questi 14
anni, si potevano prendere provvedimenti elementari con il divieto
degli imballaggi inutili, con contenitori riutilizzabili, ma
soprattutto con l’avvio di una vera raccolta differenziata che si
è sempre evitato di far decollare poiché era più
comodo fare affari con la camorra che gestiva lo smaltimento nelle
discariche, era più importante finanziare le grandi imprese come
la FIBE - l’Impregilo che in questi anni hanno succhiato soldi pubblici
spartendo poi tangenti ai vari politici che amministravano l’emergenza
rifiuti.
Cioè quei capitalisti che predicano ossessivamente la
necessità del liberismo, della fine dello stato assistenziale e
che invece sono i principali beneficiari degli aiuti e dei
finanziamenti pagati dalle tasse di tutti i lavoratori.
Cosa altro c’è infatti dietro la logica dello smaltimento dei
rifiuti attraverso le discariche, degli inceneritori, ma anche delle
grandi opere come il TAV, il ponte sullo stretto o il rilancio del
nucleare, ecc, se non la promessa di nuovi mega appalti e finanziamenti
per affaristi, imprenditori e finanzieri che sono i veri sostenitori di
questo governo come lo erano di quello appena sostituito?
C’è un capitalismo famelico, oramai sempre più in
difficoltà con i “normali” meccanismi di accumulazione, alla
ricerca disperata di profitti da realizzare in tutte le forme
possibili. Ecco allora il ritorno a forme brutali di sfruttamento e di
rapina verso i popoli delle periferie, fino al ritorno in grande dello
schiavismo e di aperto colonialismo con tanto di occupazione militare,
l’utilizzo della forza lavoro dei migranti nelle metropoli con
trattamenti salariali e normativi bestiali. Ma vi è anche
l’assalto alla diligenza dei beni comuni e della spesa pubblica, in cui
tornano sotto nuove forme quei sistemi di espropriazione tipici delle
origini del capitalismo. Meccanismi da qualcuno felicemente definiti
accumulazione per espropriazione o “new enclousures” e che non sono un
dato accessorio del moderno capitalismo o relativo solo ad alcuni suoi
settori, me ne rappresentano un dato costitutivo di cui beneficia tutta
la borghesia.
La scelta di utilizzare l’esercito per presidiare le discariche,
l’intervento brutale della polizia, composta in buona percentuale da ex
volontari nelle missioni militari all’estero, le pene gravissime
previste per chi esercita il più elementare diritto resistenza,
ci segnalano come la politica estera, fatta di aggressioni militari
verso altri popoli inevitabilmente si sta progressivamente trasferendo
anche verso il “nemico interno”
Ed esattamente come nel caso delle aggressioni militari all’estero
anche in questo caso si deve innanzitutto criminalizzare chi si oppone.
Così come la resistenza contro le occupazioni neocoloniali
vengono indistintamente incasellate sotto la categoria del terrorismo,
del “male assoluto”, anche in questo caso si ricorre allo spauracchio
della camorra o dei no global, che per una parte significativa del
paese assumono quasi lo stesso valore negativo.
Quella camorra con cui amministratori locali e nazionali, imprenditori
e pezzi significativi delle stesse forze dell’ordine hanno fatto affari
d’oro, come si evince da numerosi processi puntualmente insabbiati,
quella camorra che è stata utilizzata per decenni per fare il
lavoro sporco di smaltimento dei rifiuti tossici frutto delle
lavorazioni industriali, oggi viene agitata come il principale artefice
della resistenza delle popolazioni.
Non risulta che qualche padrone abbia mai pagato per essere stato il
mandante di quella ecatombe ecologica che fa oggi della Campania un
territorio di produzione di morte, non abbiamo ascoltato da giornalisti
tanto solerti l’invocazione del pugno di ferro come si fa oggi contro
chi, dopo essere stato vittima per tanti anni di avvelenamento si
ribella alla scellerata politica di ulteriore degrado e devastazione.
Mentre tutti fanno finta di apprezzare il libro di Saviano sulla
Camorra da cui emerge almeno una parte della commistione tra
imprenditoria legale ed illegale, l’intreccio tra criminalità ed
apparati istituzionali dello stato, improvvisamente si scaglia l’accusa
di presunte infiltrazioni camorristiche all’interno delle proteste di
questi giorni. Con la differenza che mentre la commistione affaristica
politica continua ad andare avanti indisturbata, come ha evidenziato
anche l’ultima inchiesta venuta alla luce in questi giorni con 25
arresti in buona parte composti proprio di coloro che hanno gestito
l’emergenza rifiuti nell’ultimo periodo, la denigrazione dei movimenti
viene utilizzata come una clava contro chi lotta e soprattutto per
creare consenso e legittimazione della repressione che si porta avanti
contro di essi.
A qualche magistrato coraggioso che si permette di indicare mandanti ed
esecutori di questo disastro ambientale della corruzione e della rapina
del denaro pubblico si risponde con fastidio che non si deve
intralciare il corso della soluzione governativa impegnata a finanziare
esattamente le stesse imprese e ad assegnare la soluzione della crisi
dei rifiuti agli stessi amministratori che l’hanno gestita in questi
anni. Ed infatti si sancisce, in nome della eccezionalità della
situazione, la creazione di una super procura che ha la
possibilità di avocare a se tutti i procedimenti penali
stabilendo una giurisdizione particolare per la Campania e per la
vicenda rifiuti che ha lo specifico obiettivo di insabbiare tutti i
processi di ladrocinio e di devastazione dei territori da un lato e di
colpire con misure esemplari, da “tribunale speciale”, chi invece si
oppone al prosieguo di tale scempio.
Non contento dell’opportunità che gli si presentava, il governo
con il decreto sull’emergenza rifiuti ha tra le altre cose deciso che
le discariche si possono aprire anche senza tener conto della
Valutazione di Impatto Ambientale, ma anche che vi si possono smaltire
oltre ai rifiuti ordinari senza nessun previo trattamento, anche le
ceneri frutto e fanghi tossiche di lavorazioni industriali e degli
inceneritori. In questi ultimi invece già il governo Prodi aveva
stabilito di far bruciare i milioni di cosiddette ecoballe (cioè
il “tal quale” dei rifiuti imballati in questi anni) che residuano da
questa interminabile emergenza rendendo ancora più tossici i
fumi prodotti da questi ecomostri.
Per soprammercato gli inceneritori previsti passano a 4. Considerando
che quello in costruzione ad Acerra è già il più
grande d’Europa e sovradimensionato rispetto alle esigenze di
smaltimento dei rifiuti prodotti attualmente in loco, si capisce bene
l’intenzione del governo non solo di rinunciare programmaticamente alla
raccolta differenziata che renderebbe tali impianti antieconomici, ma
anche di candidare la Campania a terminale di incenerimento di buona
parte dei rifiuti del resto d’Italia. Sempre il governo Prodi ha
pensato bene infatti, per aggirare i divieti della Comunità
Europea, di mantenere i famosi Cip6 solo per gli impianti di
incenerimento della Campania. Per chi non lo sapesse i Cip6 sono i
finanziamenti e le agevolazioni concesse ai titolari di inceneritori in
quanto essi vengono parificati ai produttori di energia pulita!!!
La lotta di Chiaiano: denigrazione, repressione, e tecniche di
depistaggio
Eppure di fronte a tanta arroganza e protervia nel perseguire interessi
particolari a discapito di intere popolazioni, ad essere criminalizzate
sono le comunità in lotta che giustamente tentano di opporsi
alle aggressioni ambientali contro i propri territori.
In particolare contro le mobilitazioni sviluppatesi a Chiaiano si
è accanita la denigrazione da parte della stampa locale e
nazionale, dove era difficile distinguere tra giornali vicini
all’opposizione e quelli di area governativa. In particolare si
è distino il Mattino di Napoli che non a caso è di
proprietà di quel Caltagirone con interessi diretti nelle
politiche di incenerimento.
Alle popolazioni di Chiaiano e Marano, in prima fila nelle
mobilitazioni, non è stato risparmiato proprio nulla
dipingendole come infiltrate dalla Camorra, come egoiste ed ignoranti.
Solo così è stato possibile costruire quella pressione
mediatica, che insieme alla repressione poliziesca e giudiziaria ha
creato sbandamento ed incertezza permettendo allo stato di segnare un
punto decisivo a suo favore presentandosi con la carota della
trattativa per chiedere di poter fare le analisi necessarie a stabilire
l’idoneità delle cave individuate ad essere utilizzate come
discariche, nel mentre si continuava a brandire il bastone della
minaccia repressiva.
Si è trattato di una vera e propria trappola tesa al movimento,
approfittando delle sue incertezze per poter prendere possesso delle
cave e per sancire il principio, molto dannoso per l’intero movimento
di opposizione, secondo cui la politica delle discariche è
inevitabile ed accettabile, a condizione che si scelgano dei siti
idonei. L’effetto che si voleva ottenere, trovandosi di fronte ad una
mobilitazione determinata, che nonostante le dichiarazione bellicose
non sarebbe stato agevole affrontare senza pagare un prezzo notevole,
era proprio quello di produrre un calo della tensione, creare
sbandamento e divisioni. Cosa che è puntualmente accaduta anche
perché ha potuto contare sul ruolo attivo di tante figure
istituzionali locali che pure sono state parte significativa del
movimento stesso. Consiglieri comunali originari del luogo, consiglieri
circoscrizionali, sindaci ed altre figure varie hanno da subito
propagandato la necessità di accettare la proposta di mediazione
proposta nella trattativa, cercando di trasmettere tra la gente la
convinzione che si trattava di una via di uscita onorevole da parte del
governo per non ammettere di fare marcia indietro apertamente di fronte
alla lotta in corso.
Ma si è visto subito che si trattava di una beffa poiché,
a distanza di poche ore dall’accordo che prevedeva il mantenimento
delle barricate, il governo ha fatto sapere che lo stato non poteva
accettare di passare dalla porta di servizio (una strada secondaria)
per fare i rilievi tecnici e pretendeva con le buone o con le cattive
lo smantellamento delle barricate che è riuscito ad ottenere.
Alcuni giorni dopo Berlusconi tornato a Napoli ha messo il suo sigillo
sulla decisione di aprire la discarica di Chiaiano ribadendo il valore
simbolico e dirimente che tale realizzazione assume per il governo,
disposto ad “esercitare tutta la forza dello stato contro chi si
oppone”.
Il problema stava proprio nell’accettazione della trattativa. Di fronte
al rifiuto dell’apertura della discarica da parte della popolazione,
non vi erano accordi intermedi possibili. Qualsiasi soluzione proposta
dalla controparte poteva solo avere l’obbiettivo di dividere il fronte
di lotta, prendere tempo, per sfiancare e dividere il fronte di lotta,
per realizzare la sua soluzione. E se per, improbabile ipotesi, il
governo decidesse di rinunciare all’apertura della discarica di
Chiaiano, ciò lo renderebbe ancora più forte e credibile
di fronte alle altre comunità in lotta contro l’apertura di
discariche nei propri territori, perché avrebbe dimostrato di
decidere la scelta dei siti per le discariche in base a criteri
oggettivi ed imparziali.
Da questo punto di vista la scelta degli attivisti del centro sociale
Insurgencia, presenti con un ruolo di primo piano dentro la
mobilitazione di Chiaiano compreso due consiglieri di circoscrizione,
di legittimare tale trattativa, partecipandovi direttamente e
soprattutto accreditando anche loro la versione che si trattava di una
tregua, di una boccata di respiro utile a proseguire la lotta in
condizioni più favorevoli, è stata una decisione
incomprensibile, che testardamente si è voluto avallare senza
nemmeno consultarsi con gli altri attivisti della Rete salute e
ambiente campana.
La pressione cui essi stessi erano fatti oggetto, la concitazione del
momento, la difficoltà di mantenere un rapporto con la piazza e
le sue componenti più radicali, la preoccupazione di non poter
reggere lo scontro che si prospettava, sono tutti elementi che hanno
pesato su di una scelta avventata.
Soprattutto le preoccupazioni relative alle dimensioni dello scontro
non potevano certo essere esorcizzate con la dilazione dell’apertura
della discarica, poiché nel caso più che probabile che il
governo decida di insistere con la sua scelta, tra venti giorni si
presenteranno immutate.
Non si trattava di giocare il tutto per tutto andando ad uno scontro
suicida con le forze dell’ordine, quanto di fare chiarezza rispetto a
chi partecipava alla lotta esplicitando le reali intenzioni del
governo. Sarebbe stata poi l’assemblea a decidere se ed in che modo
proseguire la lotta. Ma almeno vi sarebbe stata da subito la
consapevolezza delle opzioni in campo e sicuramente gli effetti
sarebbero stati meno devastanti di quelli ottenuti con l’avallo di
quell’accordo che ha favorito lo sbandamento, rassegnazione e
smobilitazione, come era negli obiettivi del governo.
Se dovessimo valutare da questo punto di vista, potremmo dire che la
lotta di Pianura pur non passando per nessuna trattativa, sia pure in
contesto diverso, ha ottenuto migliori risultati di chi si è
illuso di poter interloquire con le istituzioni.
Ma il risultato più grave è stato proprio l’aver
contribuito alla perdita di autonomia del movimento verso le
istituzioni, tanto quelle locali che nazionali, l’aver diffuso la
convinzione che di esse in fondo ci si può fidare, invece di
denunciarle come principali corresponsabili del degrado ambientale e
della commistione affaristica.
In ogni caso, per il momento la lotta non è ancora finita,
né necessariamente persa poiché in questi venti giorni
presi dal governo per fare le analisi (tra l’altro già
abbondantemente eseguite in precedenza, altro elemento che avrebbe
dovuto mettere sull’avviso chi ha creduto alle motivazioni del
governo), possono essere un periodo in cui riorganizzare la
mobilitazione, provare a rompere l’isolamento degli abitanti di
Chiaiano e di Marano a cominciare dalla stessa città di Napoli
come nel resto della Campania e dell’Italia.
Rompere l’accerchiamento, necessità di una risposta generale
A tal proposito sarebbe riduttivo considerare il relativo isolamento in
cui avvengono le mobilitazioni contro le conseguenze del piano rifiuti
il solo risultato della ossessiva ed infamante campagna mediatica in
atto. Il fatto è che essa va ad inserirsi in un contesto di
più generale arretramento sul piano dei rapporti di forza tra le
classi con inevitabili riflessi anche sul piano ideologico e culturale.
Il dato fotografato dagli ultimi risultati elettorali, ma anche da
recenti episodi balzati sotto i riflettori della cronaca come
l’aggressione ai Rom, i crescenti episodi di razzismo e di intolleranza
ci segnalano la quasi totale scomparsa di ogni identità di
classe, di ogni fiducia nella possibilità di difendersi
collettivamente, oltre un mero ambito comunitario e/o territoriale,
contro gli effetti devastanti dell’offensiva liberista e dalle
conseguenze della globalizzazione.
La gente comune, gli stessi proletari, non sono degli ingenui o solo
“strumentalizzati” dalla stampa. Se essi in gran numero preferiscono
abboccare alle versioni di comodo offerte dalla informazione ufficiale
ciò avviene soprattutto perché pensano di non essere
coinvolti direttamente nelle vicende in corso oppure, non ritenendo di
poter dare soluzioni più generali, di poter affrontare il
livello dello scontro necessario, scelgono la via del minimo sforzo,
preferiscono prendersela con i più deboli o scaricare su altri
il problema che li vede coinvolti. È quanto succede con la
vicenda degli immigrati, come pure con la stessa vicenda rifiuti, dove
la stessa città di Napoli è poco coinvolta nella
opposizione al piano rifiuti oppure, pressata dai cumuli di immondizia
per le strade applaude addirittura alla strategia del governo invocando
una soluzione pur che sia. Nelle stesse comunità in lotta, dove
pure cresce un grado di consapevolezza maggiore legato alla propria
esperienza diretta, spesso la componente comunitaria e territoriale
prende il sopravvento rispetto alla necessità e
possibilità di respingere la logica complessiva con cui viene
gestita l’emergenza rifiuti. In una logica da “Io speriamo che me la
cavo”, si preferisce concentrare tutte le proprie energie nel cercare
di dimostrare che il proprio territorio è assolutamente inadatto
ad accogliere una discarica di cui non si contesta la necessità
generale, oppure invocare la soluzione dell’incenerimento che dovrebbe
consentire di ridurre la quantità di discariche da aprire.
La conferma di tale difficoltà traspare anche dalla totale
assenza della popolazione di Pianura all’interno dell’ultimo ciclo di
lotte, una volta che si è ottenuto di non fare aprire la
discarica nel proprio territorio.
Si tratta di un altro elemento che chiama in causa gli attivisti di
tutte le realtà in lotta non solo quelli campani, per le
difficoltà che esso indica verso la ripresa di un movimento che,
sia pure nelle sue articolazioni, sappia darsi un respiro generale ed
unitario, senza il quale difficilmente sarà possibile superare
gli ostacoli con cui tutti oggi ci troviamo a fare i conti.
La controinformazione rimane uno strumento decisivo per contrastare
l’ondata di infamie che si riversa contro le comunità in lotta,
ma probabilmente sono necessari dei passaggi altrettanto importanti da
mettere in cantiere per spezzare quella cappa di piombo che sta calando
verso tutte le mobilitazioni e le resistenze contro il turbocapitalismo.
Oggi nonostante vi siano svariate iniziative in campo nazionale contro
le singole grandi opere e specificatamente anche contro la politica
dell’incenerimento dei rifiuti, si fa difficoltà a realizzare un
reale coordinamento tra le singole vertenze rendendole tutte
obiettivamente più deboli.
Il massimo che si è riusciti a concretizzare è stato un
Patto di mutuo soccorso vissuto prevalentemente come reciproco sostegno
nei momenti critici delle singole ed esemplari vertenze.
È già un passo importante da rafforzare ulteriormente, ma
non può bastare rispetto alla sfida che abbiamo di fronte. A
volte si ha la sensazione che quel territorialismo e quel federalismo
che si cerca di fa passare da parte della classe dominante per
frantumare ogni legame di classe e spingere in una direzione
neocorporativa, abbia segnato dei punti a suo favore non solo tra la
gente comune, ma tra quegli stessi attivisti che pure dicono di
muoversi nell’orizzonte di un altro mondo possibile.
Sembra infatti prevalere una gelosa difesa delle proprie
specificità, ma se essa può rappresentare un buon
antidoto verso tendenze politiciste ed espropriatrici del protagonismo
di chi lotta, non affronta di petto il problema che rimane sul tappeto
di un vero coordinamento e di una vertenzialità unificante. Che
a tale federalismo si aggiunga la buona intenzione di renderlo
solidaristico non serve a cambiarlo di segno e ad invertire la
difficoltà verso un movimento generale.
L’altro elemento con cui fare i conti è proprio quella egemonia
ideologica e culturale realizzata in questi anni dai nostri avversari,
fino a farla penetrare significativamente tra gli stessi lavoratori e
proletari.
Sappiamo bene che essa si regge su solidissime basi materiali e
soprattutto sulla stessa mancanza di mobilitazioni generali che
funzionano da incredibile polo di attrazione e di convinzione, ma se
non si vuole ripetere il fuorviante dilemma circa la priorità
dell’uovo o della gallina, bisogna riconoscere che esse procedono come
minimo di pari passo.
Invece anche su questo terreno troppo spesso ci si riduce solo a
cercare di spiegare le buone ragioni della propria vertenza, la sua
ragionevolezza, a trovare i motivi “tecnici” che la dovrebbero rendere
plausibile. Manca quasi sempre la prospettazione di altri valori, di
altre relazioni sociali possibili in nome dei quali legittimare le
proprie resistenze contro le singole conseguenze del dominio
capitalistico.
Non si tratta di tornare a “grandi narrazioni” verso cui è
giustamente maturata una sana diffidenza, e nemmeno di immaginare le
“osterie del futuro”, ma di far emergere la critica al capitalismo in
quanto tale e alle sue leggi, partendo dalle singole vertenze ma
denunciando la logica che sta dietro le scelte che cercano di imporci.
Di esempi se ne potrebbero fare a iosa, ma ognuno può far
riferimento alla propria esperienza diretta per verificare come il
concentrarsi sulla credibilità ed il realismo delle proprie
rivendicazioni costituisca spesso un limite che ci si autoimpone con
l’illusione di poter più facilmente raggiungere il proprio
obiettivo, con il risultato di essere molto meno efficaci e convincente
di quanto ci si illuda.
Da questo punto di vista dovremmo imparare meglio e specularmente dai
nostri avversari, i quali sicuramente dispongono di strumenti
assolutamente asimmetrici rispetto a quelli in nostro possesso, ma che
sono quasi ossessionati di far passare dei concetti generali, dei
valori, un progetto di società con cui motivano le loro scelte
in ogni occasione possibile.
Per far ciò non è necessario ricorrere a grandi trattati,
o meglio il necessario lavoro di approfondimento può benissimo
trovare la sua sintesi in uno slogan o comunque in strumenti più
agili attraverso cui veicolare la messa in discussione delle attuali
relazioni sociali in cui tutto è subordinato realizzazione del
profitto come unica spinta propulsiva per la società e alle
leggi di mercato come unico orizzonte possibile entro cui si può
dare l’esistenza della specie umana.
Senza uno sforzo collettivo per ridare credibilità e
legittimità ad una prospettiva di cambiamento radicale
sarà veramente difficile invertire la rotta non solo sul piano
dei rapporti di forza che si vanno consolidando, ma anche dare
possibilità alle singole vertenze di ottenere risultati.