Sistema previdenziale, occorre una riforma autentica.
Da diversi decenni, ormai, la discussione sulla spesa pensionistica
tiene periodicamente banco sulle prime pagine dei giornali e forma
argomento di dibattito e di contrasto tra le parti sociali di questo
paese.
Negli ultimi anni, il sistema previdenziale è stato oggetto di
riforma a più riprese e ad intervalli sempre più
ravvicinati (tanto che ogni governo ormai vara la sua “riformina”)
sempre e solo nell’ottica di un ridimensionamento, più o meno
accentuato, dei trattamenti pensionistici dei lavoratori dipendenti.
Ed ogni volta il discorso viene ripresentato con i consueti
catastrofismi e con i soliti appelli alla “solidarietà
generazionale”, stimolando uno strumentale senso di colpa verso le
generazioni prossime, che verrebbero fortemente penalizzate nel caso
malaugurato che i lavoratori attuali non si sacrificassero per loro..
Attualmente la partita si svolge sul terreno dello spostamento di
risorse verso i Fondi pensione integrativi. La riforma del TFR del
governo Prodi costituisce un passaggio dirompente a favore di questo
spostamento.
Essa, infatti, rovescia la salvaguardia del rendimento garantito dei
contributi TFR (proprio per i giovani ed i neo – assunti che a parole
si dice di voler “proteggere”) a favore di un investimento nei Fondi
affidato ai parametri variabili ed incerti legati al mercato
finanziario.
Questo cambiamento costituisce, insieme al rovesciamento effettuato
dalla riforma Dini del 1995 per il sistema di calcolo da retributivo a
contributivo, un caposaldo del processo di ristrutturazione del sistema
pensionistico.
Come lavoratori che operano, direttamente o indirettamente, nel settore
previdenziale, abbiamo molte perplessità su questo argomento e
siamo spinti a fare un ragionamento che non si basi su difficili
proiezioni statistiche o formule matematico – economiche, di difficile
comprensione e che non sempre si prestano ad interpretazioni univoche.
Proprio l’insistenza con cui pervicacemente si continua a voler
dimostrare che la carenza di risorse per il sistema previdenziale
è causata dalle numero e dall’ ammontare delle pensioni
attualmente pagate, ci convince di partire proprio da questi due
capisaldi (sistema contributivo e fondi pensione).
Facciamo una ipotesi su un lavoratore “medio”, la cui retribuzione oggi
si aggira intorno ai 1200 €uro mensili.
Per quanto riguarda il TFR, egli, dopo 35 anni di lavoro, con il
sistema tradizionale verrebbe a percepire, a conclusione del rapporto
di lavoro, una somma di circa 60.000 €uro.
Paragoniamo ora questa cifra con quanto riceverebbe se per lo stesso
periodo di 35 anni egli avesse versato i suoi contributi TFR ad un
Fondo pensione, come previsto dalla riforma..
In una ipotesi ottimistica, in cui il Fondo gli garantisca un buon
rendimento, alla fine della sua vita lavorativa, il lavoratore
percepirebbe circa 130 € mensili di rendita vitalizia.
Per arrivare ad ammortizzare (cioè a vedersi restituita), con
questa rendita, l’importo che avrebbe ricevuto con il TFR
“tradizionale”, il lavoratore dovrebbe vivere, dopo il collocamento in
pensione, la bellezza di altri 37 anni.
Se consideriamo un lavoratore che per esempio va in pensione a 60 anni,
che è ormai il minimo per raggiungere i 35 anni di
contribuzione, dovrebbe arrivare all’età di 97 anni.
Consideriamo ora l’aspetto che riguarda i contributi previdenziali. Lo
stesso lavoratore, dopo i suoi 35 anni di contribuzione, avrebbe
versato circa 240.000 €uro totali. Calcolando la sua pensione con il
sistema conributivo, così come prevede a regime la mega-riforma
Dini, anche in questo caso, solo per riprendere il capitale costituito
dai contributi versati, senza alcun interesse, egli dovrebbe vivere per
almeno 30 anni dall’inizio del pensionamento.
Questo ragionamento quasi banale nella sua semplicità ci porta a
concludere che tutti gli argomenti e le tesi che hanno sostenuto e
sostengono le tesi “riformiste” per il sistema previdenziale nascondono
solo una colossale trappola tesa ai lavoratori, un imbroglio che ha il
solo scopo di prelevare risorse finanziarie, vuoi per ripianare i conti
pubblici, vuoi per favorire le varie forme di previdenza assicurativa
privata.
Occorre una riforma vera, un capovolgimento del concetto che la spesa
previdenziale sia la causa principale del deficit pubblico. Questo
è determinato da fenomeni patologici ben più gravi dal
punto di vista morale e molto più ingenti dal punto di
vistas quantitativo.
L’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, ormai accertate in
termini di svariate centinaia di miliardi di €uro ogni anno, le
malversazioni e gli sprechi legati alle collusioni del mondo politico
con settori affaristici di pochi scrupoli, il sovraccarico
dell’assistenza pubblica sostenuto sempre e comunque dai contributi dei
soli lavoratori dipendenti sono solo alcuni degli aspetti che
regolarmente vengono sottaciuti e che soprattutto ci si guarda bene
dall’affrontare in termini seri e decisivi.
Una autentica riforma del sistema previdenziale non può che
partire, al contrario di quello che sai fa usualmente, dalla
constatazione che esiste una sovrabbondante moltitudine di pensionati
che percepiscono pensioni al limite ed al di sotto della soglia della
miseria, le quali sono state l’unico obiettivo da attaccare per chi
sostiene che sia necessario risparmiare sulla spesa previdenziale.
Occorre constatare anche che, allo stesso tempo, esiste una fascia
quantitativamente non trascurabile, di pensioni “d’oro” che invece
costituiscono un pozzo senza fondo che assorbe, per gli importi che
vengono pagati, la maggior parte delle risorse che queste
riforme-imbroglio pretendono di salvaguardare.
Si pensi a quanti parlamentari, magistrati, professori universitari,
primari e dirigenti sanitari, dirigenti di ministeri e uffici pubblici,
dirigenti bancari, alti ufficiali delle Forze Armate e delle Forze
dell’Ordine, dirigenti di partito o di organizzazioni sindacali e altre
categorie simili ricevono pensioni esorbitanti rispetto alla media
percepita dagli altri lavoratori.
Per ciascuno degli appartenenti a queste categorie non si va mai al di
sotto di 5000 €uro mensili di pensione, ma per le categorie più
privilegiate si raggiungono soglie di diverse decine di migliaia di
€uro, sempre mensili, anche per effetto di cumuli di pensioni per
funzioni svolte in diversi settori (ad esempio il passaggio Banca
d’Italia à Parlamento à Governo à Presidenza della
repubblica – vi ricorda qualcuno?).
Si deve anche considerare che queste personalità, in genere,
dopo il pensionamento continuano a ricoprire altre cariche o a svolgere
funzioni di “consulenza” presso enti pubblici e privati, che gli
forniscono altro reddito aggiuntivo.
Una personalità di questo tipo può arrivare, per esempio
a percepire 36.000 €uro di pensione mensile. Che sproporzione con le
100 pensioni sociali che sarebbe possibile pagare con la stessa somma!!
Abbiamo calcolato che gli appartenenti a queste categorie di
pensionati, chiamiamoli agiati, non sono meno di 1.500.000. Lasciamo a
chi legge il divertente calcolo sulla spesa che queste pensioni
comportano.
Una riforma che si proponga di razionalizzare ed economizzare nella
spesa previdenziale, quindi, non dovrebbe prescindere da queste
considerazioni. Essa dovrebbe proporsi due obiettivi:
da un lato di ridurre l’evidente squilibrio tra quanto viene destinato
alla fasce più numerose di lavoratori pensionati, alzando il
tetto minimo della pensione erogabile, tetto che potrebbe essere
fissato a 1000 €uro, che è la somma generalmente considerata
come soglia al di sotto della quale si appartiene alla fascia di
povertà;
dall’altro incidere decisamente sull’ammontare della spesa globale,
costituendo un tetto massimo inderogabile alle pensioni più
privilegiate, con un limite fissato ad esempio a 5000 €uro, somma
già ampiamente sufficiente a garantire un alto tenore di vita
Solo a queste condizioni potrebbe essere opportuno “aprire” il sistema
alla previdenza integrativa, lasciando la totale libertà di
aderirvi, specie a coloro che hanno retribuzioni che glielo consentono.
In altre parole, in presenza di una garanzia data dall’applicazione di
una soglia minima per le pensioni, assicurata anche a quelle categorie
che a causa della discontinuità della loro attività
(precari) o perché soggetti a processi di ristrutturazioni e
licenziamenti non possono costruirsi attraverso la contribuzione
“normale”, tant’omento con quella integrativa, una pensione dignitosa,
non ci sarebbe ragione di opporre ostacoli a chi, godendo di un reddito
adeguato, decidesse di investire nei Fondi integrativi, per costruirsi
una trattamento pensionistico per mantenere il proprio tenore di vita.
Stando ai progetti che circolano, invece, i ceti meno privilegiati
rischiano ancora una volta di essere l’obiettivo principale ed
esclusivo delle manovre “riformatrici”. Chiediamo perciò alle
forze politiche e sociali a cui questi ceti fanno riferimento, ceti che
formano la parte preponderante del blocco sociale che le sostiene, di
prendere posizione su queste proposte e di agire conseguentemente nelle
sedi e nei tempi più opportuni perché esse vengano in
qualche misura prese in considerazione.
Ettore Davoli
lavoratore INPDAP
IN QUALCHE MODO AGIAMO
I dati ufficiali (sicuramente al ribasso) sulle morti per il
lavoro ormai sono allarmanti, si tratta di una vera e propria strage
circa 1200 morti l'anno (più di 3 al giorno) e quasi 1.000.000
di infortuni l'anno, con migliaia di invalidi permanenti il numero
purtroppo aumenta anno dopo anno ma soprattutto e direttamente
proporzionale alla condizione di precarietà lavorativa:
più si è precari più si è soggetti a
rischio. Questo dato evidenzia un fenomeno strutturale rispetto ad una
precisa scelta politica, cioè la precarizzazione, vale la pena
sottolineare politicamente che, ad una scelta di risparmio sui costi
d'impresa atto a contrastare la competitività come c'è la
propinano i padroni corrisponde una diminuzione non del loro profitto
ma dei costi sui lavoratori cioè soprattutto salari e condizioni
di sicurezza vedi appunto anche le nuove condizioni
contrattuali). quindi il bacino dei lavoratori a rischio si allarga
oltre alle classiche fette dei lavoratori in nero o immigrati , si
allarga anche il ventaglio delle malattie in riferimento ai nuovi
settori produttivi senza evidenziare i problemi da stress lavorativo
causati dagli attuali ritmi frenetici ed incerti dei rapporti di lavoro.
l'idea è quella di fare un'assemblea cittadina per proporre un
comitato romano sui problemi della salute e sicurezza sul lavoro che
apra un percorso politico costante e di lungo periodo sulla questione
la proposta costituente dovrebbe trattare in sintesi:
1) la costituzione in futuro di un numero verde per la denuncia
anonima di situazione pericolose, che possa aiutare inizialmente a
rompere il ricatto che sta dietro a queste vicende rispetto al non uso
delle norme, di denuncia di eventuali infortuni o morti nei luoghi di
lavoro purtroppo sempre più spesso nascoste in modo che si possa
agire, intervenire e sensibilizzare in merito con uno strumento reale e
concreto(inviare asl, ispettori del lavoro, aiutare a denunciare i
padroni e quant'altro serve in questi casi).
2) costruire iniziative di sensibilizzazione e monitoraggio fra
i lavoratori in merito alla questione che rompino un clima di
indifferenza, penso ad esempio alla riscrittura del nuovo testo unico
del governo su sicurezza e lavoro che sta passando in sordina rispetto
ad un coinvolgimento reale dei lavoratori e quant'altro sull'argomento.
3) creare un luogo della memoria che parli delle morti sul
lavoro costruire un muro su cui scrivere in ogni mattone il nome del
lavoratore, l'impresa e il luogo dell'accaduto e l’ente appaltante-
questo problema, ci può fare aprire un fronte di lotta
che tocchi uno dei bisogni primari di un individuo cioè la
salute non solo rispetto al lavoro in se, ma rispetto alla condizione
di precarietà che accomuna tutti indiscriminatamente, tutti
lavoriamo.
I compagni interessati a questa proposta, disposti a lavorare per
costruire l’assemblea e far parte del comitato si mettano in contatto.
Ettore Davoli