L'articolo
che segue era stato commissionato all' Autore per il Supplemento di
"Liberazione"/"Quer" dedicato a Gramsci e intitolato "Può
il subalterno parlare?", a cura di Giorgio Baratta (29/04/07). Essendosi l'Autore
rifiutato di tagliare, cioè autocensurare, una frase di critica
a Bertinotti (come gli era stato chiesto) il curatore
Giorgio Baratta e "Liberazione" hanno deciso di
censurare l'intero articolo, che infatti non è stato
pubblicato. Facciamo pervenire il testo ai compagni e alle compagne
(con la frase proibita in carattere grassetto). Invitiamo a diffonderlo
e, soprattutto, a meditare insieme su come è ridotta la sinistra
(che pure si dice comunista, libertaria, antiautoritaria e
quant'altro).
Per una dialettica
grarnsciana del subalterno
1. La domanda se il subalterno possa parlare costituisce
(a rigori) una tautologia, che nasconde però un problema (e
forse il problema).
Il subalterno, finché rimane subalterno e in quanto
subalterno, non può evidentemente parlare,
perché l'essere subalterno si definisce appunto come una
radicale mancanza di autonomia, che significa mancanza di un
proprio punto di vista, mancanza di un discorso auto-centrato e
posizionato a partire da sé, dunque mancanza anzitutto di
parola. Dove "parola" significa evidentemente sia lessico che
linguaggio i quali (il pensiero femminista ce l'ha insegnato) sono
intrisi di dominio: usare la parola di chi ci usa non è parlare.
Credo anzi che potrebbe essere questa la vera definizione di
"subalterno": è subalterno chi non possiede una propria
capacità di parola (qui Spivak è impari a se stessa,
quando definisce "subalterno" come "essere rimosso/a/i da ogni linea di
mobilità sociale": il contrario è vero, anche la
"mobilità sociale", perseguita individualmente o
corporativamente dentro la gerarchia delle classi assunta come
immodificabile, è fattore e segno di subalternità).
2. Se "subalterno" è mancanza di parola, allora "potere"
è anche potere di parola, il potere egemonico di articolare un
discorso auto-legittimante, di istituire un senso, di dare senso
alle cose (o meglio: di imporglielo), rendendo il proprio
punto di vista "senso comune". E Gramsci ci insegna che appunto attorno
al "senso comune" si svolge la lotta egemonica fra le classi: è
egemone chi incontra, controlla, gestisce il senso comune.
Da questo punto di vista non solo le nazioni ma anche i poteri sono racconto
o, per meglio dire, le "grandi narrazioni" condivise dai subalterni
sono necessarie ai poteri non meno di quanto gli siano le polizie e gli
eserciti (non foss'altro perché -come già Gramsci vide
lucidamente - anche nella più esclusiva, costrittiva e
"dominante" delle dittature almeno le polizie, gli eserciti e i membri
degli apparati repressivi debbono, in qualche modo, essere
"egemonicamente" persuasi dal potere che servono, cioè debbono
condividere il racconto del mondo proposto/imposto da quel potere). Per
questo le dittature hanno bisogno di eroi.
3. È giunto il momento che i rivoluzionari assumano il problema
della costruzione del senso come il più decisivo dei problemi.
Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare
rispetto a quello del potere almeno nei termini della capacità
di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi.
Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per
l'autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità.
È il gesto (se ci riflettiamo: meraviglioso) da cui origina ogni
liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel
momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del capitale
(cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il
gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il "fardello
dell'uomo bianco" sia solo un racconto che serve per caricare ogni
fardello sulle spalle dell'uomo nero e della donna nera; è il
gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta
giovanili, etc.
Quando i rapporti di forza sono particolarmente sfavorevoli o
addirittura disperati (come nei tempi nostri) forse potrebbe bastare il
gesto degli ebrei costretti ad assistere alle prediche della
Controriforma: turarsi le orecchie con invisibili tappi di cera. Forse
è proprio questo che fanno i ventenni di oggi, forse è
una forma di primitivo, ma sensato e radicale, rifiuto il loro
malinconico e anoressico silenzio, forse è l'unica forma di
opposizione che sia oggi loro possibile.
4. Chi rifiutasse ancora l'urgenza del problema che qui poniamo (magari
perché lo ritiene, con formuletta lorianesca,
"sovrastrutturale") dovrebbe riflettere sull'accanimento e la cura che
il potere capitalistico impiega nella distruzione sistematica dei
racconti di liberazione che minacciano di mettere in questione la
passività dei subalterni. Cos'altro sono la campagna sistematica
della pagina culturale del "Corriere della sera" contro la Resistenza o
di "Repubblica" contro Cuba se non lo sforzo di persuadere che nulla di
diverso dal potere dai suoi orrori è stato mai possibile (e,
dunque, oggi neppure pensabile)? Anche molta parte della gestione
neo-brescianesca di Gramsci (Gramsci liberale, Gramsci trotzkista,
Gramsci socialdemocratico, Gramsci tradìto da Togliatti, etc.)
ci parla di questa esigenza del potere di rendere impensabile ogni
alternativa.
Questa è la secolare lotta culturale (e politica) fra le classi:
da una parte i subalterni tentano sempre in ogni modo (compreso il
sogno e la religione) di affermare che un altro mondo sarebbe
nonostante tutto possibile; dall'altra parte il potere ribadisce invece
che non c'è nulla da fare, che un altro mondo è
assolutamente impossibile, che "tanto, signora mia, una volta al potere
sono tutti uguali". Da questo punto di vista l'esito dell'esperienza di
Rifondazione (simboleggiato dalle reazioni di Bertinotti agli
studenti che lo avevano contestato alla "Sapienza")
rappresenta una grande vittoria culturale, cioè politica, del
potere capitalistico italiano, e costituisce un formidabile fattore di
disillusione e rassegnazione dei subalterni (che si tramuta in
passività politica).
5. Qui il pensiero di Gramsci ci aiuta. In Gramsci il soggetto (il
soggetto della storia, e della rivoluzione) non è affatto
dato, esso si deve continuamente costruire, dunque auto-costruire. A
ben vedere deriva proprio da qui una insopprimibile istanza democratica
presente in Gramsci: la necessità di costruire il soggetto
rivoluzionario (costruire, non solo dirigere) attraverso un processo
reale storicamente determinato, cioè politico e conflittuale,
che presenta contraddizioni anche al suo interno (fra dirigenti e
masse, fra partito e movimento, fra "direzione consapevole" e
"spontaneità" etc.). E il fondamento teorico della democrazia
comunista è l'inaudita risposta che Gramsci fornisce alla
più inaudita delle domande che un dirigente comunista si sia mai
posto, una domanda ai limiti dell'assurdo nella concezione leninista
del Partito e che Gramsci definisce invece "quistione teorica
fondamentale": "Si presenta una quistione teorica fondamentale (...):
la teoria moderna [il marxismo, n.dr.] può essere in opposizione
con i movimenti 'spontanei' delle masse?" (Q 3, pp. 330-331). La
risposta che Gramsci si dà (e nessun altro comunista dopo di lui
si darà) è tanto risoluta quanto gravida di conseguenze
fondamentali per la teoria del Partito e per la stessa idea di
rivoluzione: "Non può essere in opposizione: tra di
essi c'è una differenza 'quantitativa', di grado, non di
qualità; deve essere sempre possibile una 'riduzione', per
così dire, reciproca, un passaggio dagli uni agli altri e
viceversa"(lbidem).
6. "Siamo indios, ma non solo..." dicono gli zapatisti. I subalterni
gramsciani, gli operai che egli ha ascoltato negli anni
dell"'Ordine Nuovo", i quadri popolari con cui ha cercato di costruire
il suo Partito, perfino i delinquenti meridionali che ha incontrato in
carcere non sono mai tabula rasa, non sono mai mera passività e
assenza di soggettività, non sono mai solo il "concio" della
storia: sono sempre anche qualcos 'altro. È questo il
motivo per cui: "il punto di partenza deve sempre essere il
senso comune, che spontaneamente è la filosofia delle
moltitudini che si tratta di rendere omogenee filosoficamente." (Q 11,
pp. 1397-1398). Esiste infatti "lo spirito popolare creativo", che
Gramsci afferma essere la vera base della sua ricerca, la comune
origine dei quattro strani temi che egli si assegna nella lettera a
Tania del 19 marzo 1929 in cui annuncia per la prima volta il progetto
dei Quaderni. Per questo: "Ogni traccia di iniziativa
autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe (...) essere di valore
inestimabile per lo storico integrale" (Q 25, pp.2283-2284).
Raul Mordenti 19/4/2007
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