NASCE IL PARTITO DEMOCRATICO: IO RIMANGO COMUNISTA
Nasce in questi giorni, accompagnato da grande fracasso mass-mediatico,
il Partito Democratico, che ha tra i suoi obiettivi quello, neanche
tanto paludato, di far sparire ogni presenza comunista in Italia,
attraverso marchingegni elettorali che dovrebbero portare, al
più presto possibile, ad un bipartitismo perfetto, fondato
sull’alternanza al governo tra due partiti, entrambi “moderati”, quasi
uguali, secondo il modello americano. Quasi contemporaneamente, un
milione di persone sfila a Roma in una manifestazione che, al di
là del significato che dalle diverse parti si vuol dare ad essa
(appoggio al governo, ultimatum a Prodi, ecc.), pullula di bandiere
rosse e di falci e martello. Sembra che il progetto di Veltroni sia
fallito in partenza. Ma se, malauguratamente, riuscisse, forze vive
della società (molti i giovani, disoccupati o precari, presenti
al corteo, molti gli operai, vera forza motrice in una società
industriale avanzata) dovrebbero esser cancellate con una semplice
operazione di ingegneria costituzionale.
In questo contesto, caratterizzato da mosse e contromosse, da
compromessi e camaleontismi vari, voglio ribadire la mia fede
comunista, fondata su molteplici motivi, che si intrecciano e che
esporrò qui di seguito. Innanzitutto, si tratta di motivi di
carattere personale e familiare. Già mio nonno, l’insegnante
Salvatore Catalfamo, era comunista. Impegnato nel referendum
istituzionale a favore della Repubblica, in quanto collegato, assieme
all’avv. Antonino De Pasquale, a Nino Pino Balotta (veterinario di
estrazione anarchico-libertaria, ferito e incarcerato nel corso dello
sciopero generale del 2 gennaio ’48 a Barcellona P.G. , fu eletto
deputato al Parlamento nazionale nelle file del Partito Comunista,
rimanendo in carica fino al ’63), fu consigliere comunale a Castroreale
alla fine degli anni Cinquanta e poi alla fine degli anni Ottanta del
secolo scorso. Per più di quarant’anni fu segretario della
sezione comunista e della Camera del Lavoro di Bafia, frazione di
Castroreale, nella quale si concentrava maggiormente la presenza del
Pci. Fu più volte minacciato e persino aggredito dai
clerico-fascisti, che si nascondevano dietro le insegne dello scudo
crociato. Come sindacalista, condusse lotte dure e coraggiose per il
rispetto della legge relativa alle assunzioni di braccianti nella
forestale. Minacciò più volte l’occupazione dell’ufficio
di collocamento contro il tentativo di eludere le graduatorie,
perpetrato, attraverso cavilli giuridici, non solo da funzionari
pubblici, ma anche da sindacalisti della Cisl e della Uil. Voglio
ricordare che, in quegli anni, la repressione antisindacale era forte.
Il segretario della Camera del Lavoro di Patti fu arrestato, appunto,
per aver occupato l’ufficio di collocamento del suo paese, assieme a
numerosi lavoratori, che si opponevano alle assunzioni clientelari.
Anche Giuseppe Bontempo e tanti altri sindacalisti erano stati
arrestati in passato, perché rei di difendere i diritti dei
più deboli.
La lotta condotta da mio nonno fu vittoriosa. Le graduatorie furono
rispettate e, inoltre, Bafia ottenne un monte di ore lavorative nella
forestale inferiore solo a quello del capoluogo provinciale, Messina, e
di Santa Lucia del Mela, dove era segretario della Camera del Lavoro
Santo Brunetta (allievo del vecchio sindacalista comunista Pietro La
Rosa), che capeggiò anch’egli lotte lunghe ed estenuanti,
resistendo un minuto più del padrone.
Anche mio padre, il professore Domenico Catalfamo, era ed è
comunista. Lo è stato dall’età di quattordici anni,
quando, in un comizio tenutosi a Bafia, presentò Pierino
Mondello. Allora – siamo nei primi anni Cinquanta – la Federazione
comunista di Messina vantava parecchi dirigenti di origini borghesi,
che si erano messi al servizio dei ceti meno abbienti: oltre a
Mondello, vorrei ricordare Giuseppe Schirò (deputato), Giuseppe
Prestipino (filosofo), Emanuele Conti (giurista). A distanza di
parecchi lustri, ho conosciuto Bianca Garufi, che ispirò a
Cesare Pavese le poesie de “La terra e la morte” e con lui scrisse a
quattro mani il romanzo “Fuoco grande”. Bianca mi disse di essere stata
sposata in prime nozze con un Pierino Mondello, appartenente a una
famiglia di industriali del caffè, che, probabilmente, si
identificava con l’amico e il compagno di lotte di mio padre. Domenico
Catalfamo, nel 1960, a soli 23 anni, fu eletto consigliere comunale,
nelle file del Pci, a Barcellona Pozzo di Gotto, secondo centro della
provincia di Messina. Già da alcuni anni era segretario della
locale sezione del partito. In pubblici comizi attaccò il
sistema di potere clientelare del sen. Carmelo Santalco, “satrapo”
cittadino della Democrazia Cristiana. Fu portato in trionfo dalla folla
strabocchevole. Successivamente, per sei anni, è stato
consigliere comunale d’opposizione a Castroreale e poi, per venti anni,
assessore e vice-sindaco. Erano tempi in cui esisteva, nel Partito
comunista e nella C.G.I.L., un’etica politica ferrea. Una volta Nino
Pino Balotta andò a Bafia per una riunione alla Camera del
Lavoro, a conclusione della quale non si intrattenne con nessuno dei
notabili del paese, come usavano fare i dirigenti degli altri partiti.
Sulla strada si fermò a discutere solo con don Carmelo il
Quatarone, figura singolare di contadino dal sapere gnomico e dalla
forza erculea, che, forse, aveva conosciuto nelle patrie galere, oppure
aveva fiutato come originale, seppur sulla base delle poche battute
scambiate lì. Dopodiché, Pino si avviò con passo
un po’ obliquo – a causa di un piede che s’era rotto da ragazzo,
cadendo in un pozzo – verso la sua giardinetta dagli sportelli in legno
e partì alla volta di Barcellona. Nino Pino era amico di uno dei
rampolli della nota famiglia Gemelli, concessionaria della Fiat nella
città del Longano. Ma ogni qualvolta costoro ebbero ragioni di
contrasto con i lavoratori alle loro dipendenze, il Nostro, senza alcun
indugio, prese le difese delle maestranze. Oggi, tanto per dare
l’idea del cambiamento etico, basta dire che Guglielmo Epifani,
all’indomani della vittoria dei No al referendum sul welfare e sulle
pensioni all’interno degli stabilimenti Fiat, incontra Montezemolo, che
magari gli chiede la testa del gruppo dirigente della Fiom per
continuare la politica della concertazione.
Anch’io sono comunista dall’età di quattordici anni. Ma è
sempre difficile parlare di se stessi, specie in termini elogiativi.
Dico solo che mi sono formato alla scuola di Nino Pino, che ho
conosciuto quand’era ormai avanti negli anni, e, tramite lui, di
Ambrogio Donini. Quest’ultimo testimoniò sui tentativi, compiuti
dal Pci e dall’Unione Sovietica, per liberare Gramsci dalle carceri
fasciste. Questi tentativi fallirono per l’intervento diretto di
Mussolini. Le provocazioni portate avanti, in questi giorni, dai vari
Giuseppe Vacca sul caso Gramsci confermano la pessima opinione che mi
sono fatta del Partito Democratico.
A questi motivi di carattere personale e familiare si assommano quelli
di carattere culturale ed ideologico. Pablo Neruda, Premio Nobel per la
letteratura, racconta, in “Confesso che ho vissuto”, che nel 1949
partecipò, in Unione Sovietica, al centenario di Puskin.
Migliaia di contadini, col vestito vecchio della festa, ascoltavano in
un bosco, in assoluto silenzio, le poesie del grande scrittore russo.
Il grano cresceva, gli uomini crescevano, la poesia cresceva nella mano
ruvida del contadino. In Urss Neruda incontrò il poeta
turco Nazim Hikmet, che lì scontava il suo esilio e che gli
disse che nella società sovietica la poesia era un’ “esigenza
indispensabile dell’anima”. Così fu finché non si
arrivò alla fase degenerativa, che non è qui il caso di
analizzare. Per questo sono e rimango comunista: perché il
comunismo è la poesia della vita, è il sogno di milioni
di uomini che aspirano ad una società di liberi ed eguali.
Gianni Rodari ci ha spiegato, con parole molto semplici, che si tratta
di un’ “utopia” molto concreta. Un’utopia che rappresenta l’altra
faccia della realtà, quella che dobbiamo ancora conquistare
attraverso la scienza e la conoscenza, che sono anch’esse lotta. Mi
fanno pena gli ex comunisti che non sanno sognare. Sono loro gli
utopisti puri, perché si illudono – o, forse, fanno finta di
illudersi – che la società capitalistica sia riformabile.
Il pensiero di Marx conserva intatta la sua attualità. Molti ex
marxisti hanno irriso alla sua teoria della progressiva
proletarizzazione della società borghese. Ma oggi stiamo proprio
assistendo ad un processo di proletarizzazione di una parte consistente
della piccola borghesia. Chi ha una piccola attività economica
è sommerso dalle tasse e spesso è costretto a chiudere
bottega. L’obiettivo del capitalismo è quello di accentrare
tutta l’economia ed il commercio in poche mani. Il precariato affligge
milioni di giovani, che operano non solo nel settore privato, ma anche
in quello pubblico (impiegati, insegnanti, ecc.). Migliaia di
ricercatori universitari prendono uno stipendio di 800-1.000 euro al
mese. La manifestazione del 20 ottobre, alla quale accennavo
all’inizio, è la conferma del malessere che serpeggia nella
società borghese, al di sotto dell’apparente opulenza. Tutte
queste energie vive rappresentano la speranza di un futuro migliore, da
conquistare attraverso la lotta, che non va indirizzata solo contro le
singole storture, ma anche contro il sistema capitalistico nel suo
insieme.
Antonio Catalfamo
Direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”
Barcellona Pozzo di Gotto
(Messina)