di Valerio Evangelisti
(Relazione pronunciata a Siviglia, il 27 ottobre
2005, al
convegno Nueva
derecha: ideas y medios para la contrarrevolución, organizzato dalla rivista
Archipiélago e dalla ‘Università Internazionale dell’Andalusia - Sezione
Arteypensamiento.)
La versione italiana del fenomeno mondiale chiamato “nuova destra”, e
comprendente aspetti disparati ma coerenti come il neoconservatorismo
statunitense, il fondamentalismo cristiano, il revisionismo storico, in
Italia ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Non perché questo
monopolista industriale passato alla politica sia individualmente all’origine
del fenomeno, ma perché ha saputo farsene il catalizzatore nella penisola, e
radunarne in un’unica compagine - almeno per un certo tempo - le diverse
espressioni. Ciò malgrado l’assenza di un pensiero univoco e di una cultura
unificante, sostituiti da tutta una gamma di atteggiamenti e di prese di
posizione contingenti, a brevissimo respiro.
Ora che il governo Berlusconi sembra volgere al fine, è il momento di
interrogarsi con pacatezza e lucidità su ciò che ha rappresentato in Italia.
Esiste tutta una letteratura che si è concentrata sul personaggio, per
sottolinearne le caratteristiche sgradevoli o equivoche, e che ne ha
interpretato l’opera, quale presidente del consiglio, in chiave di
instaurazione di un regime semi-totalitario.
Chi fa propria questa interpretazione di solito non dispone di strumenti
critici storico-economici capaci di raggiungere il livello strutturale dei
fenomeni; e ciò in quanto per lo più professa un’ideologia liberale o
neoliberale - vale a dire la stessa ideologia di cui Berlusconi è alfiere,
sia pure in una variante estremistica e tinta di populismo. Se si
condividono le coordinate ideologiche, diventa difficile situare con
precisione sotto il profilo storico o delle idee l’oggetto studiato, perché
le strutture contestuali appariranno date e non discutibili. Ci si arresterà
quindi all’epifenomeno - specie se un’analisi più approfondita approderebbe
al riconoscimento di una responsabilità propria, per non dire di una
corresponsabilità.
Chi adotta il taglio epifenomenico, tra l’altro, finge di dimenticare che
Berlusconi è stato regolarmente eletto, e che i provvedimenti che lui e i
suoi alleati di governo hanno adottato, inclusi i decreti e le leggi più
aberranti, sono passati non in virtù di presunti “colpi di mano”, bensì con
un uso totalmente legale della maggioranza schiacciante offerta loro dal
sistema elettorale maggioritario. Chi si è battuto per quest’ultimo ha pochi
titoli per denunciare il “regime” di Berlusconi, visto che ha approntato o
approvato gli strumenti di cui l’avversario si è poi servito.
Dovrebbe piuttosto chiedersi perché gli elettori abbiano votato un
personaggio simile, dotato di un programma teso solo a soddisfare egoismi
propri e altrui. L’ “offerta Berlusconi” non si sarebbe affermata se non
avesse trovato nella società una domanda corrispondente, essenzialmente
suscitata da altri.
Di norma, chi critica il Berlusconi “autocrate” e instauratore di un regime
è consapevole del fatto che il personaggio gode delle simpatie di una parte
consistente dell’elettorato, in alcuni momenti maggioritaria. Tende ad
attribuire un consenso così largo al monopolio sui mezzi di comunicazione, e
soprattutto sulla televisione (i canali Mediaset, poi, dopo l’ascesa alla
presidenza del consiglio, anche quelli Rai). Lo stesso Berlusconi ha d’altra
parte dimostrato di attribuire al controllo dei media un valore strategico,
e il recente abbandono di ogni parvenza di par condicio in tema di
interventi elettorali basta a dimostrarlo.
Tuttavia, se l’egemonia sui media costituisce condizione necessaria per
creare consenso, non è condizione sufficiente. L’Italia non è l’unico paese
occidentale in cui, nel campo della comunicazione, esistono condizioni di
monopolio pieno, parziale o di fatto. E’ stata l’Unione Europea, e non già
il governo italiano, a esigere che le trasmissioni satellitari avessero in
Rupert Murdoch (Sky) un gestore unico.
D’altro lato, si è visto ripetutamente come l’unanimità dei media non sempre
riesca a condizionare la società, quanto meno di fronte a scelte di fondo.
Ne è esempio recente il rifiuto francese della costituzione neoliberale
europea, malgrado infinite pressioni mediatiche. E che dire, quanto all’Italia,
della ripulsa popolare della guerra all’Iraq, fino a obbligare un’opposizione
reticente a farla propria, seppure tra mille ambiguità? Di converso, quando
un presunto opinion leader come Giuliano Ferrara, con l’appoggio di quasi
tutte le forze politiche e di quasi tutti i media, ha indetto una
manifestazione a sostegno di Israele, è riuscito a radunare solo una
manciata di simpatizzanti.
Non basta il potere mediatico a dare ragione delle fortune di Berlusconi,
così come non bastano le troppo facili tesi cospiratorie. Bisogna andare più
a fondo, il che significa partire da più addietro nel tempo.
Silvio Berlusconi non ha mai nascosto il proprio debito verso Bettino Craxi,
per i molti favori ricevuti dal defunto leader socialista. Il debito
andrebbe però esteso ad altri lasciti di natura immateriale. L’epoca dei
governi di centrosinistra guidati da Craxi fu quella in cui le classi medie
italiane presero coscienza di se stesse e rivendicarono il ruolo propulsivo
che, fino agli anni Ottanta, era sembrato appartenere agli operai, usciti
vincitori dal lungo autunno caldo ‘69-‘70.
Il segnale era venuto dalla marcia dei 40.000 quadri intermedi della Fiat
contro l’occupazione della fabbrica, nel 1980. Craxi completò l’opera
sfidando direttamente i sindacati sul tema della scala mobile e riportando
una vittoria schiacciante. Nello stesso tempo, a partire dal laboratorio di
Milano, incoraggiò in ogni maniera l’ascesa di ceti di derivazione medio
borghese e impiegatizia, spinti a investire in ambiti non direttamente
legati alla produzione, come l’edilizia, le attività di servizio, la borsa;
campi nei quali anche capitali modesti, se bene impiegati, potevano condurre
a un rapido arricchimento.
Craxi, malgrado l’ideologia apparentemente diversa, fu l’equivalente
italiano di Margaret Thatcher. Come lei indebolì fortemente le
organizzazioni operaie, spingendole a politiche di conciliazione con il
padronato; come lei agevolò la nascita di una borghesia di nuovo tipo,
arrogante, intraprendente, sicura ormai di costituire il cuore della
società. Si passò dalla timidezza dei ceti medi inferiori e dall’aristocratica
distanza di quelli superiori a esibizioni sguaiate, in una corsa alla
ricchezza che attribuiva ogni virtù al vincitore e ogni colpa al vinto. Se
non si approdò a un vero e proprio “reaganismo” fu solo perché lo stato
sociale non fu manomesso che marginalmente. Solo, si cominciò a metterne in
discussione, se non la legittimità, quanto meno l’utilità.
Simili tendenze rimasero operanti anche dopo che Craxi fu costretto all’esilio
e i maggiori partiti politici italiani furono travolti e distrutti dai
processi per corruzione. La prima repubblica, a ben vedere, andava stretta
proprio ai nuovi ceti medi rampanti, infastiditi da un’intelaiatura
istituzionale che, ancora modellata su basi ideologiche “storiche”, non
coincideva con la loro spregiudicatezza.
Nella seconda repubblica fu proprio a quei ceti che si rivolse l’attenzione
ossessiva delle forze politiche obbligate a ristrutturarsi. Sinistra e
destra abbandonarono connotazioni classiste e retaggi ideali per fare delle
classi medie l’unico referente, mentre, sul piano delle scelte
internazionali, sopravviveva quale solo orizzonte un Occidente mitizzato, a
sua volta visto come paradiso dei ceti medi.
I governi di centrosinistra della fase post-craxiana fecero ogni sforzo per
spostare il risparmio dei cittadini dai tradizionali titoli di Stato al
mercato azionario, mentre cercavano di abbellire la nozione di
“flessibilità” per renderla appetibile a ciò che rimaneva della classe
operaia - e spingerla così al suicidio definitivo. Questo, certo, in
obbedienza ai dettami dell’economia mondiale dopo la caduta del muro di
Berlino; ma anche quale scelta ideologica propria, conseguente all’opzione
per i ceti medi quale primario referente sociale.
Sotto il profilo culturale, cominciarono rapidamente a essere messi in
discussione tutti i parametri su cui la prima repubblica era stata
edificata, a iniziare da quello fondante: l’antifascismo. Già Craxi aveva
promosso lo “sdoganamento” degli ex fascisti, invitati a partecipare
attivamente alla vita politica dopo che avevano, a loro volta, eletto i ceti
medi a referente e rinunciato alle asperità della loro ideologia (tipo il
discorso antidemocratico, sostituito da un blando autoritarismo di tipo
presidenzialista, o l’antisemitismo). Durante i governi di centrosinistra
del dopo Craxi si moltiplicarono le rivelazioni di “crimini” antifascisti, a
opera di comunisti pentiti, e si fece strada la tesi di una pari dignità di
chi, nel 1943-45, aveva combattuto su fronti opposti. Tesi che trovò
cordiale accoglienza in ambito accademico e nella pubblicistica corrente.
Ovviamente, non era nell’interesse di nessuno - nemmeno dei post-fascisti -
una piena rivalutazione di Mussolini. Era invece nell’interesse di tutti
sommare +1 (antifascismo) a -1 (fascismo), per avere come risultato 0.
Bisognava insomma azzerare ogni ideologia, per crearne una nuova, priva di
addentellati storici, corrispondente alla richiesta dei nuovi ceti medi.
Inclini per natura, come è ovvio, al puro pragmatismo.
E’ in questo contesto che Berlusconi poté affermarsi quale uomo politico di
largo seguito e, nel 1994, accedere una prima volta al governo. Molti
rimasero stupiti di come fosse stato capace di costituire il proprio partito
praticamente da un giorno all’altro, e attribuirono l’evento al solo potere
su televisioni e giornali (questi ultimi peraltro di scarso prestigio,
almeno nel caso dei quotidiani). In realtà, Berlusconi intuì meglio di ogni
altro che, nel vuoto e nella confusione lasciati dalla prima repubblica,
ogni avventura politica era possibile, inclusa la costituzione di un partito
fondato su palesi schemi aziendali.
I quadri che raccolse, oltre che cooptati dal suo stesso impero economico,
provenivano proprio da quella classe media “d’assalto” che si era coagulata
nei due decenni precedenti e che avvertiva la mancanza di forme di
rappresentanza adeguate - rimpolpati da figure secondarie di professionisti
della politica sopravvissuti all’ecatombe di “mani pulite”.
Ciò, come era avvenuto con Margaret Thatcher, provocò il disgusto dei
conservatori tradizionali (ben rappresentati, in Italia, dal giornalista
Indro Montanelli), che preferirono trarsi in disparte. Non erano più i ceti
medi o medio alti a cui si riferivano a esercitare un’egemonia sociale. Era
invece una piccola e media borghesia, spesso giovanile, di recente
estrazione plebea, priva di solida cultura, dagli appetiti famelici, incline
alla volgarità e allo strepito, edonista, spudorata nell’esibire il proprio
cinismo.
Che di “egemonia” si trattasse lo rivelarono i risultati elettorali, in cui
si vide che la nuova classe era capace di mobilitare le altre, sia superiori
che inferiori, anche contro i loro interessi immediati. Quanto al tessuto
ideologico, esso era quanto mai confuso e cangiante. I nemici erano chiari:
la “sinistra” (Berlusconi sembra non avere mai annoverato in tale
schieramento il suo padre putativo, il socialista Bettino Craxi) e il suo
equivalente semantico, “i comunisti”. Dove per “comunisti” devono intendersi
anche i più timidi keynesiani, i riformisti all’acqua di rose e persino i
liberali e i conservatori di vecchio stampo.
Quanto alla pars construens, essa era molto meno definita. Si trattava,
almeno in origine, di accentuare il liberismo già operante in economia,
riducendo ulteriormente le remore poste dallo Stato all’azione
imprenditoriale, soprattutto sul piano delle normative e della fiscalità. A
ciò, in politica, corrispondeva solo in parte il liberalismo, visto che esso
era temperato, da un lato, da una vistosa tendenza al bonapartismo e,
dall’altro,
da influenze clericali per ciò che atteneva ai diritti civili. La politica
estera, per sua parte, era interamente delegata agli Stati Uniti, di cui
l’Italia
ambiva a essere una sorta di rappresentante in Europa, anche a scapito dei
rapporti con gli altri paesi dell’Unione.
Se vogliamo cercare analogie, le troviamo, bizzarramente, fuori dal vecchio
continente, nelle politiche del presidente messicano Vicente Fox. Ma si
tratta di un esercizio sterile. In realtà il “modello Berlusconi”, se tale
si può definire, non ha base ideologica dai contorni netti. In certi momenti
diverrà catalizzatore di ogni tipo di tendenza reazionaria; in altri si
colorirà di populismo. Unica costante, la base sociale di cui dicevo,
blandita in tutte le maniere, e un perenne pragmatismo, nemico dei progetti
di troppo lunga portata.
Le nuove classi medie, giunte al governo dopo avere schiacciato le vecchie,
e con esse tutte le altre classi, adottarono dunque - nel leader carismatico
prescelto - il punto di vista dettato dalla loro nascita recente.
Insofferenza per le costrizioni istituzionali; ricerca dell’impunità;
soddisfazione degli interessi immediati a scapito della nozione di “bene
comune”; visione incapace di spingersi nel futuro. Ciò che viene di solito
attribuito a Berlusconi, appartiene invece ai ceti di cui questi era ed è
espressione.
Più di recente, alcuni intellettuali di modesta levatura hanno cercato di
strutturare questo coacervo di impulsi e di cercare vincoli col pensiero
neocon statunitense. Tempo perso. La base che sostiene Berlusconi è
irriducibile a un sistema ideologico qualsiasi, e costituisce una specie di
“destra apolitica”. In questo senso, e solo in questo, si può parlare di una
“nuova destra” in Italia.
Sotto il profilo culturale, continuò ovviamente la voga revisionista, in
sintonia del resto con tendenze restauratrici operanti su scala mondiale. La
complicità di parte del mondo universitario fu in questo senso determinante,
dato che è nelle università che si elaborano le tesi destinate poi a essere
riprese, se in sintonia col clima politico, dagli editorialisti dei media
più influenti.
In Italia ciò assunse le forme - tuttora operanti - di una vera e propria
offensiva tesa a ribaltare giudizi consolidati, su momenti storici in cui
erano in gioco rapporti di forza. Ancora oggi, nelle università italiane,
opera una minoranza molto agguerrita di docenti che riabilita l’Inquisizione
contro il libero pensiero, il colonialismo contro le idee di
autodeterminazione, i moti reazionari plebei contro i riflessi in Italia
della Rivoluzione francese, il franchismo contro la “repubblica dei senza
Dio”, ecc. Tesi prontamente riprese e divulgate dai quotidiani, non sempre e
solo di destra, e dai (pochi) programmi “culturali” televisivi.
Naturalmente, cuore di ogni revisione resta il giudizio sull’antifascismo, e
cioè sulle idee fondanti della repubblica italiana. Qui si è manifestato con
maggior vigore uno dei fenomeni che hanno accompagnato le fortune di Silvio
Berlusconi: il “pentitismo” di non pochi esponenti, veri o presunti, della
sinistra. Tra i sostenitori del premier si contano a dozzine gli ex
comunisti, gli ex antifascisti, gli ex militanti dell’estrema sinistra. Nel
campo del revisionismo storico, sono stati costoro a giocare un ruolo
fondamentale.
Un caso tipico è quello del giornalista Giampaolo Pansa. Con un passato di
antifascista, collaboratore del settimanale di sinistra (più un tempo che
oggi) L’Espresso, si è specializzato in volumi, partoriti a getto continuo,
sui “crimini” della Resistenza. La documentazione è dubbia o lacunosa, le
imprecisioni sono innumerevoli, ogni episodio è isolato dal contesto. Ma ciò
non conta, rispetto allo scopo; che non è rivalutare il fascismo, quanto
fare tabula rasa di ogni sistema di valori e di ogni valutazione
autenticamente storica, sostituita da una sorta di cronaca nera a
posteriori.
Un sistema già adottato, da parte della sinistra moderata, nei confronti dei
sommovimenti sociali degli anni ‘70, letti solo in base al concetto di
legalità, strappati al quadro temporale, ridotti a fatti di interesse
solamente giudiziario - fino ad approdare, nei casi peggiori, alle teorie
cospirative che sono il surrogato, in ambito neoliberale, della filosofia
della storia.
E’ triste dirlo, ma la “nuova destra” italiana non sarebbe mai sorta senza
il concorso attivo della sinistra.
Malgrado uno scenario estremamente favorevole, il progetto di Silvio
Berlusconi ha raccolto in ambito culturale risultati miserabili. Sono
intellettuali di levatura secondaria quelli accorsi al suo appello,
commentatori giornalistici e televisivi, divulgatori senza peso che non sia
epidermico, spesso strappati agli alleati di destra o agli avversari di
sinistra. Appaiono con frequenza ossessiva nei talk show, nelle trasmissioni
sportive, nei programmi di varietà. E’ chiaro che la dimensione mediatica è
la più confacente a chi è portatore di un pensiero la cui unica base,
liberismo economico a parte, è la guerra contro la memoria e contro ogni
forma di profondità.
Ancora peggio è andata a Berlusconi e ai suoi seguaci in ambito letterario.
Non vi è in Italia alcuno scrittore di rilievo che si dica “berlusconiano”,
a parte il manipolo di ignoti che si ritrova sulle pagine della rivista Il
Domenicale, stampata in migliaia di copie che regolarmente rimangono
invendute (completamente diverso sarebbe il discorso su chi invece si
colloca più a destra di Berlusconi e rifiuta il centrodestra in nome della
destra pura).
Se il calibro mediocre degli intellettuali è sintomatico della non-ideologia
di Berlusconi, l’assenza di scrittori alla mensa del premier indica molto di
più. Vuole dire che la colonizzazione dell’immaginario degli italiani non è
stata totale, visto che non ha coinvolto quanto meno un segmento dei
fabbricanti di immaginario. E il discorso potrebbe essere esteso, con
differenti articolazioni, a cinema, teatro, arti figurative ecc. Strumenti
comunicativi meno immediati della televisione o dei quotidiani, ma capaci di
lasciare un’impronta più profonda.
L’essere “estranei” a Berlusconi, naturalmente, non significa essere
“contro”, né avere colto la sostanza ideologica e sociale del suo sistema.
Sta di fatto che il mancato controllo dell’ambito letterario e culturale
tradizionale, malgrado il possesso di alcune delle principali case editrici
(che pubblicano autori ostili al massimo azionista sia per indipendenza
propria, sia perché sono i soli richiesti dal mercato), costituisce un
fattore di debolezza. A esso Berlusconi non può porre rimedio, perché la
cultura “di lunga durata”, con le sue dinamiche, è ignota a lui e alla
maggior parte dei suoi collaboratori.
L’ostilità del mondo culturale e letterario può essere valutata, in tutta la
sua pericolosità, solo da chi con essa abbia dimestichezza.
Silvio Berlusconi è in crisi e la sua caduta, al momento, appare
ineluttabile. Non che i nuovi ceti medi che ha saputo rappresentare per
alcuni anni siano scomparsi; tutt’altro, la loro egemonia perdura. Solo che,
in una fase in cui le possibilità di arricchimento rapido si restringono,
manifestano la necessità di qualcosa di più solido di una forma di governo
fatta di nulla, priva di programma, di ideologia, di proposte che non siano
contingenti, di visioni ampie. Sicuramente quei ceti, all’allievo di Craxi,
preferirebbero oggi un nuovo Craxi. In mancanza di meglio, si volgono al
centrosinistra.
Un giorno bisognerà riconoscere che Berlusconi è stato, a suo modo, un
“rivoluzionario”. Ha sovvertito la vita politica, la comunicazione, lo
Stato, ogni istituzione che ha potuto sovvertire. Ma il suo ruolo ricorda
quello che gli agitatori giocano agli inizi di una rivoluzione, salvo essere
messi in disparte pochi anni dopo da chi possiede un progetto più duraturo.
La “nuova destra” italiana, il neoliberalismo, non sono morti, ma certo non
hanno più in Berlusconi il loro esponente di punta. Se anche, per miracolo,
vincesse nuovamente le elezioni, sarebbe comunque già morto. Ha eretto un
sistema fondato sulla finzione, operazione di sicuro successo nel paese che
ha dato i natali alla commedia dell’arte e ha un culto per i Pulcinella. Ha
reinventato i comunisti per avere un nemico identificabile, ha simulato basi
ideologiche per giustificare il proprio empirismo, ha evocato mete
chiaramente irraggiungibili credendo di farle concrete attraverso la
reiterazione del rituale evocativo, ha spacciato sogni suoi nel tentativo di
renderli collettivi. In simultanea - ed è tratto caratteristico - modificava
se stesso attraverso ripetuti interventi di chirurgia plastica, nello sforzo
(in parte riuscito) di far dimenticare la propria identità di settantenne.
Di Berlusconi e della sua “insurrezione” neoliberale, dopo l’abbandono da
parte dei ceti medi, rimarrà una maschera. Ma con lui non sparirà la “nuova
destra” italiana. Al contrario. La destra vera deve ancora venire.
(Relazione pronunciata a Siviglia, il 27 ottobre 2005, al convegno Nueva
derecha: ideas y medios para la contrarrevolución, organizzato dalla rivista
Archipiélago e dalla ‘Università Internazionale dell’Andalusia - Sezione
Arteypensamiento.)