di Vladimiro Giacché
su La Contraddizione del 23/01/2006
Come le guerre di Bush, anche il lessico ideologico contemporaneo è animato
dalla lotta tra il Bene e il Male. Una lotta sanguinosa che vede contrapposti
ai nostri alleati, “Mercato”, “Democrazia” e
“Sicurezza”,
due nemici mortali:
“Terrorismo” e “Totalitarismo” - tra loro complici, e sempre meno distinguibili
l’uno dall’altro. Come è logico, l’esecrazione generale circonda questi due
tristi figuri. L’appellativo di “Totalitario”, in particolare, è decisamente
tra gli insulti più in voga. Di “atteggiamento totalitario” è stato
recentemente accusato il ministro brasiliano per la cultura Gilberto Gil da
Caetano Veloso, nel corso di una polemica sulla distribuzione di fondi
pubblici. “Tipica di uno stato totalitario” è secondo Vittorio Feltri la
(sacrosanta) decisione del Prc di espellere un consigliere comunale che prima
ha difeso il diritto di Di Canio di fare il saluto fascista, poi lo ha imitato
a beneficio del fotografo di un giornale locale. E “totalitario” è ovviamente
anche ogni oppositore di Berlusconi che venga sor-preso a pronunciare con tono
di rimprovero le tre parole “conflitto di interessi”.
Si tratta di usi grotteschi del termine, ma a loro modo significativi. Ancora
più significativo è l’uso del termine da parte dell’ex direttore della Cia
James Woolsey: il quale ha recentemente affermato che “una stessa guerra”
contrappone oggi gli Usa a “tre movimenti totalitari, un po’ come avveniva nel
secondo conflitto mondiale”. I tre “movimenti totalitari” sarebbero
rappresentati dal baathismo (sunniti iracheni e Siria), dagli “sciti islamisti
jihadisti” (appoggiati dall’Iran e legati agli hezbollah libanesi) e dagli
“islamisti jihadisti di matrice sunnita” (ossia “i gruppi terroristici come al
Qaida”
[intervista a Borsa & Finanza,
5.11.2005]. Un dubbio sorge spontaneo:
che cosa diavolo hanno in comu-ne oggi un nazionalista arabo laico, un
fondamentalista islamico sciita e uno sunnita? Praticamente nulla. Eccetto una
cosa: il fatto di opporsi agli Stati Uniti. “Totalitario”, insomma, è chi si
oppone all’Occidente, e più precisamente agli Usa.
Niente di nuovo, in verità: le cose stanno così da più di 50 anni. La fortuna
del concetto di “totalitarismo” nasce infatti nell’immediato dopoguerra, e si
spiega con la necessità politica di accomunare i regimi comunisti, che
rappresentavano adesso il nuovo Nemico dell’Occidente, al regime nazista appena
sconfitto. A posteriori, non possiamo che constatare il pieno successo di
questa operazione. Che però ha conosciuto diverse fasi.
Fase 1: “nazismo = stalinismo” (H. Arendt)
La fortuna di questa identificazione si deve in buona parte a Le origini del
totalitarismo [Einaudi, Torino 2004] di Hannah Arendt. In questo libro, uscito
in prima edizione nel 1951, la Arendt identifica i “sistemi nazista e
staliniano” come due “variazioni dello stesso modello” politico: un modello che
tende al “dominio totale” sulle persone, ed al “dominio globale” a livello
planetario [pp. LXIV e LXI, 539, 569]. Gli elementi essenziali del
totalitarismo sono l’”ideologia”, intesa come una chiave assoluta di
comprensione della storia (razzista nel primo caso, “classista” nel secondo),
il “terrore” (vera “essenza del potere tota-litario”, che colpisce non soltanto
gli oppositori, ma anche gli “innocenti” ed il “partito unico” (curiosamente,
la Arendt non cita invece il potere personale as-soluto di un capo).
Il testo della Arendt ha molti lati deboli. È prolisso, ma anche squilibrato
nella sua struttura. La documentazione è molto ricca a proposito della Germania
nazista, e viceversa estremamente scarna per quanto riguarda l’URSS. Già questo
dimostra che l’archetipo del concetto arendtiano di “totalitarismo” è la
Germania nazista, a cui si tenta di assimilare l’URSS. Stabilendo paralleli a
dir poco forzati, come l’attribuzione alla Russia di Stalin della medesima
tendenza al “dominio globale” della Germania hitleriana: sorvolando sul dato di
fatto che durante l’intera durata del periodo staliniano l’Unione Sovietica fu
aggredita e minacciata (da ultimo dal riarmo dei paesi Occidentali e dal
monopolio dell’arma atomica da parte degli Usa) [ivi, pp. 539, 569]. Connessa a
questa bizzarra tesi è la vera e propria assurdità secondo cui il “bolscevismo”
dovrebbe “più al panslavismo . che a qualsiasi altra ideologia o movimento”
[pp. 310, 326].
Più in generale, i critici della Arendt hanno avuto gioco facile nel notare
come l’”ideologia” nazista (sempre che si voglia nobilitare con il termine di
“ideologia” il delirante patchwork antisemita del Mein Kampf hitleriano) sia
distante anni luce da quella comunista: reazionario e tradizionalista il
nazismo, rivoluzionario e “erede dell’illuminismo e della rivoluzione francese”
il comunismo; irrazionalista il primo, razionalista il secondo; razzista il
primo, internazionalista e universalista il secondo; assertore dell’esistenza
di una gerarchia naturale (tra razze e individui) il primo, egualitario e
“livellatore” il secondo; esplicitamente antidemocratico il primo, assertore di
una “democrazia reale” che andasse oltre quella “soltanto formale” il secondo.
Si dirà che una cosa sono i princìpi, un’altra la loro traduzione pratica. Ma
il punto è proprio questo: si può ridurre ad un unico concetto una ideologia e
pratica di governo esplicitamente basate sul terrore e sulla violenza ed una
teoria (e prassi) di emancipazione che si rovescia in una prassi contraria ai
suoi stessi princìpi? Perché una cosa è certa: nel nazismo la corrispondenza
tra teoria e prassi è perfetta, anche e soprattutto sotto il profilo del
terrore e del “dominio totale”. L’accorata constatazione della “spudorata
franchezza del Mein Kampf” è obbligata per chiunque esamini il fenomeno
nazista. Il nazismo esalta esplicitamente i concetti di “organicità”, di
“organizzazione totale”, il “principio totalitario”. E li mette
scientificamente in pratica. La prova più eloquente di ciò è rappresentata
dalla lingua tedesca, che fu - a differenza di quella russa - completamente
riplasmata e piegata al fine di legittimare e rendere per l’appunto “totale” il
dominio nazista [vedi il n. 110].
Anche alla luce di questo, è quantomeno singolare che la Arendt si dimostri
incerta nel determinare in quali anni si abbia in Germania un “vero” regime
totalitario: a volte sostiene che la Germania di Hitler divenne un regime
“scoper-tamente totalitario” soltanto allo scoppio della seconda guerra
mondiale (quindi nel 1939); altrove afferma che “fu soltanto durante la
guerra”, e precisamente “dopo le conquiste nell’est europeo” (quindi dal 1941
in poi), che “la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente
totalitario”; ma si spinge anche a sostenere che “solo se la Germania avesse
vinto la guerra avrebbe conosciuto un dominio totalitario completo”[ H. Arendt,
La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1964, 2005, p. 76; Le origini ...,
cit., p. 430]. Se si portano alle estreme conseguenze queste parole, si può
concludere che un vero regime totalitario nel-la Germania nazista non c’è mai
stato! Bel risultato: la Arendt crea la categoria di una forma di governo
specifica e irriducibile ad ogni altra, la applica a due regimi, per poi
scoprire che in quello che ne rappresenta l’archetipo tale categoria non
sarebbe in verità mai stata pienamente
applicabile!
“Tanto rumore per nulla”, verrebbe da dire. Ma quella della Arendt non fu
fatica sprecata. Almeno in un senso: con tutte le sue manchevolezze e
incon-gruenze, Le origini del totalitarismo fu un potente strumento di
propaganda anticomunista nei primi anni cinquanta (non a caso la Cia ne
sovvenzionò generosamente la traduzione in diverse lingue). La categoria di
“totalitarismo”, infatti, consentiva - e consente - di conseguire diversi
importanti obiettivi ideologici.
Nell’accomunare nazismo a stalinismo si perde la specificità della barbarie
nazista, la si relativizza e la si “controbilancia” con una barbarie per così
dire eguale e contraria (nei casi più estremi, come il revisionismo storico di
Ernst Nolte, si è addirittura tentato di fare del “totalitarismo comunista” il
colpevole del sorgere di quello nazista - giustificando quest’ultimo in quanto
reazione fisiologica al primo). Non è questo, però, il più importante servigio
reso dal concetto di “totalitarismo”. Che è invece rappresentato dal
considerare e classificare il regime nazista in base alla sua forma politica
anziché nel suo contenuto economico. In tal modo si “dimentica” che il nazismo
condivide con “democrazie liberali” (pre e post-naziste) il fatto di essere
un’economia capitalistica. Questa “dimenticanza” rende quasi inspiegabile un
fenomeno imbarazzante quale la assoluta continuità delle classi dirigenti
economiche (e in casi non marginali anche politiche) tra la Germania
“totalitaria” e la “democratica” Germania occidentale. Cosa che sarebbe facile
spiegare, se si ammettesse che la dittatura nazista era funzionale al
mantenimento dell’ordine economico vigente (allora e oggi) contro il pericolo
rivoluzionario. Anche se la Arendt cerca di esorcizzarlo, il rapporto organico
tra il grande capitale tedesco ed il nazismo rappresenta il vero filo rosso
della parabola storica della Germania hitleriana, dai suoi albori sino ai campi
di sterminio: come dimostrano tra l’altro le decine di migliaia di prigionieri
che lavorarono a morte per la I.G. Farben, per la Krupp, la Siemens, ecc. Il
tema è tornato agli onori delle cronache ancora di recente, in relazione alle
cause intentate alla Bmw da alcuni superstiti dei campi di concentramento. Né
si tratta di casi isolati. Quando, qualche anno fa, si impedì alla Degussa di
partecipare ai lavori di costruzione del monumento eretto a Berlino in memoria
dello sterminio degli ebrei a motivo della sua compromissione con il nazismo,
vi fu chi osservò che, se questo criterio fosse stato applicato in maniera
stringente, avrebbero dovuto essere escluse tutte le imprese tedesche.
Anche insistere sulla novità radicale del “totalitarismo” come forma di governo
consente di dimenticare - o comunque di porre decisamente in secondo piano - la
continuità economica tra il regime nazista e le precedenti “democra-zie
liberali”. Ma queste linee di continuità non sono soltanto economiche. La
stessa Arendt individua nell’”età dell’imperialismo” un importante fattore di
incubazione del totalitarismo. E documenta come già i governi “democratici” dei
Paesi imperialisti giustificassero con il razzismo le proprie conquiste
coloniali ed operassero massacri di massa delle popolazioni indigene. Ricorda
che un funzionario britannico propose di far uso di “massacri amministrativi”
per la soluzione del problema indiano, e che in Africa altri diligenti
funzionari (diligenti come Eichmann) dichiaravano che “non si permetterà che
considerazioni etiche come i diritti umani ostacolino” il dominio bianco. E
conclude: “sotto il naso di ognuno c’erano già molti degli elementi che, messi
assieme, avrebbero potuto creare un governo totalitario su base razzista”.
Ma c’erano anche i suoi strumenti più efferati: “neppure i campi di
concentramento sono un’invenzione totalitaria. Essi apparvero per la prima
volta du-rante la guerra boera, all’inizio del secolo, e continuarono ad essere
usati in Sudafrica come in India per gli “elementi indesiderabili”; qui
troviamo per la prima volta anche il termine “custodia protettiva” che venne in
seguito adottato dal Terzo Reich”. Se questo è vero, qual è la novità radicale
del totalitarismo? Ad avviso della Arendt, nell’utilizzo dei campi di
concentramento essa consisterebbe nell’abbandono dei “motivi utilitari” e degli
“interessi dei governanti” per entrare nel campo
del “tutto
è possibile”.
Assenza di misura, assolutezza: se-condo questa
impostazione
il totalitarismo è
un novum proprio in quanto è il “male
radicale”, il “male
assoluto, impunibile
e imperdonabile”. In questo mo-do, ovviamente,
ogni ricerca
delle cause, ogni
elemento di continuità storica con le
“democrazie liberali”
passa in secondo
piano: il totalitarismo nazista è
confrontabile solo con se
stesso - o con il
suo presunto “doppio” rappresentato dalla Russia
staliniana.
In questo modo va
semplicemente perduta la possibilità di
mettere il naso in
quella che è stata
definita la fabbrica europea dell’Olocausto. [cfr.
conversazione
E. Traverso -
I. Vantaggiato,
il
manifesto, 11.11.2005].
“Assoluto”, “mistero”, “follia”: nel momento stesso in cui facciamo uso di
queste categorie, rinunciamo a capire. Quando, nell’agosto scorso, Ratzinger ha
definito lo sterminio nazista degli ebrei “mysterium iniquitatis”, con ciò
stesso ha escluso la possibilità di comprendere quanto accadde, e di nominare
tanto i complici quanto i moventi dello sterminio. Allo stesso risultato si
approda quando - come fa la Arendt - si adopera la categoria di “follia” come
chiave di lettura di quanto accadde [Le origini
...,cit.,
pp. 564-5].
Fase 2: “nazismo = comunismo” (Friedrich/Brzezinsky e altri)
Nonostante i suoi “meriti” ideologici, il “totalitarismo” arendtiano divenne
presto inservibile. Dopo la morte di Stalin, infatti, in Unione Sovietica si
attenuò e presto venne meno quel “terrore” che per la Arendt era “l’essenza del
po-tere totalitario”. E infatti la stessa Arendt affermò senza mezzi termini:
dopo la morte di Stalin “non si può più definire l’Urss totalitaria”. C’era pur
sempre l’”ideologia”, ma l’idea di un “dominio totale” fondato soltanto su di
essa era piuttosto implausibile. Inoltre, nel testo della Arendt c’erano altri
elementi che mal si conciliavano con un anticomunismo assoluto: a cominciare
dalla con-trapposizione di Lenin a Stalin e dall’affermazione secondo cui una
possibile alternativa a Stalin sarebbe stata la prosecuzione della Nuova
politica economica (Nep) lanciata da Lenin [ivi, pp. LXXIII e 441-3]. Serviva
qualcosa di più forte. E arrivò: nel 1956 Carl J. Friedrich e Zbigniew
Brzezinsky (sì, proprio lui.) diedero alle stampe un nuovo libro sul tema, dal
titolo Dittatura totalitaria e autocrazia. In questo volume veniva aggiunto,
tra i tratti caratterizzanti del totalitarismo, anche il controllo e la
direzione centralizzata dell’economia. Si conseguiva così l’obiettivo di
includere nell’ambito dei regimi totalitari anche la Russia post-staliniana, la
Cina comunista e tutti i paesi dell’est europeo. (Questo d’altra parte
complicava le cose per quanto riguarda l’identificazione del regime nazista
come totalitario, ma ovviamente non era questa la principale preoccupa-zione
degli autori.). Anche così, il problema della oggettiva scomparsa del “terrore
totalitario” dalla stessa Unione Sovietica non era un problema di poco conto.
Ad esso si pose rimedio in un modo molto semplice: attenuando l’importanza del
“terrore” per il concetto di totalitarismo - ossia cambiando le carte in
tavola. Così, nella seconda edizione del volume citato, curata nel 1965 dal
solo Friedrich, si può leggere che nel “totalitarismo maturo” il terrore - che
prima era stato definito come il “nervo vitale del totalitarismo” - è presente
unicamente nella forma di un “terrore psichico” e di un “consenso generale”
[sic!]. E Brzezinsky, che prima riteneva il terrore “la caratteristica più
universale del totalitarismo”, in un nuovo libro del 1962 giunge a parlare di
un “totalitarismo vo-lontario” [sic!] (Ideologia e potere in Unione Sovietica).
Contemporaneamente, altri autori si incaricano di spingere l’acceleratore sul
concetto di “ideologia totalitaria”, ampliandone la portata. Così Talmon, nel
suo Le origini della democrazia totalitaria, denuncia come “totalitaria” la
“stessa idea di un sistema autonomo dal quale sia stato eliminato ogni male e
ogni infelicità”; detto in parole povere: l’idea stessa di una società senza
classi è un’aspirazione totalitaria. Già la Arendt, del resto, aveva affermato
che “il male radicale nasce quando si spera un bene radicale”. Un altro
politologo americano, W.H. Morris Jones, nel 1954 scrive un saggio In difesa
dell’apatia, in cui sostiene che l’apatia esercita un “effetto benefico sul
tono della vita politica”; per contro, “molte delle idee connesse con il tema
generale del dovere del voto appartengono propriamente al campo totalitario [!]
e sono fuori luogo nel voca-bolario di una democrazia liberale”.
Se queste posizioni appaiono esplicitamente ispirate da posizioni politiche di
destra, lo stesso non si può dire di un diverso e successivo filone di
“cacciatori di totalitarismi”: si tratta dei teorici del post-moderno. I quali,
a partire da Jean-François Lyotard, hanno posto sotto tiro le “grandi
narrazioni”, ossia le teorie della storia, ed in particolare della storia come
emancipazione progressiva dell’umanità. In questo caso il “sogno totalitario”
sarebbe rappresentato dall’idea stessa di poter dare una lettura razionale e
complessiva degli eventi storici: la qual cosa sarebbe sfociata in un “modello
totalizzante” e nei suoi “effetti totalitari, sotto il nome stesso del
marxismo, nei paesi comunisti”.
Con il crollo dell’Urss e la caduta del Muro di
Berlino
avviene l’incredibile:
il “Totalitarismo” sovietico, questo orribile Leviatano del XX secolo, implode
senza il minimo spargimento di sangue (ben più cruenti sarebbero stati di lì a
poco i conflitti “etnici” esplosi in tutto l’est europeo in disgregazione). La
presunta terribilità demoniaca del “totalitarismo comunista” si muta in una
patetica farsa, ben simboleggiata dal “colpo di stato”-burletta dell’estate del
1991 in Russia (il “democratico” Eltsin, invece, di lì a non molto non esiterà
a prendere a cannonate il parlamento). Ci si aspetterebbe riflessioni
equilibrate sull’argomento. Accade il contrario. Adesso non soltanto l’intera
storia dei paesi comunisti viene ricompresa sotto la categoria di
“totalitarismo”, ma il campo semantico di questo concetto si amplia senza alcun
rispetto non diremo del senso storico, ma neppure di quello del ridicolo. Sino
ad includere letteralmente di tutto: dall’intero movimento comunista alla
stessa rivoluzione francese (il Terrore, perbacco!); dagli stati superstiti del
defunto “blocco socialista” ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo che si
battono contro la privatizzazione delle ri-sorse di base dei rispettivi paesi,
e così via.
Secondo questa concezione “allargata” del concetto, tendenze “totalitarie”
nutre - magari inconsapevolmente - chiunque si batta per forme di regolazione
dell’economia diverse dal modello liberista della “libera volpe in libero
pollaio”; lo stesso modello europeo di welfare (a partire dalla cosiddetta
“economia sociale di mercato” inventata dalla Cdu tedesca) diviene sospetto:
niente da fare, la puzza di zolfo bolscevico alligna anche lì. Ma “sogni
totalitari” coltiva anche chiunque ritenga possibile comprendere le dinamiche
storiche con l’ausilio della ragione, chi studia le filosofie sistematiche
senza aborrirle, chi difende i pro-gressi della scienza e della ragione (già il
fatto di adoperare quest’ultimo termi-ne al singolare, del resto, denuncia
senza equivoco la mentalità intollerante e poliziesca di chi ne fa uso). Con un
singolare rovesciamento di prospettiva, quell’irrazionalismo che aveva
rappresentato il fertile humus del nazismo, e che oggi si ama ridipingere come
“denuncia dei limiti della ragione”, è invece considera-to espressione di una
mentalità (post-)moderna, aperta e tollerante. Con lui tor-nano a trovarci,
malamente imbellettati, tutti gli elementi dell’”ideologia” nazista: razzismo
(“consapevolezza della propria identità etnica”, xenofobia (“orgoglio” e
“autodifesa dell’Occidente”, miti di sangue e suolo (“attaccamento alle
proprie radici”; e, su tutti, l’anticomunismo viscerale: che oggi assume
ap-punto il volto “democratico” della “ferma denuncia dell’ideologia
totalitaria”.
Siamo alla terza fase della poco edificante storia del concetto di
totalitari-smo: ormai esso designa in primo luogo, se non esclusivamente, il
comunismo. Si tenta di far prendere al “comunismo” il posto occupato
nell’immaginario collettivo dal nazismo quale archetipo del potere totalitario.
La stessa denuncia, apparentemente salomonica, dei “totalitarismi” del
novecento, serve in realtà per colpire il comunismo, laddove l’esecrazione che
circonda il nazismo si fa sempre più generica e rituale. E per distinguere
nettamente da entrambi il fascismo italia-no [oltreché quelli ungherese,
romeno, estone, lettone, lituano, portoghese, spa-gnolo, greco .], benevolmente
considerato come un “banale” autoritarismo, non si sa se più bonario o
pasticcione. Singolare ironia della storia, se si pensa che Mussolini vedeva la
novità storica del fascismo nella capacità di “guidare totalita-riamente la
nazione” e adoperava volentieri l’espressione di “stato totalitario” - oltreché
i gas in Africa, e il tribunale speciale e le leggi razziali in Italia ...
[cfr. G. Gentile, B. Mussolini, “Fascismo”, in Enciclopedia Italiana (1932)].
Il documento più significativo di questa fase è il progetto di risoluzione
sulla “Necessità di una condanna internazionale dei crimini del comunismo”
presen-tato nel 2005 al Consiglio d’Europa. In questo singolare documento il
termine “comunista” è accompagnato regolarmente dall’appellativo di
“totalitario” (la formulazione preferita è “regimi totalitari comunisti”, che
nella mozione com-pare 24 volte); il nazismo è presentato, en passant, come “un
altro regime tota-litario del 20° secolo”. In questo testo - a dir poco confuso
- si afferma, a pro-posito dello stesso Consiglio d’Europa, che “la tutela dei
diritti dell’uomo e lo Stato di diritto sono i valori fondamentali che esso
difende”; e a conferma di ciò .si deplora che i partiti comunisti siano “legali
ed ancora attivi in alcuni paesi”. Si spera che la propria posizione incoraggi
“gli storici del mondo intero” a “stabilire e verificare obiettivamente lo
svolgimento dei fatti”; poi, per incoraggiare la libertà di ricerca e di
insegnamento, si chiede. “la revisione dei ma-nuali scolastici”.
Ma cosa motiva la necessità di questo pronunciamento? Al di là dei motivi
dichiarati (decisamente paradossale quello di “favorire la riconciliazione”,
qua e là trapelano quelli veri: “sembrerebbe che un tipo di nostalgia del
comunismo sia ancora presente in alcuni paesi, di qui il pericolo che i
comunisti riprendano il potere nell’uno o nell’altro di questi paesi”; e
soprattutto: “elementi dell’ideologia comunista, come l’uguaglianza o la
giustizia sociale, continuano a sedurre numerosi membri della classe politica”.
Eccoci al punto: insoddisfazione per lo stato di cose presente e aspirazione
all’eguaglianza e alla giustizia sociale. I veri nemici dei “cacciatori di
comunistitotalitari” sono questi. Oggi come ieri. Ieri con la scusa dei regimi
comunisti esistenti, oggi con la scusa dei regimi comu-nisti che non ci sono
più.
Un concetto senza oggetto e il “Nemico tra noi”
Ma ovviamente il fatto che il sistema dei regimi comunisti non esista più non è
irrilevante neppure ai fini della sorte del concetto di “totalitarismo”. Il
fatto di aver perduto il proprio oggetto non è cosa da poco: ormai al concetto
di “totali-tarismo” manca un referente.
Per un concetto senza oggetto la vita non è facile. Per non restare
disoccupa-to è costretto a cercarselo. È pur vero che l’ampliamento semantico
del termine, a suo tempo operato in funzione anticomunista, facilita la ricerca
di oggetti so-stitutivi. Ormai “totalitario” è tutto e il contrario di tutto:
viviamo sotto il giogo del “totalitarismo pubblicitario”, ma è totalitaria
anche la proibizione della pub-blicità delle sigarette. È totalitaria la
repressione sessuale degli islamici wahabi-ti, ma non è meno insidioso il
“totalitarismo del godimento” imposto dalle so-cietà capitalistiche occidentali
agli individui atomizzati. Qui però sorge un problema: quando un concetto
significa tutto, non significa più niente. La perdi-ta di qualsivoglia
ancoraggio semantico significa la morte di un concetto. E questa è
probabilmente la sorte che presto o tardi spetterà al “totalitarismo”.
Per il momento, però, un residuo di significato gli resta appiccicato, ed è
l’incubo del “dominio totale”. L’incubo del potere inostacolato, della violenza
selvaggia ma organizzata, del linguaggio asservito al potere che stravolge e
ro-vescia la realtà, cancellando ogni distinzione tra vero e falso. Qui risiede
la perdurante efficacia propagandistica del concetto. Ma qui, ironicamente, il
“to-talitarismo” può renderci un estremo servigio: quello di aiutarci a dare un
nome ai sintomi del “dominio totale” nel nostro mondo. Vediamo.
La violenza selvaggia ma organizzata tipica del potere totalitario lascia le
sue tracce inconfondibili nell’odierno linguaggio dei Signori della Guerra
statunitensi. Che trova un’espressione emblematica nelle parole di quel
neoconservatore Usa che - alla vigilia dell’attacco sferrato dalle truppe
statunitensi contro Fallujah - collocava l’obiettivo di “Sbriciolare Fallujah”
al primo posto di un programma politico; il fatto che lo facesse in un articolo
intitolato “Valori per tutto il mondo” non è soltanto un tributo all’humour
nero, ma una spia: che se-gnala l’adozione di una lingua che, come già quella
dei nazisti, inverte sistema-ticamente il significato dei termini [cfr. F.
Gaffney, articolo sulla National Re-view, novembre 2004]. Quando poi - a cose
fatte - il generale dei marines John Sattler ha affermato che l’offensiva
contro Fallujah “ha spezzato le reni agli in-sorti”, non per caso ha utilizzato
esattamente le stesse parole adoperate da Mus-solini a proposito della Grecia:
ecco un bell’esempio di invariante totalitaria (oltretutto di buon auspicio.).
Ma veniamo al linguaggio asservito al potere. Il testo classico a questo
pro-posito è il violento pamphlet anticomunista 1984, [Mondadori, Milano 2005]
scritto dal giornalista inglese George Orwell e pubblicato nel 1949 (anche in
questo caso, con cospicui finanziamenti della Cia; del resto, lo stesso Orwell
era una spia inglese). Come ha messo in rilievo Maria Turchetto, riletto oggi è
un romanzo di sorprendente attualità. Certo, oggi non esiste un “Ministero
della Verità” come quello dell’Oceania di Orwell. Possiamo però sempre
consolarci con il “Sottosegretariato per la democrazia e gli affari globali”
del Dipartimento di stato Usa. In Oceania “il nemico contingente incarnava
sempre il male assoluto: ne conseguiva che qualsiasi intesa con lui era
impossibile, tanto nel passato che nel futuro”. E così è stato per bin Laden,
poi per Saddam: entrambi prima ottimi alleati, poi Nemici assoluti
dell’Occidente. Ma questa circostanza fa sì che le passate alleanze con essi
vengano occultate, negate e smentite. Da questo punto di vista, anche “la
mutabilità del passato” di Orwell è già tra noi. Non meno presente è il
“bipensiero”: lo slogan orwelliano secondo cui “la guerra è pace” è a ben
vedere uno degli slogan fondamentali di Bush a proposito dell’aggressione
all’Irak; nel suo piccolo, anche Fini, allorché ha affermato che i soldati
italiani in Irak sono “morti per la pace”, ha dato mostra di averlo ben
assimilato. Ancora: in Orwell lo slogan del partito recita testualmente: “chi
controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla
il passato”. Chi nutrisse dubbi circa l’applicabilità di questo slogan al
nostro presente è caldamente rinviato alle polemiche revisionistiche sulla
resistenza.
Certo, va pur detto che le masse nel libro di Orwell erano tenute a bada con
strumenti lontanissimi da quelli oggi in uso. Basti pensare che nel Ministero
della Verità “un’intera catena di dipartimenti autonomi si occupava di
letteratura, musica, teatro, e divertimenti in genere per il proletariato. Vi
si producevano giornali-spazzatura che contenevano solo sport, fatti di cronaca
nera, oroscopi, romanzetti rosa, film stracolmi di sesso e canzonette
sentimentali” - tutte uguali - “composte da una specie di caleidoscopio detto
“versificatore”. Non mancava un’intera sottosezione . impegnata nella
produzione di materiale pornografico della specie più infima”. In generale, i
proletari descritti da Orwell se la passavano molto peggio dei nostri: infatti
“il lavoro pesante, la cura della casa e dei bambini, le futili beghe coi
vicini, il cinema, il calcio, la birra e soprattutto le scommesse, limitavano
il loro orizzonte”. Inoltre “i proletari ai quali la politica non interessava
granché, cadevano periodicamente in balia di attacchi di patriottismo”,
ingenerati da bombe che cadevano sulle città; anche se non mancava chi riteneva
- ma si trattava di un’ovvia assurdità - che fosse lo stesso governo a lanciare
queste bombe, “per mantenere la gente nella paura” [pp. 29, 37, 46-7, 76, 156,
160].
Il tema della menzogna del nemico esterno è un classico della letteratura
antitotalitaria, da Orwell in poi. Il biografo di Hitler, Joachim Fest, ha
recentemente affermato (a proposito della Russia di Stalin) che “un regime
totalitario ha sempre bisogno di un nemico”. Sull’uso di “immaginarie congiure
mondiali” come strumento di mobilitazione e di consenso per i regimi totalitari
aveva insistito anche Hannah Arendt. Più in generale, il tema della menzogna in
politica continuò ad interessarla anche dopo la sua opera sul totalitarismo. E
la spinse ad un ulteriore passo, di cui forse non intese le implicazioni. Nelle
Origini del totalitarismo aveva esaminato come i regimi totalitari riescano a
sostituire, attraverso la menzogna sistematica, un vero e proprio mondo
fittizio a quello reale. In opere successive esaminò il ruolo della “politica
d’immagine”, con riferimento in particolare a quella degli Stati Uniti in
relazione alla guerra del Vietnam: l’immagine”, costruita artatamente
attraverso i mass media, è rivolta all’opinione pubblica di un paese e opera
come un sostituto della realtà; grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione
di massa, essa può ricevere una tale evidenza da risultare molto più in vista
(cioè più “reale” della realtà che intende sostituire [cfr. Le origini ...,
cit., pp. 519-520, 597ss.; Politica e menzogna, Sugarco, Milano 1985, p. 98].
Ora, è evidente che tra questa sostituzione della realtà e quella che viene
operata nei “regimi totalitari” non sussiste alcuna differenza strutturale (vi
è al massimo una differenza di grado: se il controllo dei mezzi di
comunicazione non è completo l’operazione di sostituzione può fallire, o non
riuscire completamente). Anche per questa via, quindi, salta lo schema della
irriducibilità dei fenomeni totalitari.
A questo punto, chiunque ponga mente alla cortina fumogena di bugie e
depistaggi posti in essere - con l’attiva complicità dei media - dagli Stati
Uniti e dai loro “volenterosi” alleati prima e durante l’aggressione all’Irak,
difficilmente potrà rifiutare con sdegno la tagliente definizione che il
sociologo americano Sheldon Wolin ha dato degli Usa: “Inverted Totalitarianism”
- un totalitarismo di fatto, coperto da un linguaggio democratico. A questa
definizione si potrebbe semmai eccepire che proprio il linguaggio di copertura
“democratico” rappresenta un’ulteriore caratteristica totalitaria.
Con tutto ciò, sarebbe fuori strada chi individuasse in uno stato - e sia pure
un super-stato in piena deriva autoritaria come gli Stati Uniti - il nuovo
soggetto del “dominio totale”. Il potere inostacolato oggi risiede altrove. Su
questo è tempo di rompere decisamente con le elaborazioni novecentesche sul
potere (inclusa quella foucaultiana), tutte ipnotizzate dallo stato. Il potere
inostacolato, almeno tendenzialmente, e sempre più spesso ormai de facto, è
oggi quello delle grandi imprese monopolistiche transnazionali: le
corporations. Sono loro a rappresentare oggi l’”istituzione totalitaria” per
eccellenza. Sia verso l’interno che verso l’esterno. All’interno la tendenza al
“dominio totale” si esprime nell’autoritarismo, nel controllo sempre più totale
su tempi e processi di lavoro. All’esterno si traduce ormai non soltanto nella
persuasione pubblicitaria, ma direttamente nella costruzione
dell’individuo-consumatore (nei negozi di una catena di supermercati Usa che
vendono giocattoli i bambini spingono minuscoli
carrelli
con su scritto:
“Cliente di “Toys ‘R Us” in addestramento”; e anche nella più completa
subordinazione di ogni istanza sociale, culturale ed ambientale al profitto
dell’impresa. Ci sono singole imprese transnazionali che evidenziano con
chiarezza tutte assieme queste caratteristiche “totalitarie”. Prendiamo
Wal-Mart, la catena mondiale di supermercati
basata negli
Usa.
Soltanto negli ultimi mesi, sul fronte interno,
è emerso
quanto segue:
proibizione dell’attività sindacale nei supermercati del gruppo, (migliaia di)
infrazioni alla normativa sul lavoro, discriminazioni nei confronti dei
dipendenti donne, sfruttamento degli immigrati clandestini, sfruttamento dei
minori (e colpo di spugna sulla cosa grazie ad un accordo segreto con il
ministero del lavoro Usa), straordinari non pagati, proposta di introdurre
mansioni fisiche anche per i cassieri (per selezionare gli impiegati in buona
salute), proibizione di flirt sul luogo di lavoro. Sul fronte esterno, il
potere di monopolio di Wal-Mart, che perciò può fissare i prezzi pagati per i
fornitori, è tra le cause del fallimento di numerosissime imprese fornitrici,
ma anche dei bassi salari in Cina (il 10% delle importazioni cinesi in Usa,
pari a 12 miliardi di dollari, è diretto ai suoi supermercati); per quanto
riguarda il rispetto delle tradizioni culturali, ha destato scandalo la
costruzione di un supermercato nel bel mezzo della zona archeologica di
Teotihuacan in Messico (dove Wal Mart ha già 657 supermercati).
Le grandi corporations sono oggi il vero luogo d’origine e il vero soggetto del
“dominio totale”. In attesa che i “cacciatori di totalitarismi” se ne
accorgano, molti scrittori lo hanno già fatto. Negli ultimi anni sono usciti
diversi romanzi su questo argomento: tra gli altri 99 Francs di F. Beigbeder,
Profit di R. Morgan, Globalia di J. C. Rufin, Logoland di M. Barry, Il capitale
di S. Osmont. In una recensione collettiva di alcuni di questi libri, comparsa
sull’insospettabile Handelsblatt, si legge fra l’altro: “Questi libri sono
accomunati da una visione terrificante della realtà. La politica ha abdicato.
Al posto dello stato è subentrato il potere delle grandi multinazionali, tanto
inesorabile quanto totalitario”.
È nelle grandi corporations che oggi si incarna quel “potere totale del
capitale” di cui Horkheimer e Adorno parlavano in una famosa pagina della
Dialettica dell’illuminismo [Einaudi, Torino 1966, p. 126]. La
criminalizzazione, con l’accusa di “totalitarismo”, delle posizioni di critica
sociale e dei rapporti di proprietà serve per l’appunto a rafforzare e
perpetuare questo potere.