di Fulvio Grimaldi
C’è da qualche tempo a sinistra,
più o meno dall’inizio
della stagione del nostro sconforto, un atteggiamento di sufficienza,
di
spocchia, se non di aperta irrisione e repulsa, nei confronti di chi
continua a
vedere, come già negli anni felici della lotta per la
decolonizzazione, lotta
allora come oggi impregnata di aspirazioni a un pur eterogeneo
socialismo, nei
popoli proletari del Sud del mondo un elemento, forse l’elemento,
decisivo per
il rovesciamento dello stato di cose esistente. “Il Vietnam era
un’altra cosa”,
“il contesto era diverso”, “c’erano i non allineati”, “c’era l’Unione
Sovietica”,
“comunque già allora si trattava di romanticismo anche un po’
piccolo-borghese”,
“e la classe operaia dove la mettiamo”, “Mao (che di classe operaia ne
aveva
pochina, ma in compenso molti contadini tipicamente Sud. N.d.r.)
è finito dove
è finito”. Più o meno sono questi i passaggi obbligati
della giaculatoria
anti-terzomondismo. Rispunta con
virulenza l’eurocentrismo, la mitizzazione esclusivista della classe
operaia
del mondo industrializzato, un certo razzismo biancolatra e, cosa
strategicamente criminale, una colonialista avversione al noto
“proletari di
tutto il mondo unitevi”. Sotto sotto c’è anche di peggio.
C’è la dannante consapevolezza,
da D’Alema a Bertinotti, di essersi accomodati nell’esistente e,
dunque, l’inesorabile
presa di distanza dalle spurie, ma radicalissime esperienze di
cambiamento che
sempre più popoli fanno fuori da quella che i nostri sinistri
chiamano la loro”innovativa”
(profondamente retrograda) portata ideologica e morale; c’è il
timore di
intellettuali progressisti di perdere il privilegio e l’aura del
battistrada ed
essere invece accantonati perché scoperti a rimestare tra le
polveri delle cose
fuori tempo massimo; c’è il terrore di dover mettere in gioco
quanto si è
acquisito a forza di liquidazionismi e di mediazioni al ribasso con una
borghesia in tal modo vasellinata verso un tardivo ricupero; c’è
il panico per
doversi - e non potersi - confrontare (o piuttosto farsi sputtanare)
con la
comprovata possibilità-necessità, non del lattiginoso
“altro mondo possibile”,
ma della rivoluzione. C’è poi chi, rispolverando l’accusa di
“romanticismo novecentesco”,
fa un bel transfert e rovescia sui “terzomondisti”, cioè su
coloro che
ritengono degni di studio, condivisione e passione i processi
antagonistici del
cosiddetto Sud, l’accusa di sognare rivoluzioni altrove, magari fatte
dai
sentimentalmente cari indigeni, per non doversi sporcare le mani con
gli
impegni politici di casa. Ricordo un noto e storico leader di
movimento, già
sessantottino, che, in un’assemblea nazionale di anti-guerra, alla mia
sollecitazione di integrare le nostre tematiche con quelle agitate in
America
Latina da paesi come il Venezuela, Cuba, la Bolivia, l’Ecuador, che,
dopotutto,
qualcosa forse potevano suggerirci visto che stavano prendendo per la
gola l’imperialismo
yankee e i suoi subordinati locali, rispose: “Maddai, lasciamo che di
quelle
cose se ne occupino loro, noi ne abbiamo di merda da spalare a casa
nostra.”
Provincialismo? Eurocentrismo? Presunzione? O qualcos’altro? Vedremo
più
avanti.
Su una cosa si può concordare con il
compagno citato: la
merda di casa nostra. Una melma
indistinta di destra dove la
discussione è solo su chi puzza di meno. Una sinistra sedicente
radicale che, guidata da una sorta di
Lecciso della
politica, inalbera del tutto
sprovveduti candidati no-global a nascondimento delle sue vergogne
compromissorie e dei suoi patti leonini con una base opportunamente
passivizzata nel corso di tre lustri. Nelle prime si spartisce in
anticipo
ministeri, presidenze delle camere e dello Stato con quanto di
più
guerrafondaio, liberista e massonico-opusdeista ha mai inficiato un
aggregato “democratico di sinistra”; nei
secondi, mentre proclama
dalle sue gazzette “basta con la politica dei capi”, “tutto dal basso”,
annichilisce totalmente iscritti e militanti svendendone bisogni,
volontà e
sogni (falce e martello compresi) in cambio di chioschi e ombrelloni
nel
deserto capitalista per la nutrita schiera dei propri sicofanti. In
cambio però
anche di qualche autentico soprassalto rivoluzionario da placare i
più
sbigottiti: il rigurgito della Tobin Tax, già sepolta dal
ridicolo, oltrechè
dall’entusiastico gradimento offerto dai briganti della speculazione
finanziaria, finalmente del tutto legittimati in cambio di una
tassicciuola
dello 0,01% per le caramelle ai poveri del Sud; oppure l’inno alle
olimpiadi
invernali in quanto celebrazione della fratellanza (tra multinazionali
del
massacro sociale e ambientale), della pace (pax americana dei cimiteri)
e della
sana competizione (tra dopati dal governo esonerati), notoriamente
valori
fondanti del movimento operaio, per i quali si può anche dire
agli smanierati
anti-tedofori cocacolizzati, Vespa plaudente, “adesso basta, avete
rotto i
coglioni”. Mentre gli avallanti della farsa nazisionista “Al Qaida”,
madre di
tutte le guerre globali, da Bertinotti a Contropiano, possono
assegnarsi il
merito di aver fatto mettere nell’unico fascio “terrorista” no-global,
no-Tav,
ambientalisti, centri sociali, metalmeccanici, precari a vita e
incazzati vari.
E qui un contributino non male lo fornisce anche
Mariuccia
Ciotta, del “Manifesto-quotidiano comunista”, quando depreca “chi ha
rivolto
impropriamente (sic) la protesta contro quell’atleta in corsa con la
sua
fiaccola fiammeggiante. I bambini torinesi hanno fischiato contro i
dimostranti
ieri per l’ennesima deviazione del mitico (sic) corridore e tutti. si
sono
risentiti. Simboli come la torcia che
non si spegnono mai valgono, sprigionano significati diversi dal loro
status
materiale e si prestano più a rappresentare le aspirazioni e i
diritti delle
persone.” Sarebbe stupefacente, questa melassa sulla megatruffa e
megadevastazione ambiental-cultural-politico-sportiva dei superpadroni
Fiat e
Coca Cola, se la signora in questione non si fosse già fatta
conoscere quando s’inalberò
sdegnata contro coloro che avevano messo in dubbio l’eticità e
l’estetica di un
lager per ergastolani inermi come quello che si chiama “bioparco” di
Roma.
Quanto ai suoi “bambini torinesi” afflitti per deviazione di torcia,
auguriamo
a tutti i bambini, compresi quelli di Mariuccia, tantissime tremende
afflizioni
di questo genere, comprese quelle per venirgli negato lo spasso di
assistere
alle sevizie psicofisiche degli animali nei circhi equestri,
biospettacoli
sicuramente cari alla direttrice del “quotidiano comunista”.
E in questa sbronza del politically scorregg
ecco che le
vignette di qualche pennivendolo fascista sguazzante nel notorio marcio
in
Danimarca diventano a sinistra espressioni, non di volgarissime
ingiurie dal
netto tratto razzista, ma difendibili espressioni del libero e satirico
pensiero: Guzzanti come Calderola, Vauro come Storace, Voltaire come
Fallaci.
Senza neanche quel po’ di logica e memoria storica che fa riconoscere a
distanza stellare una provocazione freddamente pianificata e
finalizzata a, in
primis, rilanciare la guerra di civiltà contro barbari e
infedeli e, in
secundis, avvolgere in questo nebbiogeno (come in quello da “Scherzi a
parte”
di un Osama lanciato in volo nel 2002 contro la torre della Biblioteca
di Los
Angeles, ma stoppato appunto dalle salvifiche intercettazioni) gli
scandali e
le porcate della masnada Bush, ultime le intercettazioni illegali di
mezzo
mondo.
Immersi nel calderone e quasi cotti a puntino
dai
cannibali dei nostri diritti e del nostro futuro, ecco che proprio il
Terzomondo, ancora una volta, ci viene in soccorso con una serie di
belle
novità. Hamas ha vinto in Palestina. E ne gioisce gente che
all’antica ancora
pensa che la religione sia l’oppio dei popoli e che dio
sia la più grande truffa mai inventata dal
potere. Gente che però, pur tra le emergenti priorità
transgender di
Leccinocchio, ha ancora salda la nozione di contraddizione principale e
contraddizioni secondarie. In questo caso della contraddizione
fondante: la
liberazione nazionale e la battaglia antimperialista e anticolonialista
condotta da una cinquantennale avanguardia del riscatto umano e che una
congrega di parassiti dell’occupazione e del genocidio avevano da tempo
abbandonato. Gente che sa ancora di lotta di classe e, perciò,
valuta nei suoi
giusti termini la differenza tra chi ruba alla grande e in combutta con
l’occupante
genocida (e perlopiù all’ombra delle gloria sottratta agli
indimenticabili
fedayin) e chi, perlopiù con forze endogene, si occupa del
soddisfacimento dei
bisogni delle masse, oltrechè della loro dignità,
indissolubilmente legata alla
resistenza in tutte le sue legittime forme. Del resto, è
cognizione comune che
i palestinesi per Hamas hanno votato più che per turbinoso
trasporto religioso,
per un’ intelligenza politica maturata in una lotta secolare mai domata
e che
percepisce perfettamente quali sono i fattori che propiziano la
sconfitta del
nemico. Che non sono quelli sostenuti da una dirigenza di
microfeudatari
disposti a far sparire il proprio popolo dalla carta geografica in
cambio di un
loro ruolo di valvassini nelle marche imperiali (proprio come il PRC
nel regno massonico-confindustriale),
ma piuttosto coloro che hanno saputo, nel corso di due intifade,
rendere
impraticabile il progetto sionista e irrealizzabile quella sicurezza
israeliana
che allo Stato occupante garantisce la sopravvivenza economico-sociale
e, nel
lungo corso, politica.
Viene in mente, a proposito, il dibattito
svoltosi intorno
alla manifestazione per la Palestina del 18 febbraio 2006. Dibattito
concluso
autoritariamente da un settore
determinante degli organizzatori che dalla piattaforma ha espunto,
fatta salva
una minuscola parentesi, ogni riferimento all’Iraq e alla sua epocale
resistenza armata. Resta la consolazione che diversi gruppi
partecipanti hanno
tenuto il punto e, come maggioranza degli interventi nell’assemblea
nazionale
preparatoria aveva voluto, partecipano all’evento con parole d’ordine
che
sottolineano l’indiscutibile e indissolubile legame tra partigiani
iracheni e
militanti palestinesi, tra i due popoli e tra questi e le masse arabe
tutte,
occupate dall’invasore o soggiogate nel di lui nome da fetecchiose
oligarchie
tiranniche e oscurantiste che, al confronto, Hamas sta tra Voltaire e
Stargate.
La vittoria di Hamas, parallela all’inesorabile avanzata della
Resistenza
irachena (25% di operazioni in più nel 2005 rispetto all’anno
prima), esprime
un sentire e un volere comune degli arabi e sostituisce agli
artificiali
frazionismi confessionali ed etnici, necessari alla strategia
espansionista di
sionisti e imperialisti, come anche alla fuga nei localismi con cui i
boss
palestinesi pensavano di salvare la borsa e la vita, la rinnovata
percezione
dell’unità araba nella battaglia per un comune destino. E’
semplicemente il
colmo (della pigrizia, dell’ignoranza, della fifa, dell’antisaddamismo
di marca
bushiana?) che, alla luce di lotte di popolo che, seppure separate da
qualche
centinaio di chilometri di sabbia, sono politicamente e culturalmente
intrecciate come i rami di un unico vitigno e da questa unione traggono
la
parte precipua della loro forza, si vada nelle manifestazioni a isolare
la
Palestina da questo suo contesto umano, da questo prezioso retroterra
strategico.
Sfruttando l’efferata invenzione della guerra al
terrorismo, un terrorismo tutto di matrice imperialista per quanto
sinistri
ignavi vogliano fallaciamente accreditarlo come islamico e
antioccidentale, il
nemico ha ben chiaro il proprio progetto. Un progetto
necessariamente unitario perché coinvolge uno scenario di
cui è
innegabile l’intima unità storica, politica e culturale. Quello che il sionismo-imperialismo si
propone è la costruzione del famigerato “Grande Medio Oriente”,
di boniniana e
condoleezziana memoria. Un piano PNAC (Programma per il Nuovo Secolo
Americano
della cosca nazisionista di Washington) formulato sul finire del secolo
scorso
e che si propone il dominio imperiale sull’area omogenea
dall’Atlantico marocchino al Golfo
arabo-persiano e, forse, oltre. Un dominio militare ed economico che
faccia di
Israele, nella massima estensione vaticinata dai fondatori, una volta
annegata
la questione nazionale palestinese in bantustan collaborazionisti e l’identità nazionale irachena nella
tripartizione confessionale, lo Stato-guida della regione del petrolio
e la
piattaforma di lancio per la penetrazione in Asia centrale e l’assalto
a Russia
e Cina. Non comprendere che di fronte a
un piano di tale portata geopolitica e geostrategica si devono
formulare
risposte di equivalente dimensione, ostinarsi nello stereotipo di una
Palestina
caso a parte, da non confondere con una lotta di liberazione nazionale
irachena, magari ohibò a guida baathista-islamica, oppure con i
sussulti e le
tensioni nelle satrapie arabe (sapientemente fatte passare per
terrorismo
integralista quando si tratta di rivolte nazionali ispirate
dall’esempio
iracheno), significa non vedere il bosco per l’albero. La giusta
solidarietà
che Arafat offerse all’Iraq nella prima guerra del Golfo, nel segno
dell’unità
panaraba per la quale l’Iraq era stato da sempre il massimo sostenitore
materiale e politico della causa palestinese, solidarietà
criminalizzata in
Occidente in parallelo con la demonizzazione di Saddam Hussein, ha
fatto
rifluire gli epigoni dei fedayin verso le deboli posizioni
particolaristiche,
fuori da ogni contesto storico, geografico e geopolitico, che hanno
portato al
farsesco inganno degli accordi di Oslo (oggi felicemente morti e
sepolti, non
più dagli scaltri propugnatori, ma dalle vittime) con tutto il
loro seguito di
menzogne, cedimenti e sconfitte. Oggi
non ci sono più solo tre milioni e mezzo di palestinesi dei
territori occupati.
Oggi si inseriscono in un fronte panarabo, l’unico in grado di
contrastare e
battere il Grande Medio Oriente dei nazisionisti, nove milioni di
palestinesi
sparsi su una mezzaluna che va da Gaza ai campi profughi di Giordania,
Libano,
Siria, Iraq, mondo. Esattamente il fronte che Oslo e poi Ginevra
avevano
tentato di sabotare. Ed è per questo fronte che dobbiamo
manifestare. Proprio e
soprattutto perché è la sorte dei palestinesi che ci sta
a cuore.
L’altra ottima notizia è l’esito del
Forum Sociale
Mondiale di Caracas. Ce lo conferma la piccata e livorosa reazione di
alcuni
partecipanti che, più gradatamente che all’improvviso, se si
pensa a Mumbai, si
sono ritrovati spiazzati e nell’angolo dei comprimari, a dir tanto. La
rivoluzione bolivariana, l’esempio cinquantennale cubano,
l’eredità rivivente
del Che, il travolgente emergere della forza indigena (che tutti
guardano alla
Resistenza irachena come garante della propria crescita e del proprio
spazio e
tempo d’azione), le avanguardie di massa in tutto il continente, il
trascinante
e convincente fascino politico e umano di Hugo Chavez hanno segnato una
svolta epocale
del movimento planetario di contestazione e rivolta. All’ordine del
giorno,
insieme a un impeto emotivo ma di più maturo spessore
ideologico, non è più
quel logoro “altro mondo possibile”, ricettacolo di tutte le
ambiguità e di tutti
i progetti di compatibilità ed entrismo (vedi la Quarta
Internazionale, le ONG
del presunto no profit, i nonviolenti a tutti i costi, associazioni
varie), né
lo sono i patetici riduzionismi alla Tobin Tax, o alla bilancio
partecipativo,
sostenuti dalle grandi Fondazioni finanziarie la prima, da riformisti
da
cooptazione i secondi. All’ordine del giorno c’è la
radicalità irrinunciabile
della rivoluzione, del socialismo del XXI secolo, come lo chiamano i
bolivariani, della sconfitta del capitalismo imperialista, della
riappropriazione
di ricchezze, mezzi di produzione distribuzione, della partecipazione
non
consultiva al bilancio comunale, ma decisionale alla gestione dello
Stato
finchè c’è, della società per sempre. E, se del
caso, dello scontro totale.
Insomma si ripercorre, con idee fresche e piedi giovani, quella che
tuttora
rimane l’esperienza migliore ell’umanità: il deprecatissimo - e
pour cause -
1917.
Tutto questo ha fatto di Caracas l’evento
più fortemente
sentito dai partecipanti e più gravido di effetti a livello
planetario. E ha
messo in crisi, come da loro irosamente denunciato sui giornali dei
sodali, i
vari leader delle varie componenti del movimento che, da ormai un
decennio,
vivevano di rendite di posizione. Personaggi autodeterminatisi
dirigenti e
strateghi, anche grazie alla passività di masse confuse da
indeterminatezze
come, appunto, l’altro mondo possibile con le sue coordinate
minimaliste, e
pensatisi tali in perpetuo, in mancanza di qualunque meccanismo di
vaglio
elettorale, verifica e conferma o revoca, come quelli pur presenti nei
detestati partiti.Una riedizione del meno valido nell’esperienza
sessantottina:
il leaderismo a priori, un po’ come
l’investitura
divina, che a metterlo in discussione ci si ritrovava stigmatizzati
come
politicisti, ambigui, amici del giaguaro. Dopo Caracas,
a dispetto del loro risentito rifiuto dei “governi
amici”, di cui denunciano il presunto intento di egemonizzare il
movimento (
senti chi parla!), diventa difficile per questi ex-protagonisti
mantenere le
proprie redini sul collo del movimento. Soprattutto perché il
loro discorso,
alla luce di quanto avviene tra America Latina, Palestina e Iraq, si
è
irrimediabilmente andato deteriorando, invecchiando, obsolescendo.
All’ordine
del giorno non ci sono più le varie ed eventuali. C’è lo
scontro dove
finalmente e necessariamente ci si torna a giocare tutto. Socialismo o
muerte.
Ovviamente per la vita della specie, delle specie e per la vittoria
della
classe.