partigiano
della
Brigata Garibaldi dirigente Fronte
della
Gioventù di Eugenio Curiel (dirigente della
Gioventù
comunista assassinato dai fascisti repubblichini a
Milano il 28
febbraio 1945) membro dell’ANPI
di Milano attuale
componente del
Comitato Federale di Milano del Partito della
Rifondazione Comunista.
Ricordare il passato vigilando contro i pericoli del presente e del
futuro.
Rivivere gli stati d’animo, le ansie, il coraggio, le paure, ma
soprattutto la grande tensione ideale che ci animava in quelle
terribili giornate di lotta di oltre sessanta anni fa è
sempre
una grande emozione. Anche allora gli invasori ci chiamavano
banditi e terroristi, come succede ancora oggi in altre parti del
mondo, ed in un certo senso avevano anche ragione di
farlo. Compito dei Gap e dei gruppi giovanili del
Fronte della Gioventù, nei quali militavo, era esattamente
quello di seminare il terrore nelle file dei nazifascisti e di
rendere
la vita impossibile alle truppe hitleriane e ai brigatisti neri di
Mussolini. Occorreva rispondere colpo su colpo e
senza esitazione ad un invasore feroce e crudele e alle bande
di
torturatori in camicia nera.
Per capire quale era il clima di quelle giornate terribili inviterei
tutti a leggere (o a rileggere) il libro di Giovanni Pesce, Senza
tregua. E’ una lettura che concorre a rivitalizzare i
nostri usurati neuroni e protegge dal rischio che la
memoria venga travolta, oltre che dal tempo, anche da certe tendenze
diffamatorie e distruttive.
Dal 25 aprile 1945 sono passati oltre sessant’anni.
All’ingrosso
tre generazioni. Sono tante.
Ma quel che è peggio stiamo attraversando una stagione di
revisionismo storico dilagante che tende a ridurre la Resistenza e
la
lotta armata a una parentesi di cronaca nera sanguinosa
separata
dalle reali dimensioni politiche e militari che i popoli europei e
gli
eserciti alleati furono costretti a fronteggiare prima di riuscire a
schiacciare la belva hitleriana nel suo bunker di
Berlino.
Le falsificazioni si susseguono: la resistenza all’invasore che
diventa
guerra civile, le foibe presentate come simbolo della
crudeltà e
della ferocia dei partigiani di Tito, il libro di Pansa che
presenta i partigiani italiani come killers assetati di sangue,
l’America di Bush che presenta lo sbarco in Normandia come
l’episodio
centrale e decisivo per le sorti della seconda guerra
mondiale. A farne le spese sono, oltre che la
verità storica, le grandi conquiste democratiche, sociali e
politiche rese possibili dalla sconfitta del nazifascismo e sulle
quali
incombe oggi la minaccia della loro cancellazione.
Poi, per fortuna, la verità storica si riprende qualche
rivincita. Ho visto, lo scorso 8 maggio, sfilare sulla
piazza Rossa , a Mosca, i volti consumati dall’età e dai
sacrifici ma ancora pieni di legittimo orgoglio, 2700 veterani
sovietici delle battaglie decisive che salvarono il mondo dal regime
hitleriano. Ricomincio a sperare che l’incauto Fukuiama
sia
inciampato in un clamoroso infortunio quando proclamò, 15
anni
fa, la fine della storia.
La prima cosa da dire ai deboli di memoria è che non ci
sarebbe
stata nessuna resistenza e nessuna vittoria contro il nazifascismo
senza il travolgente potenziale militare, politico e ideale messo in
campo dall’Unione Sovietica e dall’Armata Rossa e senza (cito le
testuali parole di Alcide De Gasperi) “…il genio politico e militare
del suo comandante in capo, Giuseppe Stalin”.
A conferma ricordo che l’atto di nascita della resistenza italiana e
la
sua prima, grande dimensione di massa risale al marzo 1943 quando
entrarono in sciopero contro Mussolini le grandi città
industriali del nord. Quello sciopero fu
proclamato
ben 15 mesi prima del tanto atteso sbarco in Normandia, ma, guarda
caso, 60 giorni dopo la resa della 6° Armata nazista di Von
Paulus
a Stalingrado e la distruzione, avvenuta in quella storica battaglia
dei tre Corpi di spedizione alleati dei tedeschi nella campagna di
Russia: quello rumeno, ungherese e italiano.
L’epopea di Stalingrado segna il crollo del mito
dell’invincibilità del Terzo Reich. Per la prima
volta appare a Berlino il fantasma della
sconfitta. Dunque un evento militare di peso
enorme e
un momento da non perdere. E fu così che noi, comunisti
italiani, pochi, clandestini e perseguitati, cogliemmo l’occasione
per
organizzare una prima , clamorosa operazione di protesta,
impensabile
solo qualche mese prima di Stalingrado. Incuranti delle
leggi di guerra molto severe che prevedevano anche la pena di morte
per
qualsiasi forma di sabotaggio, le grandi fabbriche industriali del
nord, cuore dell’industria bellica e pertanto militarizzate, si
fermano, per la prima volta dopo l’ascesa al potere del fascismo, e
lo
sciopero riapre una sfida mortale contro un regime nemico che pareva
dovesse durare mille anni. Stalingrado ha dunque segnato
una svolta decisiva per le sorti della guerra e ridato la speranza
della liberazione ai popoli europei. Ma è
ancora presto per parlare di pace. Ci riusciva persino
difficile
immaginarla. Sapevamo che troppi dei conti ancora in
sospeso col nazifascismo andavano risolti col ferro e col
fuoco. In quel momento, nessuno si scandalizzi,
erano
purtroppo gli eventi militari a cadenzare il nostro sanguinoso
avanzare
verso un mondo di pace. Ed il 1943 fu appunto l’anno
delle
battaglie decisive che resero irreversibili le sorti del conflitto
mondiale, tutte furiosamente combattute nei territori invasi
dell’Unione Sovietica e un anno prima del tanto sospirato sbarco in
Normandia.
Non tutti sanno che il colpo mortale alla Wermarcht fu inflitto sei
mesi dopo Stalingrado, nel luglio 1943, a Kursk in quella che
è
passata alla storia come la più grande battaglia di mezzi
corazzati ed aerei di tutta la seconda guerra mondiale.
Battaglia che per ampiezza, mezzi impiegati e conseguenze
strategiche
finì per superare quella di Stalingrado.
La battaglia di Kursk rappresenta l’estremo tentativo hitleriano di
riprendere, dopo il disastro di Stalingrado, l’offensiva e
l’iniziativa
strategica. L’obbiettivo dell’Alto comando tedesco era
assai ambizioso: sfondare il fronte nel triangolo Orel-Kursk-Briansk
in
direzione nord-est tentando per la seconda volta di aggirare Mosca
da
sud. Quando alle 5 del mattino del 5 luglio 1943 il
maresciallo Von Kluge, comandante dell’operazione, diede il segnale
dell’attacco disponeva nel suo settore di un concentramento di mezzi
militari senza precedenti: 15 divisioni corazzate, 25 divisioni di
fanteria e le tre migliori divisioni della SS, la Adolf Hitler, la
Totenkopf e la Das Reich. In tutto, più di mezzo
milione
di uomini, tremila nuovissimi carri Tigre e Pantera, al loro
esordio,
appoggiati da duemila aerei. Ma le illusioni di Von
Kluge
di sfondare verso est erano già in parte svanite il primo
giorno. In quelle prime 24 ore la più grande
battaglia di mezzi corazzati di tutta la guerra si era conclusa con
la
distruzione di 586 carri tedeschi ritenuti pressoché
invulnerabili. Non meno pesante la sconfitta della
Luftwaffe che nello stesso giorno perse 203 aerei, di cui 33
abbattuti
dalla squadriglia di volontari francesi “Normandie” copertasi di
gloria
nei cieli di Kursk. Il tutto per una penetrazione
tedesca verso est non superiore ai 9 km.
Dal 6 al 12 luglio Von Kluge continuò l’offensiva alla
disperata
ricerca di un punto debole nello schieramento difensivo sovietico da
sfondare, ma invano. Incollati a radio Mosca seguivamo
col
fiato sospeso l’esito di quella battaglia.
Poi,
finalmente, il 12 luglio, stremati dalle perdite i tedeschi
esaurirono
la loro spinta offensiva lasciando sul terreno 2609 carri e 1037
aerei. Il fior fiore delle Panzer Divisionen
distrutto in soli sette giorni! Un colpo decisivo
per
la macchina bellica tedesca dal quale non si sarebbe più
riavuta.
Cosi, il 15 luglio, quando i due eserciti sembravano entrambi
esausti,
ebbe inizio una impressionante offensiva sovietica nella zona di
Orel,
a nord di Kursk, condotta da armate fresche al comando del
maresciallo
Rokossowski. Fu l’inizio di una avanzata
travolgente
che nel giro di quattro mesi portò alla liberazione di 162
città sovietiche, inclusi il Caucaso e la Crimea, e
all’annientamento di 134 divisioni naziste.
Questa è stata la battaglia che ha chiuso per sempre la
stagione
delle offensive tedesche sul fronte russo. Da
allora
ai soldati di Hitler fu concesso di usare solo la retromarcia fino a
Berlino.
Anche in Italia gli avvenimenti incalzano: dieci giorni dopo Kursk,
il
25 luglio 1943 cade Mussolini e 45 giorni dopo, l’8 settembre, dopo
la
firma dell’armistizio, inizia la lotta armata.
Lotta armata! Una parola che sembra far inorridire oggi certi
campioni
della non violenza abituati a valutare la storia con il metro delle
loro convenienze congiunturali.
Sessant’anni dopo è difficile raccontare il clima tremendo di
paura e di terrore seguito all’8 settembre 1943. Un
clima
creato da una legge imposta con inaudita ferocia dal tallone di
ferro
dei panzer invasori che si insinua in ogni casa e ti colpisce negli
affetti più profondi: le famiglie spezzate, gli amici
d’infanzia
fucilati perché renitenti alla leva, altri arruolati di forza
nelle file dei massacratori di Salò, le fabbriche
saccheggiate
dei loro macchinari, gli operai deportati chissà dove, la
fame
che ti rimpiccioliva lo stomaco. Insomma un autentico
inferno. Poi ecco l’emergere, in modo sempre
più ampio e diffuso, dei soggetti politici antifascisti
promotori e guida della resistenza popolare. Primo fra
tutti, per consistenza organizzativa e capacità
politiche-militari, i militanti comunisti reduci dalle prigioni di
Mussolini, dal confino e dalla guerra di Spagna.
Dietro loro iniziativa compaiono, nell’autunno 1943, le prime
formazioni partigiane di montagna, si formano i primi nuclei
gappisti,
nasce il Fronte della Gioventù. L’inizio non
è stata una tranquilla passeggiata per nessuno di
noi. A quel tempo avevo 18 anni e a quell’età
sono
altri i sogni che coltivi, ma la realtà non ci lasciava
alternative. Bisognava imparare e in fretta ad
usare
le armi e gli esplosivi, a strisciare silenziosi nelle ore di
coprifuoco, a tendere gli agguati alle pattuglie nemiche, a reggere
con
calma gli scontri a fuoco, a disarticolare le vie e i mezzi di
comunicazione del nemico. Bisognava anche essere
preparati
a resistere alle torture nella sfortunata ipotesi di cadere nelle
mani
dei macellai delle “brigate nere”. Insomma c’erano
proprio tutti gli ingredienti per farti crescere la volontà
di
combattere una guerra di liberazione spietata e crudele ma
inevitabile.
Ora, siccome la mia idea di comunismo e di libertà,
unitamente a
quella di Giovanni e di Nori, si è dovuta purtroppo formare
anche in mezzo a quell’abisso di orrore, vorrei spendere
qualche
parola per spiegare che la scelta di combattere con i fucili e con
le
bombe i nazifascisti non fu dettata da tendenze
avventuriste. Avremmo potuto anche allora scegliere la
“non
violenza” (allora si chiamava “attendismo”), avremmo potuto
nasconderci
in una cantina – meglio se svizzera – e attendere l’arrivo della
5°
Armata americana che stava risalendo con esasperante lentezza la
penisola. Ci avrebbero pensato i soldati di Clark a
portarci la libertà e la democrazia.
Abbiamo invece deciso diversamente. Abbiamo scelto la
lotta
armata. Abbiamo dovuto contaminarci con la
violenza. Ed è stata un’esperienza
sconvolgente. Lo è sempre quando nel mirino del
tuo
fucile inquadri un essere umano, quando la sola alternativa
possibile
è quella di uccidere per non essere uccisi.
Superare
quella sottile barriera di violenza estrema non è stato
facile
per nessuno. Ma poi sapevi che sotto quelle divise
fasciste
e naziste c’erano uomini feroci che avevano impiccato, torturato,
incendiato i villaggi della nostre vallate. E allora
superavi le esitazioni e schiacciavi il grilletto. Ma
bisognava
nel contempo creare un clima di fiducia nel popolo, convincerlo che
la
resistenza all’invasore, in ogni sua forma, piccola e grande, era
una
doverosa necessità ed un passaggio inevitabile verso la
liberazione, la pace e la democrazia. Ci siamo
riusciti? Penso proprio di si. Credo
che
mai come allora la resistenza popolare, intesa come legame profondo
tra
avanguardia armata e masse, abbia avuto una dimensione cosi ampia e
travolgente. Lo sciopero generale del marzo 1944
è
stato un evento unico della resistenza europea:
Centinaia di migliaia di operai che sfidano per una intera settimana
le
SS di Kesserling. Molta sabbia finisce negli
ingranaggi dei torni e delle fresatrici destinate alla Germania,
mentre
squadre di tranvieri, protetti da gruppi armati rendevano
inservibili
gli scambi delle linee tranviarie paralizzando le
città. Sciopero generale, lotta
di
popolo, risposta armata all’invasore e formazioni partigiane
di
montagna in rapida espansione: questi gli elementi centrali di quel
grande movimento chiamato Resistenza conclusosi il 25 aprile 1945.
Anche se, dopo la liberazione, quella carica di odio per il nemico
si
è andata via via stemperando e dissolvendo, ci è
restata abbastanza memoria per indignarci di fronte al tentativo
odierno di restituire il titolo di combattenti e l’onore di leali
soldati ai torturatori nazifascisti, ai massacratori delle Fosse
Ardeatine, ai plotoni di esecuzione di Mussolini, di Kappler e di
Reader, ai distruttori di Marzabotto, di S.Anna di Stazzona, di
Boves. L’idea che più ci sconvolge oggi
è di essere equiparati al nemico che abbiamo combattuto con
tutte le nostre forze. Ma il rischio che corriamo
è
sicuramente peggiore e riguarda tutti: quello di perdere il
risultato
storicamente più importante della lotta partigiana, quello di
vedere portata in discarica la Costituzione
Italiana.
Non è banale ricordare che questa costituzione si è
potuta scrivere, prima ancora che con l’inchiostro, con il sangue di
oltre 47 mila partigiani uccisi in battaglia o fucilati durante la
resistenza.
Ritrovo tra le mie vecchie scartoffie il testo ormai ingiallito di
un
riconoscimento rilasciato nel 1945 a guerra conclusa, a molti
partigiani italiani, dal maresciallo Alexander, comandante in capo
delle forze alleate del Mediterraneo centrale: “Nel nome dei governi
e
dei popoli delle Nazioni Unite, ringraziamo Ricaldone Sergio di
Pietro
di avere combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando nei
ranghi dei partigiani, tra quegli uomini che hanno portato le armi
per
il trionfo della libertà, svolgendo operazioni offensive,
compiendo atti di sabotaggio, fornendo informazioni militari.
Col
loro coraggio e con la loro dedizione i patrioti italiani hanno
contribuito validamente alla liberazione dell’Italia e alla grande
causa di tutti gli uomini liberi”. In parole povere,
l’insospettabile maresciallo di sua maestà britannica, dopo
averci invitato invano ad abbandonare la lotta nell’inverno
1944/45, ci ringrazia per avere compiuto attentati, colpito
con
vari mezzi i soldati e le retrovie del nemico, sabotato le
comunicazioni, spiati e segnalati i movimenti delle truppe
occupanti. Pratiche che fanno giustamente inorridire chi
è nato e cresciuto lontano da quei drammatici momenti di
estrema
violenza. Ma per quanto la guerra possa essere
considerata un orrore è difficile poterla contrastare, una
volta
che sei costretto a combatterla, percuotendo la testa del nemico con
il
gambo di un fiore come ci propongono di fare oggi i “non violenti”
da
salotto. E’ curioso notare che oggi, benché un
resistente iracheno stia facendo le stesse cose contro
un’occupazione
che per molti versi emula le gesta delle SS e della Gestapo, vengono
definiti feroci terroristi toutcourt.
Ci rimproverano con molto garbo di essere stati “angelizzati”
da
un eccesso di apologia della Resistenza. Un modo
elegante,
e un po’ ipocrita, per dirci che quando sei contaminato dalla
violenza
non riesci più a liberartene. Faccio notare che
se
col passare dei decenni ci fossimo resi coerenti con questa
sedicente
cultura della “non violenza” questa sera non dovremmo essere qui a
raccontare il nostro impegno di militanti della lotta armata, ma in
qualche modo a dolercene di avere compiuto quella
scelta. Forse, in questo modo, potremmo evitare di
essere archiviati nel museo degli orrori del 900 e di essere
seppelliti
sotto le macerie del movimento operaio e comunista del secolo di
Lenin,
di Gramsci e di Togliatti.
Beh, io una risposta l’avrei per coloro che ci chiedono di
rinnegare il nostro passato.
Ricordo un passaggio del Don Chisciotte di Cervantes che sembra
ritagliato apposta e che provo a riassumere a memoria.
Mentre cavalcano nella notte Don Chisciotte e Sancho Pancia sono
inseguiti e molestati dal latrare dei cani. Sancho Pancia
vorrebbe fermarsi ed aspettare che i cani si calmino ma Don
Chisciotte
gli risponde: lasciamoli latrare e continuiamo a cavalcare nella
notte.
Anche noi dovremmo occuparci meno dei cani che abbaiano e continuare
a
cavalcare nella notte.