GLI ARTICOLI SU CUBA DI ANGELA NOCIONI
INVIATA DEL QUOTIDIANO LIBERAZIONE
La via più semplice per andarsene dall'isola degli «uomini
nuovi», a parte il matrimonio, è ancora la carta d'invito
all'estero. Ma il governo ha cambiato le norme in senso
restrittivo
Cuba, si salvi chi può...
I giovani sognano la fuga
Angela Nocioni
L'Avana nostra inviata
Fino a due anni fa erano in sei, poi sono arrivati gli zii
dall'Oriente. «Abbiamo costruito un soppalco e li abbiamo messi
lì, cosa dovevamo fare?», racconta Manolo stringendo le
spalle.
Marco, cooperante di Grosseto, nel quartiere ha progetti di restauro
finanziati dall'Arci, l'unico grande accordo di cooperazione
sopravvissuto al gelo diplomatico con la Ue con cui Cuba reagì
alle proteste europee per la fucilazione di tre cittadini cubani del
2003. Spiega: «La ragione per cui il Centro Habana rischia di
crollare ha molto a che fare con questa storia dei soppalchi.
C'è un grande problema abitativo in città, gli edifici
coloniali del centro hanno soffitti di sei metri ma sono fatiscenti.
Nessuno li ripara. Non ci sono i soldi e manca il materiale. Gli
inquilini costruiscono un soppalco nel mezzo, il "barabacoa". Lo
caricano di gente e vanno avanti così finché non viene
giù tutto».
La ricerca di un'organizzazione internazionale registra nel Centro
Habana una media di 1,4 crolli quotidiani. Crolli interni, non vuol
dire che viene giù un palazzo al giorno, ma se li metti insieme
all'acqua da portare con le autobotti, al cibo che non basta e a tutti
i problemi relativi al sovraffollamento, il paradiso tropicale si tinge
di toni foschi.
Eccezion fatta per il perfetto restauro conservativo di buona parte
dell'Avana vecchia, dichiarata dall'Unesco patrimonio culturale
dell'umanità e affidata da Castro al fedelissimo Eusebio Leal,
nel centro della capitale il 15% degli edifici è destinato al
crollo. «Bisogna aggiungere un 35% di palazzi in equilibrio
miracoloso. Prima o poi crollano pure quelli» prevede Marco,
ottimo conoscitore delle strade senza ombra che si spalancano come la
bocca di una grotta oltre il muretto del lungomare.
Su quel muro eternamente bagnato dalle onde Manolo è cresciuto.
Ha trent'anni, da dieci pensa di andarsene. Ma non vuole imbarcarsi
verso la Florida. «Voglio uno di quei bei passaporti rosso scuro
che avete voi - dice senza sorridere - quella scritta d'oro "Unione
europea" con cui ti muovi tranquillo per il mondo».
Il passaporto a Cuba non è un diritto, non lo è mai
stato. Per ottenerlo devi avere un motivo considerato plausibile dal
governo. Se sei un «soggetto con tendenze asociali» te lo
scordi. Per essere considerato tale basta rifiutarsi di lavorare per lo
Stato (un insegnante guadagna 500 pesos, 20 euro, il costo di due
pacchi di assorbenti igienici e un succo di frutta). Se poi, alle
tendenze asociali si accompagnano comportamenti controrivoluzionari,
non se ne parla nemmeno. I comportamenti controrivoluzionari possono
andare dalla frequentazione con i figli di un diplomatico straniero
(sospetti di intelligenza col nemico) alla mancanza di rispetto al
lìder maximo (grandissime complicazioni).
La separatezza tra cubani e stranieri, con qualche tolleranza riservata
a periodi alterni al turismo sessuale, è un valore della
rivoluzione. Impossibile iscrivere un bambino straniero, figlio di uno
straniero residente, a un asilo cubano. Deve andare alla scuola
internazionale insieme ai figli dei non cubani.
Quel passaporto che non si può avere è l'oggetto del
desiderio per chiunque abbia meno di quarant'anni. I giovani se ne
vogliono andare quasi tutti: quelli che lo dicono (pochi), quelli che
lo ammettono a mezza bocca e quelli che alzano gli occhi al cielo e
poi, rapidissimi, colgono la prima occasione per prendere il volo.
Negli intervalli delle lezioni all'università dell'Avana, la
Gloriosa collina, non si parla d'altro.
«E' il principale problema di questi tempi incerti - racconta uno
scrittore cubano di successo, uno di quelli che vuole vivere all'Avana,
ogni volta che l'invitano all'estero va e ogni volta torna - è
la grande crisi di valori della rivoluzione, i giovani colti, laureati,
sono disposti a tutto pur di andarsene. Non c'è modo di
fermarli, qui non vedono possibilità di futuro».
Fino agli anni Novanta era sostanzialmente impossibile uscire
dall'isola. Chi fuggiva perdeva tutto. Si poteva solo con un permesso
di studio all'estero, quasi sempre nei Paesi del blocco sovietico. O
con un'autorizzazione speciale per ragioni professionali, riservata
agli obbedienti del partito (il partito comunista, l'unico permesso
sull'isola).
Poi con la grave crisi economica seguita al crollo di Mosca e la
conseguente apertura al turismo sono spuntate le carte di invito.
La carta d'invito è da anni la principale via per andarsene. Ci
si fa invitare da uno straniero che si prende la briga di farsi
responsabile dell'invitato e di pagargli biglietto, assicurazione, una
fideiussione bancaria e balzelli vari. Si può restare fino a un
massimo di undici mesi.
La norma è stata cambiata a fine aprile. In senso restrittivo.
La risoluzione 87/2007 del ministero degli esteri prevede che la
lettera d'invito si formalizzi nella sede consolare cubana all'estero.
«I tempi così diventano più lunghi e c'è la
possibilità che il console rifiuti l'autorizzazione» si
lamenta un diplomatico straniero. Un impiegato di un consolato del Nord
Europa spiega: «I cubani che stanno organizzandosi per andar via
sono preoccupati perché prima era possibile presentare la
lettera d'invito alla Consultoria juridico-internacional dell'Avana. La
legalizzavano qui, con tutte le scappatoie possibili in una
città dove i dollari fanno gola a molti. Ora invece tutto deve
avvenire davanti al console cubano del Paese che invita. Così
Cuba evita le lettere false, obbliga chi invita a prendersi un impegno
formale davanti all'autorità consolare e si riserva l'ultima
parola». Le ambasciate dei Paesi del Nord Europa sono ora molto
più frequentate che negli anni '90 dai cubani, che aggirano
così l'inasprimento della prassi spagnola per i visti. Entrano
da un aeroporto del Nord Europa e poi si trasferiscono a Madrid.
In ogni caso per uscire ci si deve muovere in difficile equilibrio tra
due diverse burocrazie per avere due diversi documenti: il visto del
Paese straniero per entrare e il permesso di Cuba per uscire. Nessuno
dei due vale senza l'altro. Se uno dei due scade è come se fosse
scaduto anche l'altro. E ricomincia la peregrinazione per uffici, a
partire dal temibile Dipartimento per l'Immigrazione la cui principale
utenza è costituita da aspiranti emigranti. La strada più
sicura per andarsene rimane il matrimonio. I tempi sono lunghi, il
percorso costoso, ma l'esito sicuro. Nell'ultimo anno ci sono stati
mille matrimoni tra cittadini italiani e cubani.
I cubani all'estero sono una fonte di valuta per il governo dell'isola.
Una volta fuori chiedere qualsiasi documento all'Avana diventa
un'impresa. Per avere un certificato di nascita o di matrimonio bisogna
pagare alla rappresentanza consolare cubana 20 dollari all'atto della
richiesta, 80 quando arriva il documento, 60 per la legalizzazione in
ambasciata. Per rinnovare il passaporto: 200 dollari. Il permesso di
viaggio all'estero è prorogabile per dieci mesi, oltre al mese
concesso all'inizio, con un pagamento di 40 dollari ogni trenta giorni.
Per le carte d'invito, i matrimoni e il cambiamento di categoria dei
permessi (dal Pvt, il permesso di viaggio temporaneo,
all'irraggiungibile Pre, permesso di residenza all'estero) diventa una
jungla di cifre.
Complicato, ma sempre meglio che imbarcarsi su un motoscafo diretto a
Miami. Costo: fino a diecimila dollari a testa. Se si è
intercettati in mare dalle autorità cubane o dalla guardia
costiera statunitense (che in questa materia collaborano) si è
rispediti indietro. Se si tocca territorio americano, invece, si hanno
ottime possibilità di essere accolti a braccia aperte. E' la
legge del "pié mojado" e del "pié seco", (del piede
bagnato e dell'asciutto) il compromesso raggiunto nel braccio di ferro
tra l'Avana, che brandisce i suoi potenziali profughi come un'arma
diplomatica e Washington che non vuole le coste della Florida assaltate
dai "balseros".
Secondo dati diffusi la settimana scorsa dall' Associated press che ha
incrociato dichiarazioni della guardia costiera di Miami con documenti
sui soccorsi in mare, dall'ottobre del 2002 all'ottobre del 2006 si
è duplicato il numero dei cubani che hanno tentato di
raggiungere la Florida e Puerto Rico. L'anno scorso la cifra è
stata di 7mila e 27 persone. Più della metà è
riuscita nell'intento.
Introvabili i dati sui medici cubani che si sono rifiutati di tornare
indietro alla fine delle missioni internazionaliste. Tanti. Ne sa
qualcosa il Venezuela che si è ritrovato a dover accogliere
migliaia di medici della missione "Barrio adentro", l'accordo tra Hugo
Chavez e Fidel Castro per la sanità gratuita per tutti. Molti
medici hanno compiuto il lavoro, ma poi a casa non sono voluti tornare.
La versione ufficiale racconta che da Cuba nessuno se ne vuole andare,
a parte gli asociali. E' una di quelle verità che non si
discutono. E' così e basta.
Il silenzio del cimitero Colon, però, il monumentale cimitero
dell'Avana, racconta un'altra storia. Nei suoi viali si schiude la
realtà parallela che sfugge alle statistiche. Oltre il grande
cancello d'ingresso, all'incrocio tra la strada 12 e la calle Zapata,
si apre una strada bianca che va dritta fino alla chiesa. Quasi in
fondo, a sinistra, in una stradina laterale, c'è una tomba
coperta di fiori. E' la tomba più visitata dell'Avana: lì
giace Amelia, morta giovanissima nel 1901. Il poliziotto di guardia
dice che fu sepolta insieme al bimbo, appena nato. Il corpo del figlio,
creduto morto, fu appoggiato ai piedi della madre. Quando riaprirono la
tomba per l'esumazione le trovarono il bimbo in braccio. «Si
erano sbagliati, capito? - dice lui accorato asciugandosi il sudore col
fazzoletto - il bambino ha risalito il corpo della madre e le si
è messo in braccio». La leggenda narra invece la storia di
una giovane donna incinta morta in circostanze tragiche.
Fatto sta che Amelia fa miracoli. Bisogna percorrere il perimetro della
tomba in senso antiorario, chiederle la grazia offrendo fiori freschi e
allontanarsi fissando lo sguardo della statua col bimbo in braccio.
C'è la fila. Quasi tutte donne.
Biglietti a matita, un tappeto di gladioli e la verità semplice
degli ex voto incisa sulla pietra: «Grazie per aver concesso il
viaggio a mia figlia». Sotto le due fioriere più belle,
ricoperte di rose rosse e orchidee, c'è scritto: «Amelia,
vergine miracolosa, grazie per il visto».
30/05/2007
L'irresistibile ascesa di Giustino Di Celmo, da padre della vittima
d'una bomba a star del regime
La propaganda ai tempi di Raul, la Pizza Fabio e i Cinque
Eroi
L'Avana nostra inviata
«La verità, una volta risvegliata, non torna a
dormire» sta scritto sul bianco accecante di un monumento a
José Martì, nel quartiere Vedado. Sarà per questo
che al chiosco all'angolo vendono solo Granma e Juventud rebelde , il
mondo secondo Castro. Un cittadino habanero vuol sapere cosa è
successo dopo la sparatoria all'aeroporto di qualche giorno fa, come
è andata a finire con i due soldatini presi mentre tentavano di
dirottare un aereo per fuggire dall'isola - hanno ucciso, rischiano la
pena di morte - e in prima pagina su 'Granma trova una foto di Raul che
riceve il ministro della Difesa cinese e un'illuminante "lettera di
José Martì alla madre". Per carità. E' il giorno
della mamma. Festa grande a Cuba. Ma le ipotesi sulla fuga dei soldati
di leva dalla caserma circolano solo sul porta a porta di "Radio
Bemba", il passaparola, il pettegolezzo del vicinato, l'unico mezzo di
comunicazione dell'Avana che racconta i brandelli, assai fantasiosi, di
ciò che la verità di Stato nasconde. La stampa estera
è introvabile.
Neanche a Internet ci si può affidare. Solo gli stranieri
possono. I cubani no. Hanno una rete loro, Intranet. Una rete interna
con un servizio di messaggeria e un accesso limitato ai siti. Si entra
in Cubasì, si legge Granma online , si trova Telesur . Il Miami
herald non si apre. La Bbc nemmeno.
Internet vera esiste in alcuni centri postali e negli alberghi per
turisti, dove i cubani non possono entrare (qualche impiegato, dietro
lauta mancia, chiude un occhio). Tariffe fino a dodici dollari l'ora.
Per averla a casa bisogna avere un permesso speciale, per ragioni di
lavoro. Costa comunque molto: 80 dollari, 60 ore mensili. E il
collegamento è lentissimo. Chi può risolve con gli
allacci in nero, installati per lo più dagli stessi operai Entel
(proprietà Telecom) che durante il giorno si occupano delle
connessioni legali e nel fuoriorario notturno del resto, ricompensati
in dollari. Se la polizia si accorge sono dolori.
L'informazione è lacunosa, la comunicazione complicata, la
propaganda invece gode di ottima salute. E di lauti finanziamenti.
Prendiamo i cinque eroi. Li chiamano così. Sono Antonio
Guerrero, Fernando Gonzales, Gerardo Hernandez, Ramon Labanino e
René Gonzales, sorpresi in territorio statunitense mentre
lavoravano per i servizi segreti cubani e condannati a lunghe
detenzioni con processi contro cui si è pronunciata la Corte di
Atlanta.
Come ai tempi di Elian, il bambino cubano conteso tra Cuba e i parenti
di Miami, rispedito all'Avana e trasformato nella mascotte del regime,
i cinque eroi sono diventati pane quotidiano per la propaganda
castrista. Fanno capolino alle fermate degli autobus, alle stazioni
della radio, all'entrata della gelateria. Gli dedicano letture, serate,
concerti. «Che sei stato a vedere l'atto per i cinque
eroi?», «Bisogna andare al presidio per i cinque
eroi» si ascolta all'uscita di una scuola secondaria.
I cinque eroi di mestiere facevano le spie. Da quando sono famosi,
però, sono scrittori, poeti, caricaturisti. A Gerardo Hernandez
gli pubblicano libri di vignette. E' uscito anche un libro di
corrispondenze. "El dulce abismo" si chiama, "il dolce abisso".
«Cartas de amor y de esperanza de cinco familias cubanas».
All'Uneac, l'unione degli artisti e degli scrittori cubani, c'è
chi mastica amaro. Uno degli iscritti più anziani si rigira il
libro tra le mani: «Non abbiamo carta. Per pubblicare racconti
bisogna raccomandarsi a tutti i santi e se va bene ti fanno duemila
copie e un'unica edizione. Quando è finita, chiuso. Nessuna
ristampa. Ai cinque eroi invece li pubblicano come fossero Garcia
Marquez ».
Così come ai tempi del piccolo Elian, dopo l'emozione iniziale,
c'era chi avrebbe volentieri fatto a meno di vedere quel bambino
portato a spasso per tutta l'isola sulle ginocchia di Fidel, la
solidarietà con i cinque eroi va scemando, sopraffatta
dall'onnipresenza dei cinque faccioni eternamente sorridenti.
«Le mogli hanno vinto alla lotteria - commentano acidi al mercato
agropecuario - viaggiano, scrivono, vanno in tv. C'è da sperare
per loro che non li rilascino mai. Obiettivamente, ma chi l'ha mai
vista la moglie di un agente che fa la vita di quelle
lì?».
Nella propaganda ai tempi di Raul il posto d'onore tocca a un italiano.
Giustino Di Celmo. Padre di Fabio, ucciso da un attentato in un hotel
di lusso organizzato da Posada Carriles, il Bin Laden dei Carabi
scarcerato con una decisione scandalosa da una giudice statunitense e
al momento libero a Miami.
Di Celmo, addolorato, è andato a vivere all'Avana. Il regime ne
ha fatto un testimonial. Se lo portano dappertutto. In tv, ai comizi,
anche sul palco del primo maggio. Gli hanno dato una laurea honoris
causa. Lui, grato, parla di Cuba come se fosse il migliore dei paradisi
possibili. Si è anche candidato alle ultime elezioni politiche
in Italia. Nella lista dei Comunisti italiani per la Camera dei
deputati. Di mestiere fa l'imprenditore.
A Cuba è vietato aprire ristoranti privati. Ma Di Celmo ha una
pizzeria nel miglior quartiere dell'Avana. Si chiama Fabio, come il
figlio morto e come la pizza della casa, con cipolla e olive. Pizza
Fabio, quattro dollari e sessantacinque.
A.N.