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ELEZIONI POLITICHE 2008: RIPARTIRE DA GRAMSCI

L’esperienza storica ci insegna che, di fronte ad un’ondata reazionaria, i “pannicelli caldi” non servono a nulla. E’ necessaria la resistenza ad oltranza. Se i liberali come Benedetto Croce non avessero considerato il fascismo un “raffreddore”, addirittura salutare; se i socialisti non avessero proposto  patti di pacificazione alle squadracce nere, che bruciavano le sedi dei partiti di sinistra e delle associazioni sindacali progressiste; se fosse prevalsa la tesi gramsciana di rispondere a muso duro, allora l’Italia non sarebbe andata incontro ad una dittatura ventennale.
Il paragone tra la situazione attuale e quella che immediatamente precedette il fascismo viene considerato “esagerato” dai “moderati” di turno. Ma i punti di contatto sono parecchi. Bisogna dirlo con estrema chiarezza e sincerità: il nostro Paese è investito da una grandiosa ondata reazionaria, che non ha eguali nel resto dell’Europa occidentale, ma che, invece, corrisponde a quella scatenata nell’Europa orientale dal crollo dei regimi comunisti. Potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è, perché anche in Italia il Partito comunista governava, sebbene dall’opposizione. Alcune tra le più sviluppate regioni erano amministrate dai comunisti, così come le principali città. Il Partito comunista italiano era votato da un terzo degli italiani, addirittura alle elezioni europee successive alla morte del suo segretario, Enrico Berlinguer, era diventato la prima forza politica del Paese per numero di consensi.
Era necessario fare i conti con questa realtà. La sua esistenza aveva imposto, sin dall’immediato secondo dopoguerra, una Costituzione più avanzata rispetto a quelle europee, e un sistema elettorale imperniato sul “proporzionale” e, quindi, improntato ai principi della più ampia partecipazione democratica. La forza del Partito comunista e del sindacato ad esso legato – la C.G.I.L. – , il più rappresentativo del Paese, aveva fatto sì che i lavoratori italiani acquistassero maggiori diritti rispetto a quelli degli altri Paesi europei, in termini di previdenza, di assistenza, di retribuzione rapportate al costo della vita, di stabilità e sicurezza sul posto di lavoro, di rappresentanza sindacale nelle fabbriche, di “Stato sociale”. Con l’uscita dei “Quaderni del carcere” di Gramsci, inoltre, alla fine della seconda guerra mondiale, anche la cultura italiana subì una svolta notevole. All’egemonia culturale idealistica e crociana si sostituì progressivamente quella gramsciana.
La caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo hanno rappresentato l’occasione per le forze retrive del Paese per dar vita ad una vasta operazione di restaurazione. Così si spiega l’attacco al sistema costituzionale ed istituzionale, nato dalla Resistenza, e fondato sulla partecipazione delle masse alla gestione della cosa pubblica. Così si spiegano le varie “controriforme” economiche, volte a smantellare in tempi rapidi lo “Stato sociale”, a precarizzare e a rendere insicuro il lavoro, ad intaccare l’assistenza sanitaria gratuita, a diminuire i salari e ad aumentare i profitti. Così si spiega anche la controffensiva “culturale” dei “poteri forti”, che, attraverso le televisioni, la stampa, l’editoria, intendono trasformare il cittadino in mero “essere recettivo”: una sorta di contenitore di messaggi pubblicitari mirati, senza alcuna volontà autonoma.
Questa ondata reazionaria doveva essere arginata, nell’interesse della gente comune e per la difesa dei suoi diritti. E, invece, in ossequio ad una vecchia abitudine nazionale, il trasformismo, i dirigenti del Partito comunista italiano hanno deciso, nella maggior parte, di “saltare sul carro del vincitore”. Cesare Pavese ha scritto che le parole sono molto importanti, perché ci dicono da che parte sta chi le usa. Quando Walter Veltroni, ex dirigente di spicco del Pci e oggi segretario del Partito Democratico, fa l’elogio sperticato dei “padroni che si spezzano la schiena”, che non dormono la notte, perché pensano ai mutui e ai debiti contratti per “creare lavoro”, per garantire prosperità e sviluppo al Paese, non è difficile capire da che parte stia. Quando il suo partito insegue la Lega nell’assecondare gli egoismi “nordici”, ammantati di “federalismo”, e nel proporre misure repressive, in nome della cosiddetta “sicurezza”, inequivocabilmente non fa altro che abbandonarsi all’ondata reazionaria.
Le stesse minoranze che hanno costituito partiti “neo-comunisti” o “post-comunisti” si considerano provvisorie, ritengono che la battaglia per una presenza comunista consistente nel nostro Paese sia ormai persa. Basti pensare che l’on. Fausto Bertinotti, fino all’altro ieri “padre padrone” di Rifondazione comunista e candidato “premier” della “Sinistra Arcobaleno”, ha sostenuto, durante la campagna elettorale, che nel soggetto unitario della sinistra italiana ch’egli si apprestava a fondare – elettori permettendo – il comunismo sarebbe stato solo una “tendenza culturale” tra le altre. Insomma, una sorta di “riserva indiana” per vecchi rimbambiti. Ma gli elettori non hanno permesso che ciò avvenisse. Tutti dovrebbero prenderne atto. La “Sinistra Arlecchino” è stata travolta e non è più proponibile, in nessuna forma: soggetto unico,  plurimo, confederazione, ecc.
Così come appare evidente che, alla luce dei risultati elettorali, insistere nello spezzettamento della presenza comunista in due o più partitini significa rinunciare ad una forza incisiva. Ai militanti non interessano le beghe tra “colonnelli” senza esercito, che tradiscono scarso senso di responsabilità. Migliaia di simpatizzanti stanno firmando in questi giorni, un appello per una “costituente comunista”, che dia vita ad un unico Partito comunista. Si tratta non solo di intellettuali, ma anche di rappresentanti sindacali di fabbrica, di semplici cittadini, che non vogliono assistere impotenti alle liti tra “dirigenti di se stessi” e alla scomparsa di un Partito comunista di massa nel nostro Paese.
Crediamo che questa sia l’unica strada da seguire. Diliberto, a nome del Partito dei Comunisti Italiani, ha dato la sua disponibilità. Franco Giordano, Nicki Vendola, Paolo Ferrero, Claudio Grassi, a nome delle varie “correnti” e “sottocorrenti” in cui si divide quel che resta di Rifondazione comunista, hanno detto un chiaro “no”. Naturalmente il processo costituente impone, per chi vi partecipa, di mettersi in discussione, di mettere da parte alambicchi e bilancini, equilibri sottili, giochi di potere, difesa ad oltranza di poltrone, reali o presunte.
Bisogna ripartire da zero, con pazienza e umiltà. E’ necessario radicare il partito nel territorio, abbandonando il cosiddetto “movimentismo”, essere presenti nei posti di lavoro, in mezzo alla gente, per spiegare che chi vota per la Lega e per Berlusconi ingrassa il proprio padrone, che ha interesse a sfruttare gli operai, non a renderli partecipi della ricchezza prodotta. Per spiegare che la lotta di classe esiste, perché i lavoratori continuano a morire sul lavoro, a causa della mancanza di misure di sicurezza adeguate, che spetta ai padroni predisporre. Per spiegare, infine, che senza una forza comunista, come forza autonoma e auto-organizzata dei lavoratori, non si va da nessuna parte.
Punto di riferimento ideologico rimane il pensiero di Antonio Gramsci, conosciuto e studiato in tutto il mondo, ma forse troppo dimenticato o – peggio – fatto oggetto di mistificazioni e strumentalizzazioni da noi, come hanno dimostrato certe vicende poco edificanti cui abbiamo assistito in occasione del recente centenario gramsciano.

Antonio Catalfamo
Direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina)