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I comunisti e la questione sindacale

Proposta per un convegno

Negli ultimi mesi, complici gli avvenimenti politici dalla crisi fino alla caduta del governo Prodi, si è tornati a parlare diffusamente dei “comunisti e la questione sindacale”. Dentro e fuori i due partiti comunisti ex-parlamentari (PRC e PdCI) questo nodo viene posto nuovamente come una delle questioni centrali per “recuperare” il consenso della classe operaia e di quegli ampi settori salariati che, in termini meramente elettorali, non sembrano più essere “base di riferimento” certa delle idee e dell’azione dei comunisti.  Va registrato che questo dibattito, ancora disorganico e confuso, sta portando diverse componenti politiche e sindacali a riporre con forza la questione dell’unità ma anche della necessità di un percorso verso la (ri)costruzione di un sindacato di classe.  Va detto anche che, dopo anni di abbandono di questo importante terreno d’intervento, spesso le formulazioni che emergono risultano ancora talvolta velleitarie e altre volte schematiche. Sarà, però, forse utile sfruttare l’occasione per tentare di rimettere al centro di questo dibattito alcune questioni di fondo che contribuiscano a una corretta impostazione del complesso problema della relazione tra l’azione dei comunisti e la questione sindacale oggi.
D’altronde, al di là degli innamoramenti “nuovisti” e post-moderni che hanno pervaso in particolare il PRC degli ultimi anni, i sindacati sembrano continuare ad essere tra i principali (anche se non esclusivi) “organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici”, per usare la terminologia del Gramsci delle Tesi di Lione.
Già a quei tempi, l’azione nei sindacati era considerata come essenziale per il raggiungimento dei fini del Partito.
Per sgomberare il campo da confusioni e strumentalizzazioni, il tentativo dei comunisti di conquistarsi un’egemonia e una direzione nel lavoro sindacale non era visto allora né come mero tentativo di conquistare le “segreterie” né tantomeno come un serbatoio dove fare unicamente “proselitismo”.  
Per la direzione gramsciana del PCdI “l’azione nei sindacati assume una particolare importanza perché consente di lavorare con intensità più grave e con risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio nei confronti con le altre classi sociali. Il compito di unificare le forze del
proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta”.  Per i comunisti l’unità della classe lavoratrice, anche attraverso l’azione dei sindacati, è sempre stato quindi un obiettivo concreto e prioritario per contrastare l’azione disgregante delle ristrutturazioni capitalistiche dovute a due fattori distinti e collegati: le necessità di “razionalizzazione” intime all’estensione del mercato capitalistico e il tentativo di indebolimento e atomizzazione della classe dei salariati per indebolirne le sue potenzialità di resistenza e, in prospettiva, rivoluzionarie.
Quindi, dovrebbe essere patrimonio comune il fatto che i comunisti “per
raggiungere questo scopo soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare
gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e
incomprensioni fuori luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori
dell’unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua
liberazione”. In questa impostazione gramsciana (e leniniana), i comunisti non avevano una
“ricetta” valida per sempre, ma adattavano questi principi generali alle   condizioni date ed ai rapporti di forza.
Ad esempio, è interessante osservare il metodo con cui i comunisti affrontavano la frammentazione sindacale, un problema che anche allora affliggeva il movimento operaio italiano seppure in maniera quantitativamente e qualitativamente differente dall’oggi. L’indicazione di Partito era quella di essere presenti in ogni sindacato che  permettesse di organizzare la lotta facendosi, all’interno, portatori principali dell’unità
sindacale nell’azione e, qualora possibile, anche nell’organizzazione.
Non veniva proposto quindi di uscire da un sindacato e sceglierne uno più “combattivo”, ma di organizzare i comunisti presenti in tutti i sindacati secondo principi condivisi (vedi le “Tesi Sindacali” collegate alle “Tesi di
Lione”, 1926).
D’altronde, per loro stessa natura, le organizzazioni sindacali non erano
mai state considerate Lo strumento rivoluzionario del proletariato, in
quanto sono sempre state espressione di moderazione all’interno della classe
operaia, sia rispetto ai contenuti che agli obiettivi e alle forme di lotta.
Solo chi conserva velleità da “sindacalismo rivoluzionario” può stupirsi di
questa tendenza del sindacato. Oggetto della lotta sindacale non è il potere
politico, ma più “modestamente” la contrattazione della vendita della
forza-lavoro sul mercato, ossia il miglioramento parziale delle condizioni
dei lavoratori.
Tranne che in alcune particolari contingenze pre-rivoluzionarie, in cui gli
scioperi da un carattere meramente economico assumono quello direttamente
politico, il quadro e l’orizzonte entro il quale il sindacato si muove è
sempre quello dato e, all’interno di questo, opera per il miglioramento o
l’“umanizzazione” della società capitalista.
Anzi, di questa ne è uno strumento, potremmo dire, tendenzialmente
“istituzionale”.
La burocrazia che si forma attorno e nei sindacati tende a muoversi come un
vero “partito” e a contrastare qualsiasi spinta porti al protagonismo
diretto dei lavoratori e alla conquista da parte di questi di un’autonomia
di classe conflittuale e confliggente col complesso del sistema
economico-sociale vigente.
Infatti, mentre il ruolo delle burocrazie sindacali è quasi sempre quello di
garantire questo quadro di compatibilità delle lotte del movimento operaio,
un altro degli obiettivi principali del movimento comunista è che questo
controllo e contenimento delle spinte autonome della classe “sfugga di
mano”, fino a favorire in alcune fasi la costruzione di istituti proletari
direttamente nelle mani dei lavoratori in lotta e embrioni di una futura
“democrazia operaia” (ad es., i vecchi Consigli).
Non a caso è il sistema capitalistico stesso ad assicurare alle
organizzazioni sindacali confederali un ruolo “preminente” garantito con una
normativa di diritto comune che riconosce rilevanza generale agli accordi
che essi stipulano ben al di là della loro reale rappresentatività nella
classe.
Di più: in determinate condizioni, e quando la collaborazione con le
istituzioni della borghesia è giunta ad un certo livello, paradossalmente,
sempre più il “radicamento” del sindacato è visto come un ostacolo che
rischia di far rientrare (in forme a volte imprevedibili) il protagonismo
dei lavoratori dalla “finestra”, laddove era stato messo fuori dalla
“porta”, con leggi ad hoc sulla rappresentanza, sul diritto di assemblea,
sulla titolarità della contrattazione, trasformando sempre più le OOSS
confederali in Sindacati di Stato e di Servizi e non di organizzazione del
conflitto. Non a caso, nascono e si diffondono rappresentanze di base e
conflittuali che incarnano (seppur contraddittoriamente) le spinte
ineliminabili della classe lavoratrice alla conquista di una propria
autonomia dalle compatibilità imposte dal mercato capitalistico nella lotta
per la contrattazione di condizioni migliori (di sfruttamento) e nella
difesa di quelle conquiste strappate nei decenni precedenti al padronato.
Queste spinte trovarono espressione negli anni ‘60 e ‘70 nei CUB, nei
Comitati di Lotta e negli stessi Consigli di Fabbrica – almeno quando questi
nacquero e finché rimasero organismi con una autonomia marcata rispetto a
CGIL-CISL-UIL. Oggi questi spazi storici o non esistono più o sono
ridottissimi.
La deriva di molti anni ha portato il sindacalismo italiano – almeno quello
storico – al punto probabilmente più basso della sua storia: la
“concertazione” – assunta come valore assoluto e intangibile dalle tre
centrali sindacali confederali – ha comportato l’abbandono di ogni autonomia
nella rappresentanza effettiva degli interessi immediati della classe
lavoratrice che sono stati subordinati completamente alle compatibilità e
alla governabilità del sistema e, dunque, del tutto soverchiati dagli
interessi del capitale. La situazione è giunta ad un tale stato di degrado e
di distacco dalla massa dei lavoratori che da tutte le parti – con
l’eccezione, naturalmente delle burocrazie sindacali e politiche interessate
– si parla oggi della necessità del sindacato di classe. Anche in parti
della CGIL e, perfino, della CISL quest’esigenza si fa confusamente strada,
mentre dall’universo del sindacalismo di base ed extraconfederale, che da
sempre in qualche modo lo vagheggiava, vengono oggi parziali e
insoddisfacenti tentativi di superamento del settarismo e del minoritarismo
radicale che lo ha in parte caratterizzato.

I comunisti non si possono limitare a constatare questa esigenza e ad unire
semplicemente la propria voce al coro degli auspici e dei desideri. Sarebbe
sciocco pretendere di far cominciare la storia da se stessi, e non basta
prendersela con la “concertazione”: essa è l’effetto, la conseguenza
coerente di scelte politiche più antiche e di ben più vasta portata. Non è
sufficiente, allora, contrastare l’effetto e chiederne il superamento: è
necessario individuarne le cause e combattere con decisione le scelte
strategiche che l’hanno determinata.
La natura compromissoria dell’organizzazione sindacale è stato certamente il
terreno di coltura in cui ha trovato alimento la mala pianta della
collaborazione di classe e del neocorporativismo. È importante per i
comunisti comprendere questo perché non esiste un vaccino immunizzante in
senso assoluto dalla tendenza opportunista del sindacato: l’insidia è
costantemente presente e soltanto la direzione politica e vigile dei
comunisti può contrastarne in ogni momento la sua riproduzione. Questa
verità, se attribuisce precise responsabilità storiche alla direzione del
PCI e alla sciagurata scelta della “autonomia” tra direzione sindacale e
quella politica, non assolve i gruppi dirigenti “comunisti” – di maggioranza
come di “opposizione” – che hanno preteso di succedere al disciolto partito:
essi si sono semplicemente disinteressati della questione. Ma è anche
importante monito per quei compagni che si illudono ancora di poter dar vita
ad una organizzazione sindacale “di classe” senza porsi – contemporaneamente
– anche la questione della sua direzione politica: il partito. Lo stesso
monito va anche a quei comunisti che straparlano di “ri-rifondazioni” o di
unità dei comunisti trascurando di nuovo la questione sindacale. Questo
errore fu già fatto da Cossutta, Garavini e soci ed è stato reiterato in
questi anni da Bertinotti e Diliberto in pieno accordo con tutti i loro
gruppi dirigenti. L’esito lo conosciamo.
In secondo luogo va chiarito che l’origine della deriva collaborazionista
non ha inizio nel ‘93 con la nascita ufficiale della “concertazione”, ma è
di molti anni antecedente. Di solito si tende a far risalire la politica di
collaborazione di classe del sindacato alla cosiddetta “svolta dell’EUR”.
Datare in modo preciso un fenomeno della storia o della politica è
sicuramente poco dialettico. Se si vuole indicare l’atto formale da cui
discendono comportamenti e atti altrettanto formali, lo spartiacque è
effettivamente quello: ma l’EUR fu l’atto conclusivo di una lunga sequenza
di scelte e comportamenti volti a chiudere definitivamente il lungo ciclo di
lotte operaie – molto forti e partecipate, culminate nelle grandi
mobilitazioni del ‘69-‘70 – che avevano scosso il potere del Capitale,
affermato l’autonomia politica e organizzativa della classe e gettato una
preoccupante (per il capitale stesso) ipoteca sul futuro. Già all’indomani
del cosiddetto “autunno caldo” ci furono il sabotaggio e la negazione
dell’unità sindacale, il riassorbimento e lo smantellamento dei consigli di
fabbrica – visti, giustamente, come pericolosi strumenti di rappresentanza
diretta e di autonomia della classe – e la riconduzione della volontà e
della rappresentanza operaia sotto il controllo delle burocrazie sindacali,
la lenta e inesorabile vanificazione delle conquiste salariali e normative,
il subdolo smembramento dell’unità realizzata sul campo.
Non si trattò di perfidia o di semplice tradimento dei dirigenti sindacali:
fu anche la scelta di arrendersi opportunisticamente a esigenze oggettive
lette e accettate dal punto di vista dell’avversario, percepite e assunte
come inevitabili poiché da tempo si era già rinunziato alla propria
autonomia critica.
La ristrutturazione era necessità indifferibile del capitale e richiedeva
prezzi elevatissimi che la classe non avrebbe accettato di pagare. Occorreva
minarne la combattività, strappandole parte del suo potenziale, dividendola,
togliendole gli strumenti di decisione e di lotta, circuendola se possibile,
reprimendola violentemente se necessario. Il “compromesso storico” e
l’assunzione del PCI nell’area di governo fu fattore decisivo che ebbe
pesanti e diretti riflessi sul scelte delle direzioni confederali e fornì
improbabili ma ben orchestrate suggestioni alla massa dei lavoratori.
Sull’altro versante gli “anni di piombo” offrirono una opportunità ideale
per provvedimenti e iniziative repressive e intimidatrici, ma anche per
sussumere ideologicamente il mondo del lavoro nella “difesa dello Stato
democratico”. Il PCI e il sindacato confederale si fecero coscientemente
strumento di questa strategia, ad un tempo violenta e surrettizia, radicata
nella visione di una socialdemocrazia subordinata e di accatto.
La “svolta dell’EUR” è, allora, soltanto il punto di approdo e di ripartenza
di questa strategia che ha come posta il recupero integrale della
“governabilità” e la totale subordinazione della classe operaia, che lascia
mano libera al capitale in cambio di un simulacro di compartecipazione e di
un inarrestabile scivolamento verso l’immiserimento e la sudditanza.
Da quella “svolta” diventa visibile una strategia a tutto campo che
progressivamente e inesorabilmente disgrega, scompone e cambia la classe
operaia e l’intero mondo del lavoro. Importantissimi sono i comportamenti e
le connivenze dei gruppi dirigenti di sindacati e partiti, ma gli esiti
devastanti sono conseguenza di fatti molto concreti come la ristrutturazione
e la riorganizzazione capitalistica, lo smantellamento di gran parte del
tessuto produttivo e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro,
delocalizzazioni ed esportazione di capitali, spostamento di risorse verso
piccole e marginali unità produttive, privatizzazioni e concentrazioni di
enormi risorse nelle mani del capitale speculativo. Alla riappropriazione
surrettizia della rappresentanza esclusiva da parte delle burocrazie
sindacali corrispondono attacchi sempre più intensi alle conquiste storiche
dei lavoratori ed una crescente precarizzazione del rapporto di lavoro,
mentre la “difesa dell’economia nazionale” viene assunta dal sindacato
confederale come valore primario in nome del quale vengono imposte la
“moderazione salariale” e una interminabile sequenza di cedimenti e rinunce.

È contraddittorio e inutile porsi il problema del “sindacato di classe”
senza porsi realisticamente da questo punto di osservazione e senza porsi
molto concretamente e decisamente in contrapposizione ad esso.
Bisogna ripartire da una analisi rigorosa per un verso – sul piano oggettivo
– dell’attuale modo di produzione capitalistico e, per altro verso – sul
piano soggettivo – dell’attuale composizione della classe.
Occorre uscire dalla gabbia del gioco di rimessa, di semplice contrasto alle
singole scelte del capitale, lanciare la sfida sulle scelte politiche
generali, misurarsi sulla strategia. Qui sta il ruolo dei comunisti, qui sta
l’esigenza del Partito: in discussione, nella nostra epoca storica, non è la
condizione di vita e di lavoro della classe operaia, non è la lotta in
difesa della propria esistenza, e neppure si pone più l’illusione di un
lento e progressivo avvicinamento ad una forma di socialismo “democratico”;
nell’epoca della crisi finale del capitale all’ordine del giorno è la
questione del potere: o il proletariato riuscirà a strapparlo alla
borghesia, o ci sarà “la comune rovina delle classi in lotta”.

La posta non è, dunque, soltanto, quella di ricostruire e disporre di
un’organizzazione sindacale di classe, ma la possibilità di gettare anche
questo strumento nella mischia dello scontro decisivo che si avvicina, per
acuire le contraddizioni, per creare condizioni più favorevoli, per farne
scuola di comunismo.
La partita si gioca, dunque, anche sul “modello di sviluppo”. Ad esso i
comunisti non hanno prestato ultimamente la necessaria attenzione: hanno
confuso la materialità dei problemi che lo sviluppo pone con la soggettività
delle soluzioni possibili, hanno assunto come oggettivo e intangibile quelle
proposte dal capitale senza contrapporvi una propria interpretazione dei
contenuti, dei modi di realizzare la crescita e dei suoi obbiettivi,
limitandosi, piuttosto, a prendere in esame e contrastarne singoli aspetti
con grande disponibilità e possibilismo, senza sfuggire, dunque, alla
visione generale e alle scelte strategiche del capitale.
La classe operaia è la classe “progressiva” per eccellenza, essa deve
governare la futura comunità liberata e deve essere perciò favorevole ad
ogni avanzamento della conoscenza e del modo di produzione che avvicina la
crisi del capitale e la società socialista, crea le condizioni strutturali
della società senza classi. I suoi interessi storici e politici debbono
coincidere, dunque, con il perseguimento di orizzonti sempre più avanzati
del sapere umano e – sul piano strutturale – dei modi di produzione che
incorporino quantità sempre maggiori di conquiste scientifiche e
tecnologiche.
Naturalmente il modo in cui queste conoscenze scientifiche e tecnologiche
vengono utilizzate nel modo di produzione, le scelte merceologiche, le
modalità dell’appropriazione della ricchezza, etc. sono altra cosa e sono
esattamente l’oggetto della lotta di classe, è anche su di esse che si
sviluppa il conflitto tra capitale e lavoro. La scienza, il sapere, sono
prodotti sociali ma – sempre più nell’epoca del capitale – sono divenute
funzioni produttive: più sapere, più scienza sono incorporate nella
produzione, maggiore socialità c’è nella produzione della ricchezza e più
stridente e contraddittoria ne è l’appropriazione privata.
Guai a equivocare su questo punto, guai a trascurare il contrasto
consapevole e intransigente sulle scelte strategiche del capitale e, dunque,
sul modello di sviluppo che esso intende perseguire; guai ad attardarsi,
invece, sulle scelte specifiche che ne derivano: si finirebbe per assumere,
di fatto, una posizione regressiva, neoluddista, impotente, destinata ad
essere sconfitta poiché è forse possibile contrastare e ritardare il
progresso, ma non è certo possibile arrestarlo o impedirlo e, intanto, si
lascia mano libera al capitale sulle modalità di fondo e gli obbiettivi
dello sviluppo. È quanto accaduto a partire dalla fine degli anni ‘70, e le
conseguenze per la classe operaia sono state devastanti.
In altri paesi la borghesia ha probabilmente ben altro spessore di quella
che governa l’Italia: essa riesce, dunque, ancora a controllare parzialmente
le conseguenze della sua crisi strutturale e, rovesciandone le conseguenze
sui popoli di tutto il mondo, è in grado di diluire maggiormente i tempi
della crisi e di prefigurare parziali “boccate di ossigeno” con processi di
massimizzazione dei profitti.
Il capitalismo italiano, storicamente meschino e miserabile e per questo
pericoloso e avvezzo alle avventure totalitarie, pur iscrivendosi tra i
primi sette o otto maggiori imperialismi del mondo, piuttosto che competere
con i più forti preferisce trarre vantaggio dal reggere il sacco ai suoi
competitori da cui mutua le linee strategiche – senza contribuire a
determinarle, senza saperle o poterle applicare integralmente –, occupa gli
spazi liberi che gli vengono lasciati, raccoglie i vantaggi che riesce a
raccattare, naviga alla retroguardia dello “sviluppo” capitalistico perdendo
fatalmente colpi nella gara con il capitalismo organicamente e coerentemente
transnazionale, anche con quelli più indietro nella graduatoria dei predoni
internazionali. Non è per caso che l’Italia ha il tasso di crescita più
basso tra tutti i paesi imperialisti, ed è sempre più a rischio di perdere
posizioni rispetto a paesi governati da un capitalismo ancora meno forte, ma
più aggressivo e attento alle tendenze del capitalismo di questo tempo.
Nel momento in cui il gigantismo dell’industria meccanica – di cui il
fordismo era stata l’espressione compiuta – attraverso una violentissima
crisi si avviava al suo epilogo e cedeva il passo ad altre forme di
organizzazione del lavoro basate su diverse e più moderne tecnologie, il
capitalismo italiano si preoccupò soprattutto di sfruttare quella crisi per
realizzare in ritardo e con modalità “improprie”, all’italiana, la
concentrazione monopolistica di interi settori industriali o, anche, per
appropriarsi – tramite le “privatizzazioni” – di comparti e di unità
produttive, o, ancora, per dimettere frettolosamente del tutto attività di
interesse strategico e con profitto differito.
Il suo modo di operare nella crisi fu il solito: arricchirsi di più e in
poco tempo, con poca fatica e poco rischio, con il sostegno dello Stato
piuttosto che con la spietata e selettiva concorrenza, senza troppi problemi
di lungo periodo o complicate implicazioni. Certo, le novità tecnologiche e
funzionali – i robot, il “toyotismo, etc. – furono introdotte, ma non si
pensò minimamente a differenziare le scelte produttive e merceologiche, non
si investì un centesimo nella ricerca né di base né applicata, si rinunziò,
anzi, a posizioni preminenti in settori di avanguardia e strategici, si
giunse a teorizzare ed enfatizzare la propria pochezza, le incapacità, i
limiti, la grettezza finanziaria, la vocazione alla subordinazione e a
razzolare nel cortile del capitalismo transnazionale.
“Piccolo è bello” fu proclamato a gran voce: mentre, nell’epoca della
mondializzazione, il capitalismo prendeva a correre a tutta e a diverse
velocità verso forme differenti, più articolate e più moderne di gigantismo,
il capitalismo italiano pretendeva di “competere” e di reggere il confronto
affidandosi ad un tessuto economico fondato in massima parte su imprese di
dimensioni ridicole e confinandosi irrimediabilmente ai margini del mercato.
E mentre il capitale transnazionale riorganizzava il suo modo di produzione
disarticolandolo, delocalizzando e dislocando ciascun segmento del ciclo
produttivo per sfruttare al meglio i diversi livelli e le differenti
velocità con cui si presenta oggi il residuale sviluppo capitalistico,
ottimizzando e coordinando ciascuna fase all’interno di una strategia e di
un orizzonte globali, i capitalisti italiani si davano da fare quasi
esclusivamente e semplicemente nel delocalizzare le proprie piccole imprese
o nel crearne di nuove nei paesi che offrivano un costo molto basso della
forza lavoro o incentivazioni fiscali.
Non solo, ma mentre gli altri concentravano intelligenze e risorse in
settori fortemente innovativi, di avanguardia e, quindi, ad alto valore
aggiunto – elettronica, informatica, energia, biotecnologie, etc. – i
maggiori capitalisti italiani mettevano al riparo i loro denari nei settori
protetti della fornitura dei servizi, garantiti da regimi tariffari imposti,
o con l’appropriazione speculativa di pezzi importanti di proprietà
pubblica. La tanto glorificata “piccola impresa”, intanto, con poche
eccezioni marginali, si andava a cacciare nella strada senza uscita della
concorrenza in settori produttivi a basso tasso tecnologico e il cui valore
aggiunto è dato prevalentemente dallo sfruttamento intensivo della
forza-lavoro, con altri paesi che in tali settori hanno condizioni di
indiscusso vantaggio. Per di più si deve tener conto che per alcuni di
questi paesi – specie in quelli a economia centralizzata, come la Cina –
l’invasione dei mercati con merci di larghissimo consumo e a prezzi
estremamente contenuti – in termini di vero e proprio “dumping” – è
funzionale ad una ben precisa strategia che mira ad imporre la loro presenza
sui mercati internazionali, a rastrellare risorse economiche e creare
condizioni finanziarie e monetarie favorevoli al disegno strategico che vede
acquisizione di know how e risorse da investire in settori avanzati
tecnologicamente e ad alto valore aggiunto. In Italia, invece, l’anarchia
tipica dell’economia capitalistica – aggravata dalla parcellizzazione dei
capitali e delle imprese e mascherata dietro la fandonia del liberismo
economico del “mercato” – lascia irrimediabilmente senza orizzonte e senza
speranza il futuro dell’economia.

Certo questo non deve lasciar spazio all’idea errata dell’imperialismo
italiano come “straccione” e magari “poco pericoloso”. Anzi, proprio a
partire dalle sue debolezze strutturali l’Italia è diventata una potenza
economica imperialista competitiva e con una sua aggressività anche militare
(il terzo paese al mondo per numero di militari impegnati in missioni
all’estero).
Il suo modello più aggressivo sui mercati internazionali è sicuramente
rappresentato da una serie di imprese transnazionali che operano in quei
settori legati soprattutto all’apparato militare-industriale come avviene
comunemente anche in altre potenze mondiali (vedi imperialismo USA) in
questo periodo di crisi strutturale del capitalismo. Con questo non si pensi
solo alle aziende capitalistiche che producono armamenti e tecnologie di uso
bellico (nei cui settori, con imprese tipo Beretta o le aziende del gruppo
Finmeccanica, l’Italia è un paese all’avanguardia). Ma anche a tutto ciò che
vi ruota attorno. Infatti, le imprese capitalistiche del Belpaese figurano
ai vertici del mercato nelle Telecomunicazioni (Telecom), costruzioni
(Italcementi), oltre al settore bancario, ecc…
Certo, chiarito questo, va tenuto in conto che – a parte alcuni segmenti
importanti come elettrodomestici, auto e beni di lusso – il capitalismo
italiano sconta, tuttavia, delle debolezze strutturali in alcuni settori
importanti della produzione per i motivi precedentemente enunciati.
Soprattutto in alcuni settori in cui negli anni dell’avvio delle
delocalizzazioni (a partire dalla metà-fine degli anni ‘70) il capitalismo
italiano ha fatto scelte strategiche che collocano le aziende e aziendine
più importanti in un punto della filiera internazionale che è quella
dell’assemblaggio (nella meccanica e nei ricambi, in particolare).
Questo rende una parte importante del settore produttivo nostrano altamente
“influenzabile” dagli andamenti di quei paesi (Germania in particolare) in
cui si produce e vende sul mercato il manufatto finale, così come lo rende
debole in alcuni settori che lavorano le materie prime (con l’eccezione, in
parte, del settore chimico).
Inoltre, la “periferia” interna (il sud del paese) è stata aperta all’ampia
penetrazione non solo del capitalismo familiare italiano, ma anche delle
imprese multinazionali e transnazionali di altri paesi capitalistici
avanzati (Francia, USA, Germania, Olanda e Svezia – nell’ordine – i
principali). Questo impatta moltissimo poli industriali molto sviluppati
come, ad esempio, quello laziale (in particolare nell’agro-pontino) perché
il mezzo per “invogliare” e attirare questi investimenti è stato quello
degli aiuti statali (la Cassa del Mezzogiorno arriva giusto alle porte di
Roma).
Questo ovviamente rappresenta un altro elemento di debolezza del “modello
italiano” perché, finito il periodo di “Bengodi” degli anni ’80, nel
mezzogiorno queste multinazionali estere stanno sbaraccando e
deindustrializzando la zona per spostare la produzione nell’est europeo. E
senza neanche il ricatto possibile del sequestro di terreni, stabilimenti e
macchinari perché non li hanno di fatto mai pagati!
Oggi sarebbero TUTTE le condizioni oggettive per un piccolo movimento
operaio all’argentina con l’occupazione da parte dei lavoratori disoccupati
delle fabbriche in dismissione e la loro messa in produzione autogestita
“sotto controllo operaio” (anche fosse in cooperative che chiedono aiuto
statale)… ma evidentemente anche qui non ci sono quelle soggettive nel
movimento sindacale e operaio. Altro elemento imprescindibile per il
ragionamento dell’intervento dei comunisti nella classe operaia moderna.
Ovviamente, questo modello ha un impatto sulla composizione della classe dei
lavoratori salariati oggi. Non crediamo affatto, come altri, che oggi dentro
questo tipo di ristrutturazione del modello capitalistico italiano, in atto
da oltre trent’anni, vada a scomparire o a “perdere peso” la classe dei
lavoratori produttivi. Al contrario, il fenomeno della “terziarizzazione” va
letto all’esatto opposto. Il “nanismo” del modello produttivo italiano si
caratterizza per la centralità assoluta delle grosse imprese transnazionali
sul mercato. Queste hanno ridotto le proprie dimensioni (mantenendo in casa
solo il cosiddetto Core Business), per abbattere il costo del lavoro e
precarizzare i contratti di lavoro, ma hanno diffuso sul territorio parti
della propria produzione verso una miriade di piccole e piccolissime aziende
(con lavoratori sottopagati, ultraprecari e a bassa sindacalizzazione)
attraverso politiche di esternalizzazioni, trasferimento di rami d’azienda e
outsourcing. La stragrande maggioranza delle imprese che lavorano nel
settore terziario o sono nella grande distribuzione oppure fanno servizi
all’impresa. Il risultato è che la classe dei lavoratori produttivi oggi non
è identificabile a partire dal colore della tuta e dal tipo di contratto, ad
esempio metalmeccanico, poiché quello che prima si faceva in un unico
impianto produttivo oggi si fa ancor di più in una filiera di decine di
imprese con tutti i tipi di contratto (spesso quelli del terziario o della
contrattazione cosiddetta “atipica”) fino al lavoro autonomo mascherato.
I comunisti, dunque, non possono non misurarsi con questi problemi e non
possono non accettare la sfida che le scelte avanzate, di progresso e di
crescita, comportano. Si tratta, certo, di un impegno straordinariamente
difficile e complesso a cui, però, non ci si può sottrarre: essere per le
scelte di innovazione e, ad un tempo, riuscire a contrastare il capitale nel
merito e nelle modalità delle sue applicazioni e delle sue finalizzazioni, è
impresa a cui i comunisti non sono avvezzi. E, tuttavia, non è compito
rinunciabile sia perché oggi la partita finale e decisiva con il capitale si
gioca esattamente su questo terreno, sia perché è questo il terreno su cui
essi dovranno cimentarsi una volta rovesciato il potere del capitale.
L’esperienza di questi ultimi decenni dimostra ampiamente che non aver
neppure compreso questa esigenza elementare e aver evitato lo scontro su
questo terreno rinchiudendo il proprio orizzonte e la propria iniziativa in
una linea nel migliore dei casi ideologica e, comunque, rinunciataria,
difensivista, sostanzialmente estranea a queste tematiche, ha lasciato campo
libero all’avversario. Del resto, soltanto affrontando il merito di queste
questioni sarà possibile trarre indicazioni politiche di merito e di metodo
non soltanto ideologiche e generiche, né difensive e rinunciatarie. I
comunisti debbono proporre – sempre – le proprie scelte, alternative a
quelle del capitale, e motivarle politicamente, cioè concretamente.

Ma perché è soltanto a partire dal luglio del ’92 e del ’93 che la svolta
concertativa si manifesta apertamente e massicciamente con tutta la sua
forza devastante? La risposta è principalmente una: perché è allora che
giungono a maturazione le contraddizioni sorte molti anni prima a livello
nazionale e internazionale. È assolutamente emblematico che la politica di
collaborazione con il padronato si manifesti scopertamente e in modo
incalzante a ridosso di avvenimenti epocali come l’autoscioglimento del PCI,
il “crollo del muro” di Berlino, il colpo di Stato eltziniano con la
conseguente cancellazione dell’URSS e la disgregazione di quel grande paese.
È inevitabile che – senza più alcun argine – i rapporti di forza a livello
nazionale e internazionale volgessero rapidamente e completamente a favore
del padronato e dell’imperialismo, contro il proletariato e i popoli.
I primi accordi concertativi provocarono da subito lo scontento e, anche, la
reazione di tantissimi lavoratori e di molti loro rappresentanti. La
cancellazione della scala mobile portò una vampata di ribellione contro i
vertici confederali: da un lato da parte di chi era schierato su posizioni
più radicali venne rivitalizzato e ulteriormente sviluppato il fenomeno del
sindacalismo di base, autorganizzato o, comunque, autonomo dalle tre
centrali sindacali; dall’altro da quello che restava dei consigli di
fabbrica e da iscritti alla CGIL venne un ultimo bagliore di autonomia dalle
burocrazie sindacali con il movimento degli autoconvocati.
Reazioni veementi, ma lasciate volutamente nella marginalità di uno sfogo
privo di orizzonti e di sostegno. Un esempio per tutti: in un’assemblea
nazionale a Roma di delegati autoconvocati Sergio Garavini – ex esponente di
primo piano della CGIL e segretario della neonata Rifondazione – non si
spinse oltre il saluto, il sostegno, l’auspicio, etc, etc.
Esaurito l’abbrivio di quella reazione si aprirono autostrade alla politica
della concertazione, in un crescendo di accordi e di provvedimenti
legislativi che hanno segnato il doloroso percorso della classe lavoratrice
con le macerie di tutte le maggiori conquiste di anni e anni di lotte. Oltre
all’abolizione della scala mobile, “uguale lavoro-meno salario”,
regolamentazione e limitazione del diritto di sciopero, gabbie salariali,
contratti d’area, “pacchetto Treu” (con il voto anche dei “comunisti”!),
Legge 30, Protocollo sul Welfare, etc. etc.: la debole resistenza delle
minoranze interne al sindacato confederale e del sindacalismo autorganizzato
e di base non è riuscita in tanti anni ad arginare questo crescendo
disastroso e neppure ad intercettare e organizzare in modo significativo il
malumore e il distacco crescenti della massa dei lavoratori. E, tuttavia,
essa ha testimoniato e tiene viva ancora oggi la speranza e la possibilità
di una ripresa.

Ed è da questa realtà che i comunisti debbono ripartire per ricostruire il
sindacato di classe in Italia. Una realtà con due gambe, ma che può e deve
riconoscersi in un’unica anima.
Da un lato sono i compagni e i lavoratori ostinatamente legati alla storia e
alle migliori tradizioni del sindacalismo italiano e che, fino ad oggi, non
hanno voluto vedere come quel glorioso sindacato – la CGIL – abbia da tempo
abbandonato il terreno di classe e sia andata molto, troppo, avanti nella
sua mutazione genetica, e si collochi sicuramente ormai agli antipodi della
sua tradizione storica: neppure la CGL di D’Aragona (che, pure, aveva
contrastato il movimento gramsciano dei consigli contribuendo non poco alla
sua sconfitta) era mai giunta così lontano. Oggi perfino le semplici
funzioni – tipiche del sindacato – vertenziale e contrattuale vengono
tralasciate o ferreamente subordinate alle compatibilità, alla stabilità,
alla governabilità assunte come riferimenti aprioristici e intangibili: la
conflittualità è accuratamente evitata, gli spazi di agibilità sono sempre
più apparenti e condizionati dal moderatismo e dalla legittimazione delle
direzioni, lo sciopero è sempre più mera finzione rituale e di facciata. Gli
apparati dirigenti sono ormai svincolati dalla massa dei lavoratori, anche
di quelli iscritti, che non hanno più validi strumenti, se non per
partecipare democraticamente ai processi decisionali, almeno per esercitare
pressione e condizionamento sui vertici: il sindacato che si è fatto
funzione dello Stato trae ormai da esso e non dai lavoratori la sua
legittimazione e le fonti stesse della sua sopravvivenza. Già un sindacato
che vede tanta parte dei suoi iscritti tra i pensionati è un sindacato
debole, che non ha forza contrattuale verso i datori di lavoro perché non
può incidere, non può colpire la controparte nei suoi interessi che sono
legati alla produzione e al profitto. E, poi, un sindacato che gestisce
direttamente servizi o cogestisce con controparte e Stato enti e istituti
contrattuali ha altrove il baricentro della sua attività, del suo potere,
dei suoi interessi. Infine, se da queste attività di gestione e
partecipazione trae importanti fonti di finanziamento, il sindacato è
svicolato dalla sua base anche per le risorse economiche che non vengono più
esclusivamente o maggioritariamente dal tesseramento. Il ruolo che
sistematicamente giocano da sempre – con l’eccezione di qualche frangia non
significativa – la CISL e la UIL (utilizzando in modo ricattatorio il
simulacro dell’“unità sindacale” o andando perfino a realizzare accordi
separati) fa il resto.
Si spiega, allora, perché in tutti questi anni, via via che la mutazione
procedeva, i comunisti hanno trovato crescenti difficoltà a tentare, se non
di contrastare, almeno di “influenzare” o condizionare i gruppi dirigenti:
privi del loro partito (dunque, senza una strategia né uno straccio di
orientamento politico complessivo), prigionieri delle organizzazioni
politiche in cui intanto militavano, condizionati pesantemente dalla propria
formazione, dalla storia, dalla fiducia sconfinata, spesso da fattori
emotivi o esistenziali a cui, talvolta, non era estranea una dose di
opportunismo, questi comunisti son passati da un insuccesso ad un altro,
hanno inanellato un numero incredibile di illusioni e di delusioni. Oggi
queste illusioni rischiano di rigenerarsi all’infinito e trovano nuovo
alimento sia nella crisi interna al PD sia nel radicalismo formale - ancora
intriso di mero ecumenismo in quanto a indicazioni concrete - proclamato
nelle conclusioni dei congressi di PRC e PdCI.
Di nuovo, quindi, la partita si gioca sul piano politico, non su quello
rivendicativo o organizzativo. Ancor di più oggi che i vertici della CGIL
hanno, una volta di più, fatto una chiara scelta di campo sposando
integralmente e acriticamente la strategia e la linea social-liberiste del
PD, accettando di pagare il prezzo altissimo di un distacco ormai palese con
la massa dei lavoratori, abbandonando – di fatto – al suo destino l’universo
enorme e variegato del precariato e rischiando il rapporto con la categoria
storicamente più avanzata e che si organizza nella FIOM.
Proprio dalla crisi tra CGIL e FIOM e di fronte al precipitare dei più
recenti avvenimenti alcuni compagni hanno immaginato che la strada della
ricostruzione del sindacato di classe possa passare per l’unica strada – più
semplice, ma inconcludente – che i comunisti italiani sembrano conoscere:
l’ennesima separazione. A problemi difficili non esistono soluzioni facili.
E, invece di scegliere scorciatoie già tentate mille volte con magri
risultati, occorre impegnarsi – all’opposto – per unire la classe e
sconfiggere politicamente l’opportunismo e il neocorporativismo sul terreno
politico, sui contenuti, nel confronto serrato e intransigente.

Dall’altro lato i lavoratori e i compagni che, in momenti diversi, hanno
reciso i legami politici e organizzativi con il sindacalismo confederale
dando vita o aderendo a numerose organizzazioni che si sono contrapposte e
hanno tentato in questi anni di costituire l’alternativa “di classe” alla
deriva concertativa della CGIL. Un piccolo universo molto variegato, in cui
è sempre molto visibile una sorta di revanscismo anticonfederale, composto
di organismi di media grandezza e di altri molto piccoli e, talvolta, su
basi soltanto locali.
C’è di tutto: da posizioni residuali dell’“autonomia operaia”,
all’anarcosindacalismo e al pansindacalismo, ma anche sinceri sforzi di
mantenere la barra delle lotte economiche su una rotta politica comunista,
ma che, però, debbono pagare un prezzo molto elevato – nella linea e nel
seguito – alla mancanza del partito. Tutti si caratterizzano – in forte e
dichiarata polemica con il sindacalismo tradizionale – per la radicalità
delle rivendicazioni e per una urlata democrazia interna (qualcuno è giunto
a teorizzare il “sindacato senza sindacalisti”!). Le sue origini sono
lontane nel tempo e le sue vicende hanno risentito delle condizioni diverse
dello scontro di classe nelle varie fasi. Ma, al di là di qualche eco di
questi differenti trascorsi, le attuali organizzazioni sindacali
autorganizzate o “di base” sono indissolubilmente legate proprio alla deriva
apertamente concertativa di CGIL-CISL-UIL che si palesa agli inizi degli
anni ‘90.
In esse si raccolgono solo in parte il malumore e, in parte ancora minore,
le spinte autonome della classe. Raccolgono adesioni – a volte
significative, ma quasi mai decisive – nel pubblico impiego o – sicuramente
minoritarie e marginali (con qualche eccezione, naturalmente) – in singole
unità manifatturiere. Più in generale – e può essere significativo – i
maggiori consensi vengono generalmente o da categorie e unità lavorative con
un livello relativamente basso di sindacalizzazione, oppure là dove il
sindacato confederale lascia paurosi spazi, come nell’universo del lavoro
precario.
Una buona parte del loro mancato “sfondamento” è dovuta all’immagine di sé
che proiettano tra i lavoratori: troppi e spesso troppo simili tra loro;
eppure troppo litigiosi e divisi; non di rado aprioristicamente alternativi,
“separati” dal sindacato confederale (e non soltanto dai suoi vertici). I
lavoratori, nel loro straordinario senso della concretezza, hanno ben
radicato e chiarissimo il concetto di unità, della sua irrinunciabile e
primaria esigenza, unico mezzo per mettere in discussione e rovesciare il
rapporto di forze con il padronato. È del tutto logico, allora, che non
vedano di buon occhio e, anzi, diffidino di chi si pone da un punto di vista
minoritario e saccente predicando le proprie certezze, per quanto
accattivanti esse siano. Il radicalismo rivendicativo non è tutto, specie
quando manca di realismo, e le requisitorie contro i metodi antidemocratici
non scalfiscono l’esigenza di unità e di concretezza. Le rare volte che
l’invettiva infuocata ha ceduto il posto alla sfida ragionata sui contenuti
e sulle modalità della lotta – con posta dichiarata l’unità –, quando i
dirigenti confederali sono stati stanati e incalzati davanti alla loro
stessa base su precise proposte unitarie, son dovuti arretrare e i risultati
sono stati certamente apprezzabili.
Anni di esperienza hanno reso evidenti questi limiti che hanno impedito al
sindacalismo extraconfederale di crescere ulteriormente e scalzare
l’egemonia inerziale di CGIL-CISL-UIL. Recentemente da alcune di queste
organizzazioni è venuto qualche timido e contraddittorio segnale volto a
superare in parte la frammentazione. È senz’altro un primo positivo sintomo
di inversione di tendenza. E, tuttavia, bisognerebbe che ci si liberasse
delle persistenti tentazioni egemoniche e del tentativo di escludere da
questo processo una parte delle esperienze extraconfederali; che si
procedesse – da parte di tutti – ad una profonda e spietata lettura
autocritica delle diverse esperienze; che si evitassero nuove suggestioni e
scorciatoie organizzativistiche decise da ristretti gruppi dirigenti; che si
partisse dai contenuti su cui costruire il processo unitario; che si facesse
un’apertura decisa a quanti nella CGIL e negli altri sindacati confederali
vivono con profondo disagio questa loro appartenenza senza riuscire ad avere
un ruolo; che si delineassero modalità e forme della rappresentanza, dirette
e capaci di coinvolgere nei processi decisionali e nei percorsi di lotta
l’intera classe; che si delineasse chiaramente quale tipo di sindacato è
necessario e possibile nell’epoca della mondializzazione, evitando di
ricostruire modelli politici e organizzativi ormai superati.
Il processo di ricostruzione di un sindacato di classe in Italia non può
fare a meno di nessuna energia positiva, deve marciare su due gambe: di chi
ancora soffre la sua militanza nel sindacato confederale e su chi ha pensato
di liberare questa militanza organizzandosi all’esterno. Deve avere come il
bene più prezioso e come bussola per orientarsi l’unità della classe da
conquistare sui contenuti concreti e nella sfida ravvicinata con le
posizioni opportuniste e neocorporative. Deve liberare la forza e la
creatività che sono imprigionate nella classe per definire e costruire il
tipo di organizzazione corrispondente alle esigenze del nostro tempo.
È su questo terreno che i comunisti debbono operare all’interno della
questione sindacale, non certamente partecipare alla zuffa di chi sia il più
bravo, il più radicale, il più anticoncertativo e il più “democratico”.
La mancanza del partito dei comunisti complica maledettamente la questione.
Ma è il dato reale da cui lucidamente partire. Sarebbe opportunista e
perdente rinunciare per questo motivo, e sarebbe sciocco e colpevole
baloccarsi con le priorità. Non si tratta di risolvere lo stupido
indovinello se sia meglio l’uovo o la gallina: in gioco c’è la
riorganizzazione del movimento operaio e i suoi destini storici, la capacità
di contrastare e rovesciare il capitale, c’è la prospettiva del potere e del
socialismo. Senza avvilirsi per rinunciare, senza semplificare per scegliere
soluzioni a portata di mano, bisogna farsi carico di entrambi i problemi
che, del resto sono dialetticamente legati e che, dunque, possono essere
affrontati e avviati a soluzioni solo in modo dialettico.
Per i comunisti, allora, costituente comunista e costituente sindacale sono
due parti dello stesso processo che ha per oggetto e posta la
riorganizzazione della classe e, quindi, sotto la sua direzione, la
creazione di un vasto blocco sociale anticapitalista.
I comunisti debbono essere punto di riferimento, avanguardie e
rappresentanti dei lavoratori e degli operai in tutti i luoghi di lavoro,
lavorando alla radicalizzazione delle lotte, delle rivendicazioni e del
conflitto di classe proprio a partire dall’elaborazione di una comune
strategia di intervento e mobilitazione permanente articolata intorno a
piattaforme unificanti e condivise, al di là della attuale collocazione
sindacale di ciascuno, da far vivere in e da quel conflitto.
Ma, allora, bisogna costruire un sindacato dei comunisti o di comunisti?
Assolutamente no.
Il tema dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, dell’organizzazione
delle loro avanguardie sindacali si pone su basi diverse da quello della
costruzione della loro avanguardia politica. Il terreno sindacale è il primo
terreno su cui un lavoratore sente il bisogno di organizzarsi e, dunque, il
sindacato non può funzionare su base ideologica e i comunisti possono e
debbono dirigerlo soltanto sulla base delle scelte e delle proposte che essi
elaborano e che propongono agli iscritti del sindacato e alla massa dei
lavoratori e su quelle – soltanto su quelle – ne conquistano e ne conservano
la fiducia.
La questione sindacale è forse il primo punto di programma per una vera
costituente comunista, al di là delle forme concrete che questa costituente
va assumendo. Non ci sono altre scorciatoie per affrontare il tema
dell’insediamento sociale dei comunisti.
Nei prossimi anni, dunque, le principali sfide per la sinistra di classe
italiana saranno due: la costituente comunista e la costituente sindacale.
Non c’è partito rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, ma una teoria
rivoluzionaria è nulla se non serve a meglio organizzare l’avanguardia della
classe che è il reale soggetto rivoluzionario e di cui il partito e il
sindacato rappresentano i pilastri fondamentali.
Con il ‘900 sono finiti i bizantinismi intellettuali del post ‘89.
Fortunatamente il muro di Berlino ha esaurito le sue pietre e non cadono più
in testa alla sinistra occidentale quei mattoni che sono stati forse la
ragione materiale che l’ha rincretinita per tutti gli anni ‘90.

1) Andrea Fioretti, Assemblea dei lavoratori autoconvocati/Comunisti Uniti
Lazio (ROMA);
2) Francesco Fumarola, Assemblea dei lavoratori autoconvocati/Comunisti
Uniti Lazio (ROMA);
3) Riccardo De Angelis, RSU Telecom/Comunisti Uniti Lazio (ROMA);
4) Renato Caputo, coordinamento insegnanti/Comunisti Uniti Lazio (ROMA);
5) Francesco Cori, coordinamento insegnanti precari/Comunisti Uniti Lazio
(Roma);
6) Alberto Pantaloni, Assemblea dei lavoratori autoconvocati/Comitato
comunista “Teresa Noce” (TORINO);
7) Vincenzo Graziano, collettivo dei lavoratori Comdata/Comitato comunista
”Teresa Noce” (TORINO);
8) Giacomo Verrani, assemblea dei lavoratori autoconvocati/comitato
comunista Teresa Noce (Novara);
9) Massimiliano Murgo, RSU Marcegaglia Building/Comitato comunista “Teresa
Noce” (Sesto S. Giovanni - MI);
10) Sergio Manes, Centro Culturale “La Città del Sole” (NAPOLI).

19 ottobre 2008