Un commento del giornale dei comunisti portoghesi, trent’anni dopo.
Parlare a nuora perché suocera intenda.
di Jorge Cadima
Senza grande clamore sui media internazionali, il più grande
partito sorto dalla liquidazione del Partito Comunista Italiano - i
Democratici di Sinistra (DS) - ha concluso il suo ultimo Congresso. I
dirigenti dei DS, in buona parte gli stessi che nel 1989 sciolsero il
più grande partito comunista dell’Europa occidentale, hanno
deciso ora di fare lo stesso con il più consistente partito
italiano dell’Internazionale Socialista (IS), per procedere alla
fusione con il maggiore dei partiti eredi della vecchia Democrazia
Cristiana, la Margherita.
I commentatori italiani più caustici hanno già definito
questa nuova operazione trasformista come il “compromesso storico
bonsai”. A scanso d’equivoci, il nuovo partito non si chiamerà
più di “sinistra”, ma solo Partito Democratico. I dirigenti
della Margherita hanno garantito che esso non aderirà né
all’IS, né al Partito Socialista Europeo. E nel suo documento
programmatico scompare qualsiasi pretesa di essere una forza politica
rappresentativa del mondo del lavoro.
Chi abbia l’età sufficiente, ricorderà certamente come
una delle direttrici di attacco contro il Partito comunista portoghese
(PCP) - dopo il 25 Aprile della Rivoluzione dei Garofani - consistette
nel contrapporre il PCP al PCI. Quest’ultimo, che a metà degli
anni ’70 era giunto a superare la soglia del 30% dei voti, veniva
rappresentato come una forza comunista “moderna”, “democratica” e
“flessibile”, che – “diversamente dal PCP” – era destinata a breve a
crescere ancora. Se si considera, in verità, che buona parte dei
dirigenti che ora hanno liquidato i DS (Fassino, D’Alema, Veltroni…)
erano a quel tempo già dirigenti del PCI, difficilmente oggi si
potrebbe negare che questi “buoni comunisti” non erano in realtà
neppure socialdemocratici...
Per decenni si è cercato in vari modi di convincerci a seguire
“l’esempio italiano”. Si insisteva sulla necessità per il PCP di
“attualizzarsi” e “rinnovarsi” per potere, così si diceva,
“garantire il futuro della sinistra e del comunismo”. Era necessario
“riflettere” e “ripensare”. Più di trent’anni di “riflessioni”,
di “ripensamenti” e “modernizzazioni” hanno condotto infine i
principali dirigenti dell’ex PCI alla conclusione che essi non volevano
più essere né comunisti, né socialisti, né
laburisti o socialdemocratici, e neppure genericamente di “sinistra”.
Essi intendevano solo, e lo sono diventati, essere i rappresentanti
politici del grande capitale italiano, alleati sicuri dell’imperialismo
nordamericano ed europeo.
E non si pensi che questa affermazione sia il frutto di settarismo o di
malanimo. E’ stato lo stesso Massimo D’Alema, attuale Ministro degli
Esteri italiano, dopo essere stato Primo Ministro dal 1998 al 2000, a
chiarire le condizioni per cui giunse a tale incarico: dopo la caduta
del primo governo di centro-sinistra guidato da Prodi - che ora
è di nuovo Primo Ministro - nel 1998, “era assolutamente
impossibile andare a nuove elezioni” perché “esisteva uno stato
di necessità più generale”. L’ultimo atto di Romano
Prodi, il 12 ottobre, era stato infatti quello di firmare gli
activation orders della Nato: l’intervento militare nel Kosovo avrebbe
avuto inizio da lì a pochi giorni. Non era concepibile – sono
parole dello stesso D’Alema, divenuto in quel frangente Primo Ministro
- che l’Italia, un paese ormai praticamente in guerra, andasse ad
elezioni anticipate”.
E’ triste vedere un grande Partito, che ha scritto pagine di storia di
innegabile eroismo e che tanto ha contribuito all’emancipazione sociale
dei lavoratori italiani, essere demolito da piccola gente, la cui
maggiore ambizione si è infine rivelata quella di diventare i
paladini dei signori della guerra e del capitale.
Ci sono molte lezioni da trarre da questa storia. Ma sarà
difficile non concludere quanto sia stato un bene per i lavoratori e il
popolo portoghesi che il PCP non si sia fatto sedurre dal canto delle
sirene dell’ “esempio italiano”.
In “Avante”, 10 maggio 2007. Pubblicato su l’Ernesto, n.3-4, 2007