La fabbrica del falso

di Vladimiro Giacché*

1. Retorica antica e menzogne moderne

Questa rivista ha denunciato più volte la sistematica opera di  deformazione della realtà posta in essere - in modo sempre più 
smaccato - dall´informazione "ufficiale".

Tra tutti i metodi utilizzati per distorcere e "addomesticare" la  verità, ce n´è uno oggi particolarmente in voga. Possiamo definirlo 
il "metodo della sineddoche indebita". La "sineddoche" è una figura  retorica ben nota già ai maestri di eloquenza dell´antichità. Nella 
sua variante più usata, essa consiste nell´adoperare la parte di una  cosa per designare la cosa nella sua interezza (pars pro toto). Così, 
nell´espressione "accolse sotto il suo tetto", il termine "tetto"  indica la casa nel suo insieme. Si tratta di un modo di esprimersi 
che può essere letterariamente efficace, e che comunque nel caso  specifico non è improprio: infatti il tetto è una parte essenziale 
della casa.

Spostiamoci adesso dal mondo delle belle lettere e passiamo a quello  della cattiva informazione. È qui che ci imbattiamo nella sineddoche 
indebita. Che consiste nel trascegliere, all´interno di un fenomeno  complesso, un elemento irrilevante (e comunque non caratterizzante) 
ed utilizzarlo quale elemento qualificante per descrivere e definire  quel fenomeno. Sembra una cosa un po´ astrusa, invece è 
concretissima. È il metodo che la stampa italiana, nella sua quasi  totalità, ha adoperato a proposito di almeno tre diverse recenti 
manifestazioni di protesta.

2. La realtà inventata: 3 episodi significativi

Primo episodio. Manifestazione del 20 marzo 2004: 1 milione di  persone in piazza a Roma contro la guerra in una grande 
manifestazione pacifica. Al termine della manifestazione, un piccolo   gruppo di manifestanti (10 persone? 20 persone?) inveisce contro il 
segretario dei DS Fassino, colpevole ai loro occhi (e a dire il vero  anche ai nostri) di aver aderito due giorni prima ad una pagliaccesca 
manifestazione "unitaria contro il terrorismo" assieme agli Schifani  e ai Cicchitto - manifestazione non a caso andata completamente 
deserta. La Quercia, dopo qualche esitazione iniziale, decide di  cavalcare la vicenda. Il risultato è visibile sui quotidiani di 
domenica 21, e soprattutto (a causa appunto dell´esitazione) su  quelli di lunedì 22 marzo. Emblematica la Repubblica del 22 marzo: 
tutti, ma proprio tutti, gli articoli dedicati alla manifestazione si  limitano a chiosare-commentare-condannare la contestazione a Fassino.

Secondo episodio. Venerdì 4 giugno 2004, in una Roma spettralmente  blindata, si svolge la visita di Bush jr. Altra manifestazione contro 
la guerra, questa volta esplicitamente sabotata da gran parte del  centro sinistra (eccetto Rifondazione, PdCI e Verdi). In questo caso 
il casus belli è rappresentato dallo slogan "dieci, cento, mille  Nassiriya" che - a quanto afferma Mario Reggio sulla Repubblica - 
viene "scandito un paio di volte nei pressi della Piramide Cestia",  proprio all´inizio del corteo, da un gruppetto di imbecilli (o 
peggio), stranamente non più rintracciabili durante il corteo.  Ovviamente tutti i quotidiani - inclusa la Repubblica - dedicano 
all´episodio la maggior parte dello spazio dedicato alla  manifestazione, con relativi titoli scandalizzati.

Terzo episodio. Sabato 18 febbraio 2006. Manifestazione per la  creazione di uno Stato palestinese. La manifestazione, organizzata 
dal Forum Palestina, viene sostenuta da molte associazioni e dai  sindacati di base, ma boicottata da quasi tutto il centrosinistra: 
soltanto il PdCI aderisce come partito; vi sono poi alcuni  parlamentari dei Verdi, e una rappresentanza delle minoranze di 
Rifondazione. La segreteria di quest´ultimo partito boicotta  attivamente la manifestazione, facendo ritirare l´adesione anche a 
gruppi e singoli che in un primo momento avevano aderito: così - ad  esempio - Alì Rashid e Luisa Morgantini "scoprono" all´improvviso di 
non aver sulle prime letto bene il manifesto di convocazione della  manifestazione, e di trovarsi in disaccordo con esso. Disaccordo ben 
strano, se si pensa che la manifestazione propone nientemeno che... il  rispetto delle risoluzioni dell´ONU sullo Stato di Palestina con 
capitale a Gerusalemme Est e sulla necessità che gli israeliani si  ritirino dai Territori occupati nel 1967. Comunque sia, la 
manifestazione si svolge normalmente, e si conclude con diversi interventi interessanti. In essi viene tra l´altro rivendicata 
l´importanza della resistenza nei confronti degli aggressori e degli  occupanti, in Palestina come in Irak. Uno degli organizzatori ricorda 
dal palco come il termine di "resistenza" non dovrebbe destare  scandalo in un Paese come il nostro, che sino a prova contraria è una 
Repubblica sia "fondata sulla Resistenza". Niente di tutto questo finisce sui TG e sui giornali del giorno dopo (uniche eccezioni: TG3 
e "Liberazione"). Ci finiscono invece 4 o 5 idioti che, sul finire  della manifestazione, danno fuoco a una bandiera Usa e a una banidera 
israeliana e inneggiano a Nassiriya (evidentemente, repetita  iuvant...). Tra i titoli più garbati quello di Repubblica: "Al rogo le 
bandiere di Israele e USA"; sottotitolo: "Un gruppuscolo, che  inneggia a Nassiriya, irrompe al corteo pro Palestina". Ecco fatto: 
episodi assolutamente marginali, talmente marginali che la gran parte  dei manifestanti ne ha appreso l´esistenza soltanto dai mezzi di (dis)
informazione, diventano la notizia. Che oltretutto viene riportata  incompletamente: ossia evitando accuratamente di aggiungere che gli 
autori delle bravate di cui sopra (un tempo si definivano  "provocazioni") sono stati allontanati in malo modo dalla 
manifestazione. Da questa non-notizia che diventa titolo sono  ovviamente sorte le solite polemiche mediatico-politiche (ormai è 
impossibile separare i due termini: la società dello spettacolo ha  letteralmente inghiottito la "politica politicante"). Con fiumi di 
inchiostro indignato versato da politologi, opinionisti e politici.  Tutta gente che quindi - come Max Stirner - ha "fondato la sua causa 
sul nulla" (ma, a differenza di Stirner, senza esserne consapevole).
3. Qualche motivo di riflessione

Gli esempi citati sopra ci offrono diversi motivi di riflessione. 

Proviamo a metterli in fila.

1) Sempre più spesso accade che la realtà non sia nient´altro che la  rifrazione della sua immagine sui media. Detto in altri termini: la 
costruzione della realtà operata dalla "informazione" ormai  sostituisce la realtà stessa. In concreto, per i lettori dei giornali 
del 19 febbraio, ad eccezione di coloro che vi avevano partecipato,  la manifestazione del 18 febbraio è stata una manifestazione in cui 
roghi rituali di bandiere si alternavano a slogan pro-Nassiriya.  Punto e basta. La realtà è la sua rappresentazione. E nei casi di cui 
ci siamo occupati, questo meccanismo ha determinato un completo  capovolgimento della realtà e della verità dei fatti.

2) Chi prenda in esame le tre manifestazioni citate può facilmente  accorgersi di un fatto incontrovertibile: la portata del sostegno 
"partitico-istituzionale" alle manifestazioni sulle guerre del Medio  Oriente nel corso del tempo si è drasticamente ridotta. Prima hanno 
cominciato a sfilarsi Ds e Margherita, poi i Verdi e la maggioranza  di Rifondazione. Ovviamente, questo ridursi della "solidarietà" 
istituzionale non è estraneo all´ampiezza dei "cori" giornalistici  (non è un caso che uno dei peggiori articoli sulla manifestazione del 
18 febbraio si sia potuto leggere sul manifesto, a firma di Sara  Menafra). Ma perché il sostegno "politico-istituzionale" si riduce? 
La risposta prevalente nei commenti politici e giornalistici è: la  colpa è di chi manifesta. Le parole d´ordine devono essere 
"ragionevoli", non bisogna parlare di "resistenza" ma di  "terrorismo" (Fassino e Rutelli), alla guerra bisogna rispondere con 
la non-violenza (Bertinotti e Pecoraro Scanio), bisogna "valutare il  rapporto delle forze" (Rossanda), ecc. ecc. ecc. Ma le cose stanno 
veramente così?

3) No. Il discorso va in qualche modo rovesciato. Il problema non è  che le manifestazioni siano "irragionevoli". Il problema è che il 
concetto di "ragionevolezza" fatto proprio dall´establishment si è  progressivamente ampliato - a spese della ragione (e del buon senso). 
Oggi è "estremismo" dire che le risoluzioni ONU sulla Palestina vanno  rispettate; è "estremismo" dire che Bush e Blair sono criminali di 
guerra (lo sono in senso letterale: secondo il Tribunale di  Norimberga il massimo crimine è rappresentato dalla "guerra di 
aggressione"); è "estremismo" dire che in Irak non è stata esportata  alcuna "democrazia", ma disgregazione statuale e guerra civile 
permanente; è "estremismo" dire che le armi di distruzione di massa  gli Usa in Irak non soltanto non ce le hanno trovate, ma le hanno 
portate e le hanno usate (Falluja docet). Perché accade questo?
4) Rispondere a questa domanda non è semplice. Una cosa però è certa:  non è la prima volta che il concetto di "ragione" vede drasticamente 
limitati i suoi diritti e il suo stesso significato. Pensiamo  soltanto, per restare a quanto accaduto nel Novecento, alle ondate 
ricorrenti di nazionalismo, sciovinismo e razzismo, che hanno  preceduto e accompagnato i massacri coloniali prima, la grande 
carneficina della prima guerra mondiale poi, e infine fascismo e  nazismo. È il capitale che, per avere più libertà di movimento, ha 
bisogno di mettere la ragione agli arresti domiciliari. Tornando ai  nostri anni, è evidente il piano inclinato su cui sta scivolando da 
almeno un quindicennio la tanto mitizzata "civiltà  occidentale" (concetto ideologico per eccellenza, che ha tra l´altro 
il vantaggio di cancellare la realtà dei conflitti 
interimperialistici). Guarda caso, è proprio con la sconfitta del  Nemico per antonomasia, il "comunismo sovietico", che hanno ripreso a 
correre scatenati i "cani della guerra": prima Irak 1, poi Bosnia,  poi Kosovo, poi Irak 2; e presto sarà il turno dell´Iran. Questo sul 
piano internazionale. Contemporaneamente si sono colpiti e si  colpiscono in ogni Paese i diritti dei lavoratori e il salario nelle 
sue diverse forme (diretto, indiretto, differito). All´estero come all´interno, trionfa insomma la "ragione del più forte". È a questa 
"ragione" che si piega la "ragionevolezza" degli imperialisti rosé di  casa nostra, dei gandhiani dell´ultimora, dei fautori di una 
Realpolitik che significa - sempre più spesso e sempre più  chiaramente - piegarsi semplicemente e senza batter ciglio al diritto 
delle armi, alla logica della violenza, della sopraffazione e della  morte. In una parola: alla logica della guerra.

4. Restituire le parole alle cose

È essenziale avere la consapevolezza della posta in gioco. È  essenziale capire che a questa deriva, costi quello che costi, non 
bisogna piegarsi. La "ragione dimezzata", la "ragionevolezza" dei  "però" e dei "tuttosommato" è da sempre la migliore alleata del 
dominio e della sua barbarie. E allora bisogna resistere. Si può  farlo in diversi modi.

In primo luogo, chiamando le cose con il loro nome. Qui il motto  potrebbe essere: la tautologia è rivoluzionaria. Qualche esempio. Un 
muro è un muro, soprattutto se è alto 8 metri e lungo 730 km: non è  un "recinto di protezione". Non è un "recinto" perché è un muro; e 
non è "di protezione" perché - anziché essere costruito sui confini  (già illegali) del 1967 - confisca il 43% dei residui territori 
palestinesi. Un criminale di guerra è un criminale di guerra: non è  uno statista e tantomeno un "uomo di pace". Chi resiste a 
un´occupazione militare straniera è un resistente - e non un  terrorista. Una bugia è una bugia - e non un "errore". Le torture 
sono torture - e non "abusi". E così via.
In secondo luogo, denunciando e combattendo i cliché dominanti. Che  non sono semplici parole, ma schemi di pensiero. E che, in quanto 
tali, sono più insidiosi e pervasivi delle singole menzogne e dello  stravolgimento di singoli fatti. Questi cliché hanno contribuito alla 
scarsa incisività del cosiddetto "movimento no-war" dopo lo scoppio  della guerra, anche nei confronti di eventi di estrema gravità quali 
le torture di Abu Ghraib e l´uso del fosforo bianco a Falluja. I  cliché pesso esistono in due versioni: quella hard (quella urlata dai 
Pera e dai Ferrara, tanto per capirsi) e quella soft (quella dei pen [s]osi "leader" del "centro-sinistra": Rutelli e Fassino, tanto per 
non far nomi). Le due versioni vanno combattute con la medesima  energia. Anche qui, qualche esempio:

Cliché n. 1: L´Occidente è portatore di una civiltà superiore

- Versione hard: È quella contenuta nei testi della Fallaci e nei 
discorsi di Calderoli.

- Versione soft: L´Occidente è superiore in quanto non è integralista 
ed è "tollerante". Ovviamente, rispetto a tale dato di fondo è del 
tutto irrilevante il fatto che negli ultimi anni eserciti e armi 
dell´Occidente abbiano ammazzato decine di migliaia di civili in 
Afghanistan e in Irak.

Cliché n. 2: L´Occidente è portatore di un sistema politico superiore 
("democrazia").

Si tratta di una variante del cliché precedente. È di importanza 
fondamentale nel dispositivo del discorso ideologico contemporaneo. 
L´Occidente è portatore della "democrazia" e nemico delle "dittature" 
e dei "totalitarismi".

Questo cliché ha consentito a Blair addirittura di fare un uso 
apologetico della scoperta delle torture praticate in Irak dai 
soldati inglesi: "La differenza tra democrazia e tirannia non è che 
in una democrazia non accadono cose brutte, ma che quando accadono se 
ne chiede conto ai responsabili". In sintesi: se le porcherie che 
facciamo non vengono scoperte, il nostro è un sistema politico 
superiore perché non c´è nulla che dimostri il contrario; se vengono 
scoperte, il fatto stesso che vengano scoperte dimostra che il nostro 
è un sistema politico superiore. Lo schema può essere variato 
all´infinito: così, si può argomentare che la scoperta delle menzogne 
di guerra dimostra la buona fede degli Usa e la trasparenza del 
sistema ecc.

Da questo luogo comune discende poi il

Cliché n. 3: è legittimo (ed anzi opportuno e necessario) esportare 
la democrazia.

Se si accetta questo presupposto si è indotti ad accettarne molti 
altri. Qualche esempio, applicato alla guerra irachena:

Cliché n. 4. La resistenza irachena è terrorismo (o comunque un 
fenomeno tribale pre-moderno).

Cliché n. 5. In Irak il problema è il "terrorismo" e non l´invasione 
angloamericana (e italiana).

Per avere un´idea di come quest´ultimo cliché possa orientare 
l´informazione, si può prendere un articolo uscito su la Repubblica 
del 27 gennaio 2005, alla vigilia delle elezioni in Irak. È di 
Bernardo Valli, ed è abbastanza equilibrato. Nel testo l´articolista 
si chiede tra l´altro: è possibile esprimersi in un paese "in stato 
d´assedio, occupato da truppe di una superpotenza straniera... e di 
trenta potenze minori, da ausiliari armati come in un Far West 
mediorientale? In un paese minacciato da una guerriglia disperata e 
spietata?". Questo ragionamento nell´occhiello diventa: "resta la 
questione: è possibile esprimersi liberamente in un paese 
assediato?". L´informazione viene selezionata sulla base del cliché 
secondo cui il problema è il "terrorismo", ed il gioco è fatto: gli 
invasori sono spariti, e i resistenti sono diventati "assedianti".

Va notato che sul presupposto della "legittimità di esportare la 
democrazia" è stata costruita - una volta venute meno quelle 
originarie - una giustificazione posticcia dell´invasione dell´Irak: 
che sarebbe avvenuta, appunto, allo scopo di "esportare la 
democrazia". È assai singolare che buona parte del centrosinistra 
italiano si sia bevuta questa ennesima menzogna, perdipiù a scoppio 
ritardato: il tema dell´"export della democrazia" infatti non era 
neppure tra le (false) motivazioni a suo tempo addotte per aggredire 
l´Irak. In ogni caso, chiunque conosca la storia del colonialismo non 
avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa "giustificazione".

Ma in terzo luogo, oltre a combattere i cliché dominanti, bisognerà 
offrire un´interpretazione alternativa degli eventi. Rifiutando i 
cliché sia nella versione hard che in quella soft e contrapponendo ad 
essi un´altra interpretazione generale di ciò che è avvenuto. Così, 
l´invasione dell´Irak non è né una tappa della guerra contro il 
terrorismo, né un errore. Cos´è, allora? Harold Pinter l´ha definita 
così: "un atto di banditismo, di puro terrorismo di stato, che 
dimostra un disprezzo assoluto per il concetto stesso di legge 
internazionale. L´invasione è stata un´azione militare arbitraria che 
si è nutrita di bugie su bugie e di una volgare manipolazione dei 
media e quindi dell´opinione pubblica; un atto che aveva l´obiettivo 
di consolidare il controllo militare ed economico degli Usa sul Medio 
Oriente, camuffandolo - una volta manifestatesi infondate tutte le 
altre giustificazioni - da liberazione. Un formidabile dispiegamento 
di forza militare che ha la responsabilità della morte e della 
mutilazione di migliaia e migliaia di persone innocenti. Abbiamo 
portato tortura, cluster bombs, uranio impoverito, innumerevoli atti 
di assassinio indiscriminato, miseria, degradazione e morte al popolo 
iracheno e l´abbiamo chiamato `portare libertà e democrazia al Medio 
Oriente´".

Sono parole tratte dal discorso pronunciato dal drammaturgo 
britannico per il conferimento del Nobel, il 7 dicembre dello scorso 
anno. Sfortunatamente, nessun giornale italiano ha ritenuto opportuno 
riproporle ai suoi lettori.

* l'articolo pubblicato è uscito sul nr.113 della rivista La  Contraddizione