Imbrigliare i giudici e ridurre i diritti dei lavoratori: primario
obbiettivo del d.d.l. n. 1441 quater
di Mario Meucci - Giuslavorista
1. E’ all’esame della Camera della XVI legislatura il d.d.l. C 1441
quater (Delega al Governo in materia di lavori usuranti e di
riorganizzazione di enti, misure contro il lavoro sommerso e norme in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro, cd.
«collegato lavoro»)– strutturato in data 28 agosto 2008
dallo stralcio da parte dell’Assemblea di diversi articoli del d.d.l.
n. 1441 – di cui è indifferibile dar notizia, stante
l’incredibile silenzio stampa di cui beneficia.
Con questo d.d.l. il Governo si ripropone di introdurre
nell’ordinamento del lavoro le seguenti modifiche ed innovazioni:
- tramite l’art. 67,
a) eliminare la possibilità di impugnativa giudiziale del
licenziamento con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale -
cioè la normale raccomandata A/R, garantita sinora dall’art. 6
della legge 15 luglio 1966, n. 604 - per legittimarla solo dietro
ricorso giudiziale nel termine di decadenza di 120 giorni (attualmente
60 gg.);
b) estendere la sopra riferita modalità e decadenza
all’impugnativa per i recessi dai contratti a termine sospetti di
illegittimità e per i recessi del committente nei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a
progetto, di cui all’articolo 409, numero 3), del codice di procedura
civile nonché per il trasferimento ai sensi dell’art. 2103 del
codice civile.
Vengono, per tal via, pregiudicate e rese più difficoltose le
esigenze di difesa del lavoratore e dall'altro viene riversato un
numero elevatissimo di controversie sugli uffici giudiziari, con
ulteriore allungamento dei tempi dei processi.
- tramite l’art. 66,
a) sostituire l’art. 410 c.p.c. con analogo che preveda - al posto del
tentativo di conciliazione obbligatorio e condizione di
procedibilità del ricorso al GdL dopo il decorso improduttivo di
60 giorni - il tentativo di conciliazione su base volontaria (quindi
non costituente condizione di procedibilità del ricorso al
giudice), ad opera delle Commissioni istituite presso la Direzione
provinciale del lavoro, con onere di notifica della richiesta anche al
datore di lavoro a carico dell’istante. Parimenti sostituiti l’art. 411
e 412 (regolanti le modalità di svolgimento del procedimento
conciliativo, il cui tentativo di conciliazione deve tenersi entro i 30
giorni successivi alla convocazione), ove si prevede anche la
possibilità delle parti di assegnare alla Commissione stessa il
compito di risolvere con lodo arbitrale la controversia. Vengono
mantenute le conciliazioni in sede sindacale, secondo le previsioni dei
c.c.n.l.
Viene previsto all’art. 412 quater l’istituto dell’arbitrato volontario
per la soluzione delle controversie, da conferire ad arbitri privati
scelti dalle parti, con oneri di pagamento dei designati a carico delle
parti stesse, senza pregiudizio del ricorso alla magistratura.
Dato l’insuccesso, nei fatti, dell’esperienza del tentativo
obbligatorio di conciliazione – insuccesso attribuibile alle defezioni
di presenza alle convocazioni da parte delle aziende congiunta
all’incredibile ritardo delle convocazioni da parte della DPL, facendo
così decorrere i 60 giorni e trasferendo di fatto l’incombenza
sulla magistratura – la trasformazione da obbligatorio in volontario
dell’istituto conciliativo si rivela soluzione positiva. Negativo
invece il deferimento delle controversie alla cd. “giustizia privata” a
pagamento, onerosa per il lavoratore, soggetto intrinsecamente ed
economicamente debole.
- tramite l’art. 65,
a) vanificare o comunque marginalizzare i poteri di intervento del
giudice nella materia lavoristica, circoscrivendone le facoltà,
inibendogli esami di merito e riservangogli solo la funzione notarile
del controllo di legittimità, vincolandolo alle tipizzazioni di
giusta causa e giustificato motivo di licenziamento inserite non solo
nei contratti collettivi ma addirittura nei contratti individuali,
seppure assistiti. In tal modo gli viene sottratto, in sostanza e a
titolo esemplificativo, il potere di derubricare le sanzioni espulsive
(convenute nei c.c.n.l. o nei contratti individuali) in sanzioni
conservative, al riscontro di sproporzionalità ex art. 2106 c.c.
della sanzione irrogata rispetto all’infrazione, nel chiaro intento di
ostacolare ogni attività interpretativa di bilanciamento tra
libertà e diritti di rilievo costituzionale. Il tutto
nell’ottica di lasciare il lavoratore in balia delle pressioni
datoriali all'atto di assunzione e di restringere, di fatto,
l'operatività dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi
le garanzie di stabilità ad esso connesse, a tutto beneficio
degli interessi sostanziali delle controparti aziendali. Ciò si
realizza tramite le statuizioni dei seguenti 3 comma del citato art. 65
:«1. In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle
materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e
all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di
instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali,
trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è
limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi
generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di
legittimità e non può essere esteso al sindacato di
merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che
competono al datore di lavoro o al committente.
2. Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione
delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle
valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei
contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10
settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, salvo il caso di
erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di
difformità tra il programma negoziale certificato e la sua
successiva attuazione.
3. Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il
giudice fa riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di
giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro
stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi
ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con
l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui
al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e
successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere
al licenziamento (ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, successivamente precisato tramite emendamento, n.d.r.) il
giudice tiene ugualmente conto di elementi e di parametri fissati dai
predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni
dell'attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del
mercato del lavoro locale, l'anzianità e le condizioni del
lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del
licenziamento».
Il tutto, ad un occhio inesperto, potrebbe essere scambiato per un
potenziamento di ruolo conferito agli agenti contrattuali – anche se
tale convincimento viene fugato dalla legittimazione da parte dei
contratti individuali certificati a derogare ai contratti collettivi -
ma siccome ciò avviene in un contesto di sostanziale
inferiorità (eminentemente dal lato giuridico) in sede di
negoziazione da parte di molte delle odierne OO.SS., quanto sopra
riferito appare soluzione di “controriforma” regressiva per i
lavoratori, per i quali il ricorso al giudice, con queste limitazioni
di operatività, finisce per risolversi in operazione
velleitaria. Trasformando infatti il giudice in un “notaio” cui
è concesso solo un controllo di aderenza e di rispetto delle
parti nei confronti degli assetti contrattuali collettivi o dei
contratti individuali certificati, senza che possa sindacare nel merito
in ordine alla correttezza delle soluzioni pattuite, si toglie ai
lavoratori la garanzia – finora identificabile nel magistrato – che
possano essere rettificate nelle aule di giustizia situazioni di
sopraffazione e di compressione dei diritti.
Le soluzioni del d.d.l. n. 1441 quater sono, quindi, tutt’altro che
caratterizzate dalla finalità di garantire una migliore e
più efficace tutela ai diritti dei lavoratori e delle
lavoratrici ma, all’opposto - in piena sintonia con le recenti
modifiche normative della manovra d’estate 2008 - volte a dar man forte
alle imprese nell’ assecondare e perseguire obiettivi di maggiore
produttività, flessibilità gestionale nonché a
sottrarre i loro (eventualmente) illegittimi comportamenti da rischi di
invalidazione in contenzioso. Peraltro sponsorizzando e traguardando
unicamente le esigenze del mercato, il d.d.l. n. 1441 quater finisce –
come è stato detto - per limitare pesantemente i diritti dei
lavoratori, e così snaturare il valore ed il significato del
“lavoro” come delineato dalla Carta Costituzionale e dalle Carte
Europee.
2. Restando in tema dei tentativi di manomissione dei diritti ad opera
della compagine governativa – stavolta compiuta a danno dei precari con
contratti a termine illegittimi, compiuta nell’estate testé
decorsa per effetto dell’immissione nella normativa sul contratto a
termine (d. lgs. n. 368/2001) dell’ art. 4 bis ad opera della l. n.
133/2008, cd. “norma antiassunzione precari” – va fornita ai lettori,
assieme alla informazione negativa di cui al punto 1, una informativa
di segno positivo.
Come si ricorderà l’attuale compagine governativa, nel tentativo
di supportare gli interessi delle imprese che ai contratti a termine
avevano massicciamente ricorso (Poste italiane, Alitalia e innumerevoli
altre), studiò una formulazione ad hoc, finalizzata a convertire
la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato con quella
dell’indennizzo economico (cioè la soluzione tipica per il
licenziamento ingiustificato applicabile alle aziende aldisotto dei 16
dipendenti, ex lege n. 108/1990 che ha innovato l’art. 8 l. n. 604/’66).
La formulazione del citato art. 4 bis fu ed è la seguente:
«(Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la
violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del
termine). - 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di
entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le
sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni
di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto
unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con
un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un
massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di
fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge
15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».
Con questa norma – da più parti considerata immediatamente
incostituzionale –la compagine governativa introdusse una vistosa
discriminazione (in contrasto con l’art. 3 Cost.) tra lavoratori nella
identica condizione di avere un contratto a termine illegittimo (es.
perché inficiato dalla carente specificazione della causale
legittimante), a seconda che avessero o meno un giudizio pendente in
uno dei tre gradi all’epoca dell’entrata in vigore della norma.
In sostanza si era scelto – quale criterio per la discriminazione
(consistente nella privazione della conversione del contratto
illegittimo in contratto a tempo indeterminato, sostituita
dall’indennizzo economico)- il fatto che i lavoratori, tempestivamente,
avessero azionato un ricorso giudiziario, mentre andavano esenti dalla
sanzione trasformata in esclusivamente monetizzante, conservando
l’usuale possibilità di conversione a tempo indeterminato (cd.
stabilizzazione), coloro che il ricorso giudiziario si risolvessero ad
attivarlo successivamente all’entrata in vigore della norma d’estate.
Quindi soluzione punitiva per i più solerti, premiante per chi
si sarebbe mosso successivamente entro i 5 anni di prescrizione.
Va tenuto altresì presente che si punivano – col privarli della
stabilizzazione a tempo indeterminato – lavoratori che avevano
tempestivamente esercitato l’azione giudiziaria (garantita ad ogni
cittadino dall’art. 24 Cost.) ed a loro soltanto si “cambiavano in
corsa” (durante l’iter giudiziario) le conseguenze sanzionatorie per
l’azienda, sanzioni per il cui riconoscimento si erano rivolti al
giudice imparziale.
Anche il magistrato era sottoposto a questo mutamento di regole, per
effetto di questa interferenza ingiustificata del potere legislativo
sul giudiziario.
In data 22 e 26 settembre 2008 rispettivamente la Corte d’Appello di
Bari (est. Castellaneta) e la Corte d’Appello di Genova (est. Ravera)
hanno dichiarato non fondata la remissione della norma de qua, alla
Corte costituzionale per violazione dell’art. 3 e 117 Cost.
Con le seguenti, convincenti argomentazioni:«Il Legislatore ha
(con l’art. 4 bis, n.d.r.) ritenuto di disciplinare diversamente (nelle
conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la
diversità delle conseguenze al fatto del tutto casuale che il
lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio. In questo caso non si
tratta di un trattamento differenziato nel tempo: lavoratori nella
stessa situazione di fatto, che hanno cioè stipulato un
contratto a tempo determinato con clausola del termine illegittima,
senza giustificazione alcuna, se non quella di avere o meno iniziato la
causa ad una certa data, vengono ad avere diversa tutela dei propri
diritti, con evidente violazione del principio di ragionevolezza. Tanto
più che il discrimine temporale non è neppure idoneo a
realizzare pienamente il fine che la norma introdotta dovrebbe
conseguire. Se infatti scopo della disposizione è quello di
sottrarre alle aziende i costi che derivano dalla illegittimità
dei contratti a termine, allora non si comprende il discrimine
temporale che sottrae i soli contenziosi in essere e non tutto il
potenziale contenzioso (cioè, ad esempio tutti i contratti
stipulati ad una certa data). Il che penalizza proprio chi
comportandosi lealmente non ha atteso anni ma ha iniziato da subito la
causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato ad iniziare
il contenzioso (per magari lucrare le retribuzioni conseguenti alla
messa in mora). Inoltre la differenziazione di regime non è
finalizzata a realizzare interessi costituzionalmente rilevanti e non
si fonda neppure sulle dimensioni dell'impresa. In sostanza, tra i
lavoratori a tempo determinato ne viene enucleata una quota (quelli che
avevano un giudizio pendente) che viene sottratta alla tutela ordinaria
accordata a tutti gli altri lavoratori (che non avevano ancora iniziato
la causa e che costituiscono il tertium comparationis nella valutazione
della violazione del principio di eguaglianza), tutela ordinaria che il
Legislatore aveva ben presente e che non ha inteso modificare,
perché diversamente non avrebbe dettato l'art. 4 bis che
espressamente è applicabile ai soli procedimenti in corso, ma
avrebbe invece introdotto una disciplina stabile destinata a
regolamentare fa materia.
La norma denunciata pone poi seri dubbi di costituzionalità con
l'art. 117, co. 1, Cost. (secondo cui fa potestà legislativa
è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali), in relazione all'art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle
libertà fondamentali del 4/11/1950, resa esecutiva con L. 4
agosto 1955, n. 848.
La norma della Convenzione, alla quale lo Stato italiano si deve
conformare, nell'affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto
processo dinanzi ad un Tribunale indipendente ed imparziale, impone al
potere legislativo di non intromettersi nell'amministrazione della
giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia
o di una determinata categoria di controversie in corso. In proposito
la CEDU ha affermato che “il principio della preminenza del diritto e
la nozione di equo processo consacrati dall'art. 6 CEDU si oppongono,
salvo per imperiose esigenze di interesse generale, all'ingerenza del
potere legislativo nell'amministrazione della giustizia con io scopo
d'influenzare la risoluzione giudiziaria di una causa” (par. 126
sentenza CEDU Grande Camera nella causa Scordino c. Italia, 29.3.2006):
nel caso in esame vengono proprio mutati per factum principis i diritti
sostanziali a tutela dei quali si è agito in giudizio, senza che
ricorrano quelle «imperiose ragioni d'interesse generale»
richieste dalla CEDU come condizione per superare il divieto
d'ingerenza».
Non può che auspicarsene l’accoglimento e che cessi questa
pratica dell’immissione più o meno surrettizia nell’ordinamento
di norme ad hoc per questa o quell’altra situazione, o come peggio
avviene, per questa o quella persona.