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IL COMUNISMO: DALLA STORIA ALLA PROSPETTIVA
Intervento al Convegno svoltosi, il 18 novembre 2006, al Liceo classico
di Barcelona P.G. (Me), per iniziativa del Centro Studi “Nino Pino
Balotta” e del Circolo Arci “Città Futura” sul tema:
“Settant’anni che cambiarono il mondo: il comunismo nella storia del
Novecento e
oltre”
Direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta
Questo convegno interviene in una fase storica in cui è in corso
un processo di criminalizzazione del comunismo, a livello
internazionale e a livello nazionale. Il Consiglio d’Europa ha
approvato una risoluzione che equipara nazismo e comunismo. Tale
risoluzione, che doveva costituire la base giuridica per la messa fuori
legge dei partiti comunisti nei Paesi europei, non è divenuta
operativa perché è mancata la maggioranza richiesta dei
due terzi. Ma i promotori non si sono dati per vinti: nella Repubblica
Ceca l’Unione della gioventù comunista è stata dichiarata
illegale, perché il suo statuto fa riferimento esplicito al
marxismo. Questo provvedimento, al quale si sono opposti, tramite una
petizione, migliaia di intellettuali di tutto il mondo, fra i quali il
sottoscritto, è il preludio per la messa al bando del Partito
comunista di Boemia e Moravia, terza forza politica del Paese.
Ma v’è di più. Il Parlamento Europeo ha adottato, con i
voti dei DS italiani, una deliberazione che definisce “repressiva” ed
“antidemocratica” l’ “ideologia comunista”. Gli ex comunisti,
ampiamente pentiti e pronti a trasmigrare in un “nebuloso” Partito
democratico, hanno sottoscritto un documento che – si badi bene – non
criminalizza solo i regimi comunisti dell’Est europeo, ma l’ideologia
comunista in quanto tale. Non c’è, dunque, da stupirsi se, come
osserva lo storico Giovanni De Luna (Università di Torino), i
dirigenti diessini, da D’Alema (ministro degli Esteri) a Napolitano
(Presidente della Repubblica), pur occupando le massime cariche
istituzionali dello Stato, hanno taciuto di fronte alla campagna
scatenata nel nostro Paese non solo contro il comunismo, ma anche
contro l’antifascismo. Evidentemente i nemici dei comunisti
attribuiscono ad essi il maggior contributo alla lotta di Liberazione
dell’Italia dal nazi-fascismo, tanto da associare nelle loro
elucubrazioni comunismo ed antifascismo. Ciò rende onore ai
comunisti. Per converso, gli anticomunisti di professione si buttano la
zappa sui piedi: come si può criminalizzare come antidemocratico
un partito, il Pci, che ha dato il maggiore tributo alla sconfitta del
fascismo e al ritorno dell’Italia alla democrazia?
Lo storico Angelo d’Orsi sostiene autorevolmente che Gianpaolo Pansa
è andato ben al di là del “revisionismo storico”,
scadendo nel “rovescismo”: rovescia, cioè, verità
storiche consolidate, senza alcuna prova, senza alcun metodo storico
valido, solo per fare “scoop”. Pansa nega addirittura gli scioperi del
marzo ’43, nel corso dei quali solo a Torino incrociarono le braccia
100.000 operai. Fu allora che Hitler capì di aver perso l’Italia
e la guerra. Avvertiamo tutti i pericoli di questo modo di “fare
storia”, anzi di stravolgere la storia. Le “bugie” di Pansa e compagni,
ripetute mille volte ed amplificate dai mass-media, diventano
paradossalmente l’unica interpretazione storica che perviene a grandi
masse di persone e, soprattutto, ai giovani, i più esposti alla
menzogna. La “cultura in pillole”, la sostituzione delle frasi ad
effetto alla complessità della storia, la superficialità
e la scurrilità dei “libri da 300.000 copie” e dei “talk show”
televisivi ci ricordano il ruolo nefasto svolto dalle riviste
fiorentine del primo decennio del Novecento e da intellettuali come
Corradini, Marinetti, Prezzolini, Papini, nell’aprire le porte al
fascismo. Studiosi seri, come il sociologo Franco Ferrarotti, hanno
analizzato a fondo i meccanismi perversi della persuasione occulta
utilizzati dai mass-media. Ma le loro analisi raggiungono un numero
limitato di persone, quando non rimangono confinate ai dipartimenti
universitari. Spesso il cittadino comune crede di esprimere un proprio
pensiero, mentre in realtà sta ripetendo inconsciamente
espressioni che gli sono state suggerire da una propaganda martellante
della quale non è in grado di controllare l’obiettività.
Ad esempio, oggi si è diffusa la convinzione che il marxismo non
ha più nulla da insegnarci e molti ripetono questo giudizio
senza neanche tentare di discuterne le motivazioni.
In questa sede non intendiamo procedere ad un’esaltazione acritica
dell’esperienza comunista, realizzatasi nel corso del Novecento, ma
neanche rimanere vittime del “furore iconoclasta” imperversante. Si
tratta, in buona sostanza, di valorizzare gli aspetti positivi di
questa esperienza, evidenziarne gli errori e i limiti, individuare gli
elementi che possono servire per continuarla in forme e contesti nuovi.
I risultati positivi sono ben evidenti. L’Unione Sovietica è
stata la seconda potenza economica del mondo, addirittura la prima in
vari settori. Ha garantito piena occupazione, sanità,
istruzione, servizi sociali gratuiti a centinaia di milioni di
cittadini. Ha dato vita ad una società egualitaria, che ha
sostituito un sistema economico sostanzialmente feudale. Sull’onda
della Rivoluzione d’Ottobre, uomini e donne di tutto il mondo hanno
conquistato diritti fondamentali di civiltà. Il popolo sovietico
ha dato il contributo decisivo alla vittoria sul nazi-fascismo, pagando
tra tutti gli altri il prezzo più alto: 27 milioni di morti. La
vittoria sovietica a Stalingrado ha capovolto le sorti della seconda
guerra mondiale. Il presidente americano Roosevelt, nel diploma inviato
ai difensori della città, scrisse: “La loro gloriosa vittoria ha
arrestato l’ondata della invasione e ha segnato la svolta della guerra
delle nazioni alleate contro l’aggressione”. Il secondo fronte, il
cosiddetto “fronte occidentale”, è sorto con notevole ritardo.
Si tenga conto che Von Paulus si arrese all’Armata Rossa agli inizi del
febbraio ’43, mentre lo sbarco in Normandia da parte delle truppe
anglo-americane è avvenuto solo nel giugno ’44. Alcide De
Gasperi, leader della Democrazia Cristiana, parlando al teatro
Brancaccio di Roma, il 23 luglio del 1944, cioè a quasi
trent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, riconobbe testualmente “il
merito immenso, storico, secolare delle armate che ha organizzato il
genio di Stalin”. E proseguì: “C’è qualche cosa di
immensamente simpatico, qualche cosa di immensamente suggestivo [nella]
tendenza universalistica del comunismo russo. Quando vedo che mentre
Hitler e Mussolini perseguitavano degli uomini per la loro razza, e
inventavano quella spaventosa legislazione antiebraica che conosciamo,
e vedo contemporaneamente i Russi composti di 160 razze cercare la
fusione di queste razze superando le diversità esistenti fra
l’Asia e l’Europa, questo tentativo, questo sforzo verso l’unificazione
del consorzio umano, lasciatemi dire: questo è cristiano; questo
è eminentemente universalistico nel senso del cattolicesimo. (…)
E cristiano è anche il formidabile tentativo di accorciare le
distanze fra le classi sociali, questo sforzo per l’elevazione del
lavoro manuale. Mi capitò una volta fra mano un documento
segreto dello stato maggiore tedesco sulle impressioni che riportavano
gli ufficiali in Russia. Conclusione: quel che fa impressione ai
soldati tedeschi è trovare un paese ove nessuno vive senza
lavorare. (…) Ora questo è un principio a cui tendiamo e che
deve applicarsi anche in Italia”. Non ce la sentiamo di aggiungere
alcunché alle parole lusinghiere che il Presidente americano
Roosevelt e, maggiormente, il leader della Dc De Gasperi ebbero nei
confronti dell’Unione Sovietica, prima che l’Occidente decidesse di
innescare i ben noti meccanismi della “guerra fredda”.
In occasione del cinquantesimo anniversario dei “fatti d’Ungheria”,
viene risollevato il vecchio problema della mancanza di libertà
nei regimi comunisti effettivamente realizzati. Paradossalmente
è stato proprio per un anelito di libertà che molti
uomini comuni e molti intellettuali hanno aderito al comunismo. Ha
scritto Cesare Pavese: “E’ possibile che uno si accosti al comunismo
per amore di libertà? A noialtri è successo. Per uno
scrittore, per un «operaio della fantasia», che dieci volte
in un giorno corre il rischio di credere che tutta la vita sia quella
dei libri, dei suoi libri, è necessaria una cura continua di
scossoni, di prossimo, di concreta realtà. Noi rispettiamo
troppo il nostro mestiere, per illuderci che l’ingegno, l’invenzione,
ci bastino. Nulla che valga può uscirci dalla penna e dalle mani
se non per attrito, per urto con le cose e con gli uomini. Libero
è solamente chi s’inserisce nella realtà e la trasforma,
non chi procede tra le nuvole. Del resto, nemmeno i rondoni ce la fanno
a volare nel vuoto assoluto”. Gli anticomunisti di sempre, gli ex
comunisti convertitisi all’anticomunismo, i comunisti “provvisori” per
autodefinizione, come Fausto Bertinotti, non hanno capito quel che
Pavese ha spiegato in poche parole, aggiungendo più avanti: “Non
c’illudiamo che esista un «paradiso dei rondoni» dove si
possa essere insieme progressisti e liberali”. In altri termini, la
libertà non è una dimensione “metastorica”, un “paradiso
dei rondoni” – per dirla con Pavese – , che possa prescindere dall’
“attrito con la realtà”, dalle determinazioni spazio-temporali.
L’intervento sovietico in Ungheria del ’56 va, dunque,
contestualizzato. E il contesto è quello di un mondo diviso in
due blocchi, di un’Unione Sovietica accerchiata, stretta in una morsa
di ferro dal capitalismo, che, nella propria zona d’influenza, appoggia
persino brutali dittature fasciste, come quella spagnola e quella
portoghese, pur di combattere il comunismo, e che interviene col pugno
di ferro, a fianco di Israele, per stroncare il tentativo legittimo di
Nasser di nazionalizzare il canale di Suez e di liberarsi dal giogo del
colonialismo. Oggi che l’Unione Sovietica è crollata, sappiamo –
perché così è avvenuto in Ucraina, in Georgia e
nelle altre repubbliche ex sovietiche, dove sono scoppiate, fomentate
dagli americani, le cosiddette “rivoluzioni colorate” – che gli Stati
Uniti d’America hanno speso fiumi di denaro, attraverso infiltrati,
fondazioni (La Fondazione Soros, la Fondazione Ford), per convincere i
cittadini del vecchio mondo comunista a ricorrere alla cosiddetta
“resistenza passiva”, cioè a sabotare l’economia, a non
lavorare. Hanno detto loro: “Poi verremo noi e provvederemo a tutto”. E
hanno veramente provveduto, lasciando interi popoli nella miseria
più assoluta, depredandoli delle loro risorse, costringendoli
alla prostituzione di massa o a lavori umili come quello di “badante”
al servizio dei vecchietti del mondo capitalistico.
Ma c’è da chiedersi perché il mondo comunista, che ha
resistito per settant’anni agli attacchi del capitalismo, ad un certo
punto è crollato. Non voglio qui analizzare gli errori
economici, oggetto di altre relazioni. Credo che la risposta vada
trovata nel pensiero di Gramsci, che oggi viene frettolosamente
archiviato dallo stesso Bertinotti, che, quand’era segretario di
Rifondazione Comunista, non ha voluto che nello statuto del suo partito
ci fosse alcun riferimento al fondatore del Partito Comunista d’Italia.
Antonio Gramsci, sulla scorta di Labriola, ha individuato il rapporto
dialettico che esiste tra struttura e sovrastruttura, superando le
opposte “aporie” del “marxismo volgare”, che assolutizza la prima, e
del soggettivismo idealistico, che assolutizza la seconda.
Benché i “Manoscritti” del giovane Marx, così come i
“Grundrisse”, fossero inediti, il grande intellettuale sardo
riuscì a scoprire la nozione di “rivoluzione globale” –
economica e politica, ma nello stesso tempo morale e intellettuale –
come criterio guida per un cambiamento veramente rivoluzionario della
società. In Gramsci i temi del partito, della rivoluzione e
dell’egemonia, che generalmente sono trattati come argomenti separati,
sono, invece, strettamente collegati. Il partito non è soltanto
lo strumento per la rivoluzione, cioè per la creazione di una
società nuova. E’ anche la prefigurazione di quella
società. La rivoluzione dev’essere anticipata nella
qualità della vita quotidiana e nei rapporti interni, “dentro il
partito”, oppure essa è destinata a fallire, vale a dire
è destinata a riprodurre, una volta che sia stato conquistato il
potere, le caratteristiche burocratiche alienanti e sfruttatrici della
società borghese. Questo, appunto, è successo in Unione
Sovietica, negli altri Paesi del blocco comunista, ma anche nel Partito
comunista italiano e nei partiti e movimenti vari che sono nati dopo il
suo scioglimento. Si è scatenata una feroce lotta per il potere,
si è verificato un processo di burocratizzazione, che ha fatto
sì che il partito si “imborghesisse”, fino a sparire, e ad
essere assorbito da quel sistema capitalistico ch’esso doveva
combattere e abbattere. Gramsci attribuisce una grande importanza alla
dimensione etica, ai rapporti tra compagni, tanto che intrattiene
rapporti fraterni con Bordiga anche dopo la rottura politica definitiva
con lui. Sono davvero commoventi, per converso, le lettere che Bordiga
scrive alla madre di Gramsci per darle notizie del figlio carcerato e
per recarle conforto. Partiti comunisti ormai imborghesiti non potevano
certo promuovere nella società quella rivoluzione morale ed
intellettuale di cui essa aveva bisogno per progredire verso il
comunismo. La spinta rivoluzionaria si è via via affievolita,
fino ad esaurirsi. Di conseguenza, anche i cittadini delle
società socialiste sono stati assorbiti dalla mentalità
capitalistica. A questo punto la propaganda americana, che in passato
era stata arginata, ha avuto successo. Lo stesso sistema economico
socialista è entrato in crisi, perché i dirigenti
burocratizzati avevano interesse a sostituirlo con un altro in cui essi
stessi costituissero la classe capitalista, come è di fatto
accaduto, e perché i cittadini non lo sentivano più
proprio, ubriacati dal “miraggio” capitalista, che, una volta
concretizzatosi, li ha portati invece alla fame e alla disperazione,
senza ch’essi potessero reagire, tentare un “ritorno all’indietro”,
pure agognato, ma difficilmente realizzabile, in quanto i nuovi
detentori del potere, che erano in gran parte anche i vecchi, hanno
messo in atto tutta una serie di strumenti coercitivi, palesi ed
occulti, che impediscono, così come nelle nostre società
capitalistiche, il libero manifestarsi della volontà popolare.
Per concludere, quale è allora la prospettiva? E’ evidente, dopo
quel che abbiamo detto: non abbandonare l’orizzonte comunista, ma
correggere gli errori che hanno messo in crisi il comunismo. Mettere
fine alle lotte di potere, accantonare i personalismi e gli interessi
di gruppo e di corrente. Lavorare per l’unità di tutti i
comunisti in un solo partito. Realizzare, già all’interno della
società capitalistica, quell’egemonia culturale di cui parlava
Gramsci. Dar vita ad un partito di massa, presente in tutte le pieghe
della società: nei posti di lavoro, nelle organizzazioni di
massa, nelle scuole, tra i giovani, nelle associazioni progressiste,
nei movimenti, instaurando, però, con questi ultimi un rapporto
di reciproca autonomia. Tutto ciò è contenuto nel
programma dettato da Gramsci per il congresso di Lione del 1926, nel
quale la sua impostazione prevalse su quella di matrice bordighiana.
Purtroppo oggi non abbiamo segnali incoraggianti. Abbiamo due partiti
comunisti, Rifondazione comunista e PdCI, che, invece, di lavorare per
una prospettiva unitaria, tentano di annientarsi a vicenda.
Rifondazione sta per snaturarsi in una Sinistra europea, che vuol
essere l’ala sinistra della socialdemocrazia. Questo progetto è
evidente nel momento in cui la maggioranza di questo partito cerca di
demolire l’esperienza storica del Pci, partecipando alla campagna
denigratoria contro Togliatti, presentato, fra l’altro, attraverso un
falso inedito pubblicato sul quotidiano di Rifondazione, “Liberazione”,
come colui che forzò la mano ai sovietici affinché
reprimessero la rivolta ungherese, sol perché la lettera del
Migliore, oggetto del falso “scoop”, indirizzata ai dirigenti
sovietici, reca la data del 30 ottobre 1956, cioè del giorno che
precedette la decisione del PCUS di mandare i carri armati a Budapest.
Questo documento non è inedito, in quanto pubblicato, come si
evince dall’ultimo numero della rivista “Micromega” (n. 9/2006), su “La
Stampa” di Torino addirittura l’11 settembre 1996. Esso non aggiunge
nulla a quel che si sapeva sulla posizione ufficiale del Pci, che
legittimò l’intervento sovietico in quanto il movimento era
ormai sfuggito al controllo del partito comunista ungherese, assumendo
esplicitamente carattere controrivoluzionario.
La motivazione “tattica” dello scioglimento di Rifondazione nel partito
della Sinistra europea è che bisogna colmare il vuoto lasciato
dai DS, che non vogliono essere più socialisti per diventare non
sappiamo cosa, attraverso la costituzione di un enigmatico Partito
democratico. Sembra di assistere a quel gioco che si faceva una volta
nei balli in famiglia: cessata la musica, i concorrenti dovevano
sedersi sulla prima sedia che trovavano libera, e guai a chi rimaneva
in piedi. Se i socialisti diventano qualcos’altro, i comunisti devono
diventare socialisti. Siamo certi che questo progetto del gruppo
maggioritario di Rifondazione incontrerà forti resistenze, anzi
già le sta incontrando, tra i militanti del partito e in una
parte degli stessi dirigenti (si vedano, ad esempio, i gruppi di
“Essere comunisti” e “Sinistra critica”).
Quanto al Partito democratico, è proprio un senatore dei Ds,
Massimo Villone, a spiegarci che cosa sarà questo “ircocervo”.
Egli scrive su “La Rinascita della sinistra” (10 novembre 2006):
“Come si può (…) pensare di fare un solo partito con il generico
richiamo alla sintesi delle culture? Semplice. Per il partito
democratico l’obiettivo vero – persino candidamente dichiarato –
è quello di creare un grosso contenitore per l’egemonia nella
coalizione che si candida a governare. (…) Intanto vinciamo le
elezioni, e teniamo ben salda la barra del governo. Poi si vede. Il
governo come fine, e non come mezzo. Siamo alla Dc del nuovo millennio.
Un nuovo partito–stato, che trova nella gestione del potere la
motivazione vera della propria esistenza. E non è nemmeno la Dc
degli anni migliori (…), [ma] quella degli anni grigi, che hanno
immediatamente preceduto il buio e il collasso dei primi anni ’90 e di
tangentopoli. Tutto questo con la sinistra non ha nulla a che fare”.
Parola di Villone: il Partito democratico sarà la peggiore
Democrazia cristiana. Anche qui speriamo che questo progetto venga
contrastato da tanti militanti, che abbiano almeno a cuore gli ideali
del socialismo democratico, che può essere una cosa seria, come
lo è stato in molte esperienze europee.
In conclusione, la prospettiva che ci attende è quella di una
lunga lotta, perché la libertà, quella vera, è,
appunto, lotta per l’emancipazione dell’umanità, per
l’uguaglianza economica e sociale, per la democrazia sostanziale.
Antonio Catalfamo
Direttore del Centro Studi “Nino Pino
Balotta”