In qualche modo, da qualche parte, in qualche momento l’umanità
deve cominciare il percorso rivoluzionario e autocritico del pacifismo
come lotta per la propria salvezza; e non si può più
perdere tempo
Una difficile transizione
I parametri politici e assiologici che vengono presentati come
fondamentali, e che alla generazione dei ventenni di oggi possono
apparire come naturali e indiscutibili, non sono eterni; sono anch’essi
un prodotto dell’industria culturale e di formidabili interessi
strutturali radicati in un vantaggioso status quo. Viviamo una
transizione difficile, nella quale hanno un ruolo centrale la
produzione e la distribuzione di ideologia. Quei parametri sono
anch’essi, in una parola, prodotti storici, interni alla
storicità complessiva dei nostri tempi, e ciascuno di essi fa
parte di una storicità specifica. La loro affermazione è
avvenuta nel secolo appena trascorso, un secolo che gli studiosi hanno
neppure troppo variamente definito “tragico”, “spezzato”, crudele,
“secolo delle guerre”, “secolo del male”. Del secolo XX io
sottolineerei tre momenti o fasi processuali che sono le fonti del
nostro presente. Ovviamente, la critica del presente ha ripercussioni
nella visione storica e più ancora nella prospettiva della
responsabilità sociale, che è il tema di questo nostro
incontro di omaggio a Betty Williams.
I – il 1914-18, gli anni della “grande guerra”, che aprì il vaso
di Pandora della sfida armata tra le grandi Potenze per il predominio
mondiale, ridusse l’Europa ad un macello, ma, con la rivoluzione russa
del 1917 - che spezzò il fronte della guerra e compì il
suo primo atto solenne in un pronunciamento per la pace - fece balenare
la speranza in una profonda trasformazione sociale;
II – il 1945, anno di conclusione della seconda guerra mondiale e del
ciclo complessivo
dell’unitaria “guerra dei trent’anni” 1914-45, che vide due grandi
novità, l’una positiva, l’altra negativa. La prima fu l’emergere
dai lutti e dalle rovine del trentennio di una nuova forza sociale e
politica, una candidatura dal basso, che prende il nome molto riduttivo
di “Resistenza”: essendo in realtà portatrice, insieme con i
movimenti di liberazione delle colonie asiatiche e africane, d’una
potenziale alternativa storica per l’Europa e per il mondo. Si
può dire che nei movimenti di Resistenza e liberazione culmina
il grande moto sociale avviato nel 1917, che già nei primi anni
del dopoguerra si contrae e perde forza, venendo riassorbito nelle
ripresa e nella nuova estremizzazione della rivalità armata tra
gli Stati.
Rivalità armata: perché il 1945 fu anche l’anno dei
bombardamenti atomici del Giappone, frutto non di necessità
operativa, ma di strategia geopolitica rivolta al futuro. Hiroshima e
Nagasaki segnalano un processo di militarizzazione della scienza e di
ascesa e specificazione autonoma della tecnologia militare, il cui
sviluppo coincide con l’arco storico e la cultura dell’imperialismo.
III – Il terzo nodo storico su cui dobbiamo fissare l’attenzione
è quello degli anni ’70 e ’80 del ‘900. (Gli anni, penso, in cui
è venuta al mondo la maggioranza dei presenti.) In un breve
tratto di tempo abbiamo una serie sconvolgente di fatti, determinata
dalla crisi del sistema dominante sul piano globale, crisi che si
rivelò meno grave del temuto e forse benefica per il
capitalismo, ma che aperse prospettive inquietanti. Le sue
manifestazioni andarono dall’economia agli approvvigionamenti
energetici, dalla sconfitta americana nel Vietnam alla rimessa in
discussione dello “Stato sociale”, dall’avvento simultaneo della
deregulation neoliberistica e di un nuovo paradigma di scienza-tecnica
basato sull’informatica e la telematica fino al passaggio del mondo
mentale collettivo dall’idea di leggi naturali universali alla
percezione della complessità e dell’angoscia del
disordine, dell’irreversibile, dell’imprevedibile. Fa parte del quadro
la “scoperta” dei “limiti dello sviluppo” – con il clamore suscitato
dal famoso rapporto del Club di Roma del 1970 - che sancì la
nascita dell’ecologia come nuovo paradigma complessivo, nuova
“inter-disciplina”.
Questa sofferta transizione ha avuto momenti sociali e politici che
sono stati fortemente avvertiti.
L’Unione Sovietica era ormai una realtà storica “snaturata” e
irriconoscibile rispetto alle lontane premesse comuniste degli anni
della I e anche della II guerra, ma per l’ironia della storia il suo
sfacelo nel 1989-91 ha provocato un risucchio che ha depotenziato non
solo i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo, ma anche le sinistre
politiche occidentali di tutti i gradi; soprattutto ne hanno sofferto i
movimenti popolari e proletari di origine otto e novecentesca, il cui
senso era nel rifiuto di tradurre ogni cosa, materiale e immateriale,
in termini di mercato, e nella creazione di livelli di realtà
economico-sociale polarizzati a priorità diverse -
solidarietà, eguaglianza, internazionalismo, pacifismo.
I cosiddetti “valori” del movimento operaio e della cultura operaia, lo
stesso criticismo nei confronti della Patria e della guerra di
lorsignori sono ancor oggi in crisi, ma il liberismo non ha potuto
sostituirli. Il “posto fisso” era un diritto, il precariato è
una jattura sociale; lo Statuto dei lavoratori è quasi soltanto
un ricordo; le istituzioni assistenziali nate a protezione dei settori
più indifesi della società sono minacciate dal
continuo ridimensionamento dovuto alla voracità della
logica di mercato e di accumulazione finanziaria. La cultura
dell’associazionismo popolare (che può essere anche quella
dell’osteria e delle bocce) e della Camera del lavoro è stata
soppiantata dalla sociologia della solitudine e della passività
davanti al televisore. Sotto i nostri occhi sono concentrazioni
finanziarie gigantesche e abissi di miseria. L’uomo più ricco
d’Italia ha un bilancio superiore a quello di una decina di Stati
africani, dove la fame fa ogni giorno migliaia di vittime.
E’ difficile rendersi conto intellettualmente e moralmente di cose del
genere, anche perché l’Italia è stata ed è uno dei
centri più sensibili di questa involuzione, e nio siamo quindi
oggetto di una efficace coazione persuasiva. Io non credo che il crollo
dell’Unione Sovietica abbia significato la morte del socialismo e del
comunismo. Il comunismo c’era anche prima, come sentimento, utopia,
movimento, e, in seguito, perfino come critica della stessa Unione
Sovietica, e c’è anche adesso; solo che bisogna intendersi sul
suo significato e sui suoi contenuti di realtà umana, di
obiezione e di progetto. Al riguardo regna ancora una grande
confusione, che richiede una forte applicazione intellettuale.
Due rischi mortali
Dall’ultimo decennio del ‘900 abbiamo ereditato una situazione
internazionale apparentemente semplificata dalla scomparsa del nemico
sovietico, ma che ha rivelato subito, in quegli stessi anni 1890-91, un
elemento sorprendente: le tensioni mondiali non erano cioè tanto
dovute all’Unione Sovietica e alla sua politica, quanto invece erano
presenti nello stesso Occidente.
In primo luogo, malauguratamente, non vi fu alcuna proposta di disarmo;
la spartizione dell’eredità geopolitica (ma anche economica!)
del “socialismo reale” diede luogo a complicità e interventi
attivi nella demolizione della Repubblica federale jugoslava; altre,
disastrose iniziative di guerra sono state portate nel Medio Oriente
arabo-islamico e in Somalia – prima e dopo l’attentato alle Torri
Gemelle – e non giustificate (come è ormai chiaro) dalla
necessità di contrastare il terrorismo; gli Stati Uniti
d’America, sia con presidenza democratica sia con presidenza
repubblicana, hanno manifestato una naturale propensione alla violenza
aggressiva e al militarismo che hanno messo in una crisi di difficile
soluzione la loro stessa democrazia. E’ ormai in corso uno scontro di
civiltà con tutto l’Islam, e la natura volontaria e la
pianificazione della logica amico-nemico confermano, secondo più
di una corrente di analisi economica, la necessità
sistemica di forti spese militari e di continui investimenti per la
ricerca in quei medesimi settori tecnologici il cui potere ha per il
mondo un suono sinistro. La “guerra infinita” con le sue varie
etichettature di missione, di democrazia, di libertà, non
l’avrebbe inventata Bush per propria fantasia, ma sarebbe nel DNA del
capitalismo che si riproduce, e l’industria massmediatica fornirebbe i
mezzi e le strategie per un largo consenso. Consenso non difficile da
ottenere presso opinioni pubbliche che sono figlie dell’ideologia del
colonialismo e del razzismo bianco e che sono attualmente prive di
alternative realistiche e credibili.
Mentre si riprendono e si attuano i piani della presidenza
Reagan per la guerra nello spazio, un altro rischio aumenta
fino a proporzioni incontrollabili: quello della rovina già
molto avanzata dell’ambiente naturale. Se ne è parlato
finalmente in termini espliciti, nei giorni scorsi, in relazione sia al
documento della Commissione dell’Unione Europea sia all’ormai non
più dissimulabile scardinamento del tempo meteorologico dovuto
all’effetto serra. L’interesse dei mass media per le cause del
cosiddetto “maltempo” ha dato luogo a grossolane mistificazioni ed
è durato ben poco. Vorrei però dare rilievo al diverso
comportamento dei mass media di fronte ai due grandi problemi, guerra e
ambiente. Mentre in tema di guerra il tono dominante è l’allarme
teso alla giustificazione delle spedizioni militari, e la designazione
del nemico prossimo è chiara e ben programmata, a proposito di
rischio ambientale la consegna è quella della tranquilla
rimozione. Le soglie di pericolo per l’inquinamento dell’aria vengono
elevate per imperio burocratico. Il rapporto della Commissione europea
sul riscaldamento globale ha “tenuto” due o tre giorni nei titoli dei
quotidiani e nelle immagini televisive; ma alla gente che vuole capire
le ragioni di quest’inverno improbabile si sono fatti discorsi
più o meno spensierati sulle stranezze della natura – abbiamo
già mimose in fiore e asparagi, peschi in fiore e ulivi secolari
impazziti, il grano è già uscito 12 o 15 centimetri da
terra, pesci e uccelli hanno perso l’orologio delle migrazioni, il
letargo di molte specie è più breve e non completo. Noi
sappiamo che questi sono i frutti di una rottura del patto con la
natura, quello entro il quale si è svolta tutta la storia umana;
ecco la potenza terribile di una prassi sregolata che ha come
riferimenti prevalenti il profitto e la crescita, l’avere e non
l’essere. I mass media non hanno comunque messo in chiaro la relazione
tra deregulation dell’attività economica e deregulation dei
rapporti con l’ambiente: quello è un terreno minato, il pubblico
che acquista e consuma non deve troppo riflettere sui vari nessi che
tengono insieme l’equilibrio di Gaia.
Già dopo due o tre giorni i titoli ci hanno quindi invitato a
considerare le ricadute vantaggiose di tutto ciò, e suggerito di
convivere con l’effetto serra, con la desertificazione, le alluvioni,
lo scioglimento del Polo Nord. L’uomo deve adeguarsi al dominio del
mostro da lui stesso creato, gustandone i benefici. Un titolo del
“Corriere della sera” del 20 gennaio diceva: «Rassegniamoci a
diventare più tropicali». Il professor Prodi del Cnr:
evento raro, ma si ripeterà. Le previsioni? Impossibili.
L’industria culturale è impari ad affrontare quello che si
preannuncia come il trauma più grave, e forse la morte
dell’umanità.
Il “principio responsabilità”
Secondo una certa linea di pensiero, il cui rappresentante più
importante è Günther Anders, il complesso dei rischi
totali, in primo luogo il nucleare e l’ambientale, ha aperto una
forbice (definita come gap prometeico) – tra l’intelligenza creativa
dell’uomo e la sua capacità di controllarne gli outputs. Ecco le
origini antropiche del mostro. Del gap e delle sue prospettive
apocalittiche occorre prendere coscienza: non per annegare nella
disperazione, ma per fare dell’angoscia un dato di coscienza, una forza
morale e una insostituibile spinta euristica. Una “angoscia amante” –
dice Anders – che ci conduca da un lato ad approfondire il problema e
dall’altro a scendere nelle piazze: una nuova forma di militanza e una
nuova assunzione di responsabilità. L’uomo che si salva non
è lo yesman del sistema, ma un “apocalittico consapevole” e
quindi un ribelle.
Nuova consapevolezza e nuova responsabilità sono anche al centro
della riflessione di Hans Jonas, il cui fondamentale Il principio
responsabilità . Un’etica per la civiltà tecnologica
(1979. ed. it. 1990), insieme con Essere o non essere. Diario di
Hiroshima e di Nagasaki (1958-59, ed. it. 1961) di Anders, costituisce
lo spalto avanzato della coscienza umana in età atomica.
Ma che fanno coloro per i quali la ricerca, l’intelligenza delle cose,
la salvaguardia della vita sono pane quotidiano e doveri elementari? Se
lo sconvolgimento è totale, se il novum del fatto e del relativo
approccio cognitivo ha una portata filosofica universale, occorrerebbe
una disanima delle risposte, dei feedbacks delle varie categorie
intellettuali e professionali. Si va dai dubbi ancora messi avanti da
scienziati bempensanti fisici (“non c’è niente di
scontato”, ha dichiarato il geofisico prof. Enzo Boschi, al “Corriere
della Sera”, 15.1.07) al rifiuto di molti economisti di mettere il loro
sapere alla prova delle suggestioni scientifiche dell’ecologia, alla
diluizione del rischio apocalittico in esistenzialismo metatemporale;
fino all’assenza pressoché totale di una cultura storica
inclusiva del possibile esito nichilista della contemporaneità.
Chi volesse censire le voci degli intellettuali italiani a proposito
dei grandi rischi (ho lavorato anch’io e ho dato tesi in argomento) si
accorgerebbe che la tragedia estrema si prepara nel vuoto. Nessuno pare
accorgersi del fucile appeso alla parete fin dal primo atto, e che
sparerà nel terzo; e nessuno pare interessato a controllarne la
cartuccia.
In campo politico prevale l’ignoranza dei tratti elementari della
condizione autodistruttiva; l’ecologia e il problema della guerra
nucleare non sono che piccole aggiunte ai documenti dei politici:
eppure proprio da quella parte dovremmo attenderci un’assunzione di
responsabilità e perfino qualche abbozzo di gestione sociale dei
rischi. Lo stesso si può dire, in generale, di giornalisti e
pubblicisti. Ogni giornale ha un “esperto” di ambiente. Ma questi
è già ideologicamente selezionato, e comunque non
può superare certi limiti di fair-play e si esprime in termini
morbidi e possibilisti. È molto raro che i grandi giornali
sollecitino il parere di studiosi che abbiano fatto dell’ecologia e del
declino delle condizioni naturali del pianeta e della vita una scelta
di responsabilità.
C’è un altro aspetto che dev’essere considerato: quello
dell’informazione e direi anzi della riformazione culturale. Il
raggiunto, e poi mantenuto e moltiplicato potere umanicida e
pantoclastico delle armi rimette in discussione da un lato la
costituzione antropologica, dall’altro l’intera vicenda umana, in
particolare la magnifica storia moderna dell’Occidente. E se un
rovesciamento totale di paradigma appare necessario, intanto una
rivoluzione di categorie potrebbe effettuarsi sotto la specie della
responsabilità.
Abbiamo già più volte pronunciato la parola pesante di
questo incontro, che è soprattutto un omaggio a Betty Williams.
Nelle condizioni del nostro tempo responsabilità ha un
significato non solo di scelta etica, ma di coraggio critico. E qui
l’etica della responsabilità di Max Weber deve cedere il passo
al “principio responsabilità” di Hans Jonas. Partendo non dalla
corruzione dell’elemento naturale, ma dagli sviluppi inediti e coattivi
della tecnologia, Jonas distingue l’etica nuova da quella tradizionale,
radicata – anche nei casi dei doveri genitoriali e politici – in un
“contesto a breve termine”. L’etica nuova postula un rapporto nuovo e
responsabile con il futuro, tutto il futuro possibile, che dev’essere
garantito nel presente da un “sapere valutativo” e da un “potere sul
potere”. Al di là dello stesso animus di Jonas, sono parole
rivoluzionarie; ma, egli argomenta, solo di lì possono scaturire
il “sì ontologico” e la priorità dell’essere. Alla sua
volta, sulla stessa linea, Anders propone una “Internazionale delle
generazioni”: il passo relativo merita d’essere citato integralmente,
perché contiene in sintesi della svolte culturali, quella nuova
“rivoluzione copernicana” che il filosofo tedesco proclamava necessaria
e angosciosamente urgente:
Internazionale delle generazioni. Ciò che si tratta di ampliare,
non è solo l’orizzonte spaziale della responsabilità per
i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre
azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le
generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del presente.
Tutto ciò che è “venturo” è già qui, presso
di noi, poiché dipende da noi. C’è, oggi, un’
“internazionale delle generazioni”, a cui appartengono già i
nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla
nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la
nostra casa cadono anche le case non ancora costruite di quelli che
ancora non sono nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa
“internazionale”: poiché con la nostra fine perirebbero
anch’essi, per la seconda volta (se così si può dire) e
definitivamente. Anche adesso sono “solo stati”; ma con questa seconda
morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
Non possiamo più perdere tempo
Da queste prospettive vertiginose veniamo alla prosa quotidiana; e
parliamo, come si suol dire, ma raramente si fa, “fuori dai denti”.
Salvare il mondo si può anche limitando i consumi energetici
personali e familiari. È senz’altro vero, ma suscita sospetto
l’appello al singolo al di fuori di una mobilitazione collettiva, del
silenzio dello Stato, della discutibile gestione del business
energetico, della mancata educazione scolastica ai problemi del futuro,
del clima da entertaiment perenne e volgare dei programmi televisivi.
Il protocollo di Kyoto del 1997 chiama ad un impegno che riguarda in
primo luogo i grandi contraenti pubblici, che deve da essi arrivare ai
cittadini. Alla formidabile domanda: ‘quanto tempo manca ancora?’,
Kyoto aveva cominciato a dare risposte misurate sui prossimi (non
molti) decenni, ma nel presupposto che un primo positivo riscontro
fosse immediato, ciò che invece non è avvenuto. Il mondo
è stato sospinto nella stessa direzione anche dopo Kyoto; negli
Stati Uniti d’America – massimo responsabile economico e soprattutto
politico della situazione anche ambientale del pianeta, il presidente
George W. Bush solo mercoledì scorso in un discorso al
Senato ha pronunciato le parole “emissioni nocive”, e l’ha fatto
essenzialmente per salvare se stesso. I grandi organismi
economico-finanziari internazionali – Banca mondiale, Fondo monetario
internazionale, Organizzazione mondiale del commercio – non si sono
certo segnalati per le loro politiche ambientali: al contrario, il loro
sfrenato liberismo e occidentalismo, la loro concezione della
società mondiale e della proprietà intellettuale, la
pratica della brevettazione sono andati nello stesso senso di chi ha
stracciato il protocollo di Kyoto.
Tocchiamo qui un punto delicato del problema della
responsabilità: cosa significhi l’assunzione di
responsabilità sociale da parte degli individui e, per altro
verso, quali forze o entità dell’economia politica siano
responsabili delle situazioni che ho descritto; infine, quali siano le
vie per rimettere al posto giusto i concetti e le cose.
Se intendiamo riferirci all’onestà e alla coscienza degli
individui, stileremo nobili appelli, ma non giurerei sulla loro
efficacia. Certo anche la protesta e la renitenza individuali sono
importanti, ma esse possono raggiungere almeno parzialmente il loro
scopo solo se diventano di massa, si organizzano, fanno un movimento,
danno luogo ad una elaborazione politica organica. E meglio è se
il soggetto collettivo della protesta coincide con una forza sociale
già presente e attiva in condizioni normali sui problemi
consueti della dialettica sociale. Anche noi singoli siamo, nella
nostra piccola proporzione, “colpevoli” della crisi globale. Ma non
sono mai storicamente convincenti le spalmature universali della colpa,
mentre la scena resta dominata dalla sfuggente concretezza dei poteri
superiori: i macrointeressi economici al profitto, l’ideologia e
l’industria dell’imperialismo, la grande proiezione militarista,
l’apoteosi della tecnocrazia; e – per usare le figure di Carl Schmitt,
“il politico” che integra, ordina e gestisce queste forze e la loro
terribile spinta verso quello che via via, nelle tre fasi del Novecento
di cui ho detto, è diventato il baratro del non-essere. “Il
politico”, in altre parole, è il precipitato statuale che
si eleva sopra tutta la società e presiede alle decisioni di
guerra, e oggigiorno al destino dell’umanità intera, è il
Leviatano che concentra in sé le responsabilità
individuali e le trasfigura in decisione sterminatrice. Quella del
“politico” è irresponsabilità asociale, una
responsabilità sociale a rovescio che viene spacciata come
“Patria”.
Non sempre il rovesciamento avviene in linea diretta, e mai
avviene nella chiarezza. Il postulato di Kant (ma anche di Bentham e di
Marx) della pubblicità degli atti di politica estera è
rimasto un’utopia, tanto più sproporzionata ai mezzi di guerra e
agli olocausti di oggi. Abbiamo avuto sotto gli occhi la vicenda delle
due guerre partite dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan e l’Iraq, e
sostenute anche da voci di alleati e fiancheggiatori a vario titolo; e
abbiamo vissuto le tragedie che ne sono seguite e il fallimento della
strategia americana della “guerra infinita”. Ebbene, a noi sembra
irrazionale che per queste guerre e per la gestione dei loro risultati
lo Stato italiano non solo abbiano mandato proprie truppe, ma abbia
concesso l’uso di basi militari sul territorio nazionale, basi la cui
ragion d’essere è giuridicamente e democraticamente
contestabile.
Ecco l’analisi che dobbiamo fare delle responsabilità politiche
e la contrapposizione che ad esse è stata fatta e viene tuttora
fatta da una larga parte della società. Alla singola guerra si
va attraverso una pluralità di atti, e all’apocalisse attraverso
una pluralità di guerre che mirano anche a preparare il
materiale umano idoneo a quello che il polemologo Gaston Bouthoul
chiama l’“infanticidio differito”, cioè la strage dei ventenni.
Quando si parla di basi americane in Italia – in questi giorni
particolarmente di Vicenza e di Sigonella –, di depositi che vi sono
allestiti di ordigni atomici, di nuove cessioni e militarizzazioni di
territorio, e si minimizza ipocritamente il commercio di guerra
definendo la questione locale e urbanistica – allora io penso che noi
tutti dobbiamo rivendicare la gestione democratica, e anche la
sacralità personale, della responsabilità, revocandola al
politico.
In qualche modo, da qualche parte, in qualche momento
l’umanità deve cominciare questo percorso rivoluzionario e
autocritico del pacifismo come lotta per la propria stessa salvezza.
L’Italia, per la sua posizione geografica, per la sua civiltà
umanistica e artuistica – della quale Vicenza è un
meraviglioso memorial -, per essere stata sciaguratamente parte e
teatro delle due guerre mondiali, per le tradizioni democratiche e
libertarie del suo popolo, può cominciare questo cammino. E
aggiungo, per non lasciare nel vuoto le considerazioni fatte
sull’urgenza della storia: non si può più perdere tempo.
* Lettura tenuta il 26 gennaio u.s. alla Facoltà di Fisica
dell’Università di Roma “La Sapienza” nella manifestazione in
onore del Premio Nobel per la Pace Betty Williams e in ricordo di
Joseph Rotblat. Il discorso era introduttivo al tema della
responsabilità sociale dello scienziato, poi trattato
espressamente da Marcello Cini. “Giano” ringrazia l’organizzatore
dell’incontro Riccardo Antonini.
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