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dicembre 2007
Jorge
Troccoli, il torturatore uruguayano arrestato il 24 dicembre a Salerno,
non è un boia qualsiasi. Scrisse un libro, "L'ira del
Leviatano", nel quale rivendicava i suoi crimini e pretendeva di
frequentare l'Università come uno studente qualsiasi. La sua
storia è paradigmatica della mentalità del repressore
latinoamericano che non ha mai abiurato. Ma adesso che un passaporto
italiano potrebbe evitargli l'estradizione, non si vergogna a
proclamarsi innocente.
Ufficiale
della Marina Orientale, fondata 170 anni fa da Giuseppe Garibaldi,
Jorge Troccoli dopo la dittatura (1973-1985) fu tra i pochi a sentire
il bisogno di articolare una difesa del suo operato che andasse oltre
le parole d'ordine da guerra fredda. Ne nacque un libro, "L'ira del
Leviatano". Senza uscire da una logica giustificazionista delle
violazioni dei diritti umani, vi si leggeva una sorta di più
complessa rivendicazione dell'azione che pretendeva di aver svolto in
difesa della patria, una patria dove gli anticorpi, i militari,
dovevano farsi carico di combattere l'infezione democratica a qualunque
prezzo.
Con
"L'ira del Leviatano", emergeva la pretesa di Troccoli di essere
riconosciuto come un servitore dello stato; voleva essere un
rispettabile rappresentante della sua storia, magari frequentare talk
show, in quanto torturatore, come se fosse normale. L'ufficiale di
Marina con "L'ira del Leviatano" pretendeva insomma di andare in giro a
testa alta. Come se la picana elettrica, il vomito del supplizio, la
diarrea degli sfinteri dei torturandi incontrollati per il terrore, il
liquido seminale degli stupri, il sangue delle ferite che sgorgava a
fiotti, le ossa spezzate di quel sant'Uffizio moderno, i cadaveri
putridi o i corpi ancora vivi gettati nel grande fiume, non lo avessero
in nessun modo schizzato, macchiato, insozzato. O almeno lui, Jorge
Troccoli non si sentiva infangato dalla macelleria della quale era
stato protagonista e continuava a vedersi pulcro nella sua bianca
divisa di gala da ufficiale di Marina.
Mi
incrociai di nuovo con la presenza di Jorge Troccoli a Montevideo alla
fine degli anni '90. Nonostante la democrazia formale fosse stata
restaurata in Uruguay da più di 10 anni, il patto tra politici e
militari per l'impunità vigeva rigidissimo. Troccoli e tutti gli
altri repressori erano liberi cittadini. Non rispettati, ma liberi.
HIJOS, l'organizzazione dei figli di detenuti politici e desaparecidos,
teneva alta la guardia facendo informazione di strada. Andavano nei
quartieri e chiamavano quelle azioni informative e riparatorie
"escratche". "Qui vive un torturatore", spiegavano ai vicini,
distribuivano volantini, macchiavano di rosso sangue le mura dei
condomini bene di Pocitos e di Malvín. Il presidente di allora,
Julio María Sanguinetti, per questo additava come terroristi
quei ragazzi cresciuti nei parlatori delle carceri politiche.
Nessuno,
neanche HIJOS, credo che però avesse individuato Troccoli e
tantomeno fosse riuscita ad escracharlo. Dai suoi cinquant'anni ben
portati si iscrisse e prese a frequentare la Facoltà di Scienze
sociali dell'Università della Repubblica. Cordiale, più
di una persona, studenti e docenti, mi raccontavano stupiti di aver
chiacchierato con lui, scambiato appunti e qualche mate. Era uno
studente attempato qualsiasi, assiduo, partecipe e con buon profitto.
Ancora una volta Jorge Troccoli voleva sfuggire al suo passato senza
abiurarlo né smettere di rivendicarlo, come il suo libro aveva
testimoniato.
Poi
qualcuno lo riconobbe: quello studente in Scienze sociali è
Troccoli, il marinaio torturatore. Si aprì un dibattito e gli
studenti finirono per votare e decidere: non vogliamo un torturatore
come compagno di banco, se non lo allontana il decanato, lo espelliamo
noi. La polemica nel paese durò molti giorni. Lui riuscì
a passare da vittima, sono un libero cittadino, ma alla fine dovette
fare un passo indietro evitando il braccio di ferro. Non era con la
forza che il torturatore voleva essere accolto. Non si limitava a
godere delle "rendite da genocidio", ville con piscina,
proprietà, auto di lusso, che tutti i sodali delle dittature
hanno accumulato. A lui non bastava, pretendeva di essere compreso,
amato e stimato perfino dagli studenti universitari, spesso figli di
persone che lui stesso aveva tormentato. Troccoli voleva più
dell'impunità, voleva quello che in nessuna società umana
quelli come lui possono pretendere se non con la forza della paura;
voleva il rispetto.
Poi
il clima è cambiato. Quando pochi giorni fa Gregorio
Álvarez, il dittatore del quale fu uno stretto collaboratore, fu
arrestato a Montevideo, il mandato di cattura a lui riservato lo
trovò già da tempo latitante. Si sapeva che era in Italia
e qui è stato arrestato la vigilia di Natale. Qualcuno nel 2002
ha ben pensato di concedergli la cittadinanza italiana nonostante ne
fosse palesemente indegno. E lui se ne fa scudo per evitare che la
giustizia faccia il suo corso.
Adesso
Troccoli non sfida più l’opinione pubblica, non rivendica
più il Leviatano né pretende rispetto. Anzi, per la prima
volta si dichiara innocente e perseguitato da un paese che sta
finalmente facendo i conti con il proprio passato. I calcoli di
Troccoli sono molto più spiccioli e si avvicinano a quelli di un
delinquente comune. “Ho fiducia nella giustizia italiana” afferma, e
suona sinistro pensare che anche per lui oggi l’Italia possa essere il
luogo dell’impunità. In quanto cittadino italiano non
sarà estradato in Uruguay e tanto gli basta. E l’onore della
bianca divisa da ufficiale di marina è stata sempre una pietosa
bugia.