Durante l’aggressione all’Iraq ci si domandava: la “via speciale
tedesca”
scelta da Schröder contro l’unilateralismo di Bush in Iraq ed
altrove porterà
prima o poi ad un contrasto con gli USA ? Oppure
esistono delle possibilità per una politica
della distensione in Europa? Questi interrogativi sono stati al centro
del
libro di Jürgen Elsässer “La via speciale tedesca. Tra
eredità storica e sfida
politica” (“Der deutsche Sonderweg. Historische
Last und politische
Herausforderung“. Diederichs
Verlag,
aprile 2003, 264 pagine, 19.95 euro), che rimane attualissimo
nonostante - tra
l’altro - le recenti elezioni politiche in Germania. L’attivismo
diplomatico e
militare tedesco, infatti, sostanzialmente non ha mutato metodi ne’
obiettivi
nel passaggio dai governi di centrodestra (era Kohl) a quelli di
centrosinistra
(era Schröder), e non c’è ragione per attendersi
cambiamenti sostanziali
nemmeno con la Grosse Koalition. I commentatori attribuiscono ad Angela
Merkel
(CDU) una linea più filo-atlantica, ma sugli schieramenti
internazionali nella
CDU convivono più sensibilità. Le scelte geo-strategiche
di fondo della
Germania sono in effetti condivise dal centrosinistra e dal
centrodestra: si
pensi al ruolo svolto nella distruzione della Jugoslavia, alla presenza
delle
truppe tedesche in missioni militari come quelle in Kosovo ed in
Afghanistan, o
ai più recenti sforzi
compiuti per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza ell’ONU. Recentissimamente è ricorso
inoltre
il decimo anniversario del voto bipartisan con il quale il Parlamento
tedesco
autorizzò per
la prima volta dalla II Guerra Mondiale le cosiddette “missioni fuori
area” per
il proprio esercito, invertendo il dettato costituzionale ai danni
della
Jugoslavia.
Uno degli atti più recenti compiuti da Schröder nella veste
di premier è stata
la firma con Putin, in visita a Berlino ad inizio settembre,
dell’importante,
strategico accordo sulla realizzazione di un grande
gasdotto che percorrerà tutto il Mar Baltico, dalla Russia (nei
pressi di San
Pietroburgo) fino alla Germania, aggirando i paesi baltici e la Polonia
che
sono tra i più fedeli alleati degli USA e tra i più
ostili ad una politica di
pace nei confronti della Russia. Questo accordo appare come una tappa
ulteriore
della “via speciale tedesca”, cioè del processo di
autonomizzazione dagli USA.
Abbiamo rivolto ad Elsässer una serie di domande allo scopo di
caratterizzare
meglio questa “geopolitica tedesca”.
D: Nel tuo libro “La via speciale tedesca” hai evidenziato una
differenza tra
la “via speciale” che il cancelliere Schröder ha scelto alla
vigilia della
guerra contro l’Iraq, e che ha implicato il rifiuto della politica
aggressiva
statunitense, da una parte, e le scelte autonome effettuate in passato
dalla
“Grande Germania”. Dunque
tu non vedi in Schröder alcuna riedizione
di quel guglielminismo o bismarckismo di cui lo hanno accusato i suoi
critici
borghesi. La Germania rosso-verde è insomma una “potenza di
pace”, come ha
detto la
SPD nel corso della sua ultima campagna elettorale europea?
R: Certo che no: nel 1999 i rosso-verdi hanno aggredito la Jugoslavia!
Ma è
semplicemente assurda la tesi secondo cui Berlino avrebbe rispolverato
la “via
speciale tedesca” solamente nel 2002-2003, quando
insieme a Parigi e Mosca disse NO alla aggressione contro l’Iraq.
Innanzitutto,
uno che fa quello che fanno tutti gli altri, non può trovarsi su
di una “via
speciale”. Con il rifiuto della campagna di guerra in Iraq la Germania
ha
assunto la stessa posizione di circa l’ 80-90 per cento dei paesi del
mondo. Se
prendiamo come unità di misura non i governi, bensì i
popoli del mondo, allora
notiamo che il dissenso è stato ancora più vasto,
poichè alcuni degli alleati
degli Stati Uniti - come Tony Blair, José Aznar e Silvio
Berlusconi – hanno prestato
il loro voto contro la volontà pressante della maggioranza nei
rispettivi
paesi, mentre la legittimazione da parte di altri sostenitori di Bush,
quali i
“neo-europei” dell’Est, era quantomeno
incerta. Probabilmente nessun episodio politico della storia tedesca
recente
(per non dire di quella della fase antecedente il 1945) ha visto la
Germania
tanto in sintonia con il resto del mondo quanto la crisi irachena.
In secondo luogo, non si può attribuire una volontà di
“via speciale” ad un
governo nel momento in cui esso semplicemente difende il monopolio
della forza
da parte dell’ONU e la sovranità degli Stati
garantita nella Carta dell’ONU stessa. Sarebbe una contraddizione in
termini.
Chi persegue una strada autonoma, o mira ad essa, deve temere il
dibattito e le
conseguenti contraddizioni in sede di Nazioni Unite.
Chi vuole sottomettere a se altri Stati deve innanzitutto violare la
loro
sovranità. Perciò la Germania si separò dalla
Società delle Nazioni poco dopo che
Hitler ebbe preso il potere, e viceversa la
Società delle Nazioni incominciò a ricostituirsi nella
forma delle Nazioni Unite solo dopo la
fine del regime
nazista. In terzo luogo, un asse con
Parigi è certamente una garanzia contro il riaffiorare del
passato. La Francia
è il nemico storico, contro il quale tutte le “vie speciali”
tedesche si sono
rivolte in passato. La
coscienza nazionale tedesca si è formata nelle guerre di
liberazione contro Napoleone; secondo
Ernst Moritz
Arndt, l’odio verso i francesi è la vera “religione tedesca”,
una “religione”
che ha avuto degli
slanci di intensità sempre crescente nel 1971, dopo il 1914 e
poi ancora dopo
il 1939. E viceversa: tutti i tedeschi che si sentivano soffocare per
il
bigottume e la reazione imperanti in Germania - da
Heinrich Heine a Marlene Dietrich, fino a Romy Schneider - si sono
sempre
rivolti verso la Senna. Che lo spirito di Liberté,
Egalité e Fraternité potesse
smuovere i tedeschi dalla loro inerzia era anche la
speranza di Karl Marx: “Quando tutte le condizioni interne saranno
soddisfatte,
allora il giorno della rinascita tedesca sarà annunciato dal
canto del gallo
francese.” (1)
In quarto luogo, anche la sintonia con la Russia è un
allontanamento dalla “via
speciale”, non una ripresa. L’odio antislavo è stato messo nel
piatto dei
prussiani in ascesa, dall’ordine teutonico, ed il
pericolo russo era la motivazione principale della I Guerra Mondiale
così come
lo spazio vitale in oriente lo era della II. Con 20 milioni di morti,
il
nazionalsocialismo da nessuna parte ha richiesto un
tributo di sangue più alto che nella Russia sovietica. Eppure ci
sono anche
esempi di collaborazione: i Prussiani ed i Russi combatterono assieme
contro
Napoleone, nel Trattato di Rapallo la Repubblica di
Weimar e l’URSS si trovarono assieme, il patto tra Hitler e Stalin
dette ai
tedeschi mano libera contro i Polacchi. Questi esempi mostrano a quali
condizioni diventa pericolosa una alleanza tra la
Germania e la Russia: e cioè quando e solo quando essa si
indirizza contro il
resto dell’Europa. Non appena l’asse Mosca-Berlino si estende e genera
una
intesa con Parigi, la Germania viene legata da
ambo i lati ed il problema si sgonfia.
In quinto luogo, e forse più importante di tutti: sarebbe del
tutto inedito dal
punto di vista storico se una “via speciale” tedesca consistesse nel
rifiuto
della soluzione bellica. Una cosa simile il
mondo non l’ha ancora mai vista. Il sorgere della Prussia come potenza
mitteleuropea è consistito in una serie di atti di violenza,
l’impero di Bismarck
fu forgiato nella guerra, dopo le devastazioni in
Belgio nel 1914-1915 i tedeschi furono paragonati agli Unni, e che dire
dei
crimini della Wehrmacht soprattutto nella campagna orientale...
È possibile che
si sia ridestato il ricordo di queste
”vie speciali” nel momento in cui oggi il ministro della Difesa Peter
Struck
inneggia alla difesa degli interessi tedeschi ”sull’Hindukutsch”
[altipiano
dell’Asia centrale, in Afghanistan, ndT], e non certo quando
Schröder ha negato
l’invio delle truppe nel Golfo.
D: Puoi riassumere i retroscena economici e le contraddizioni politiche
del NO
di Schröder alla guerra in Iraq?
R: Si è trattato di un NO sulla carta, tutto interno ai rituali
diplomatici. In
realtà, la Germania ha appoggiato la guerra ben più della
Turchia, che pure si
trova sul fronte, e questo attraverso la messa a disposizione degli
aereoporti
e degli spazi aerei, di tutta la infrastruttura, benché la
Costituzione ovviamente
vieti ogni possibile
appoggio ad una guerra di aggressione. Per gli USA la Germania è
stata uno
snodo di interesse essenziale per i rifornimenti aerei. Il motivo per
cui il
rifiuto tedesco della guerra è rimasto in effetti
solo platonico va ricercato nella simbiosi economica con il Grande
Fratello
USA. A causa del suo orientamento verso l’export, il capitale tedesco
nel corso
degli anni Novanta è diventato sempre più dipendente
dagli USA. Mentre le
esportazioni tedesche aumentavano nel complesso
di circa il 90 per cento, le esportazioni di merci negli USA
esplodevano del
217 per cento. Uno ogni cinque euro che le ditte tedesche scambiano al
di fuori
della zona euro è un dollaro, e viene dagli USA. (2) Se
all’inizio degli anni
Novanta gli USA erano solo il sesto dei partner commerciali, adesso,
con una
frazione del dieci per cento, essi sono diventati il secondo
beneficiario delle
esportazioni tedesche. Solo la Francia acquista ancor più
prodotti “Made in Germany”.
(3) Per di più, la Germania ricava profitti più grandi
dallo
scambio commerciale con gli USA che con qualsiasi altro partner (22.7
miliardi
di euro nel 2003, dunque più di un sesto dell’intero ammontare
dei ricavi
dell’export tedesco). (4) La dipendenza indiretta è ancor
più grande, perché il
mercato mondiale nel suo complesso dipende dalla domanda degli USA. La
Repubblica
Popolare Cinese, ad esempio, che lo scorso anno ha acquistato tre volte
più
merci dalla Germania di quanto non facesse dieci anni fa, si procaccia
la
valuta necessaria per questi acquisti attraverso le sue
crescenti esportazioni verso gli USA.
Nella competizione mondiale tra le economie nazionali, è il
capitale tedesco -
che è molto produttivo e non è affetto dal deficit di
quello statunitense - ad
ingaggiare una concorrenza rigorosa ed aggressiva. A
questo proposito, il segretario di Stato alle Finanze Heiner Flassbeck
(SPD),
ora caduto in disgrazia, disse: “Si trasferisce sulle nazioni la
concezione
della concorrenza tra imprese. Questo è pericoloso. Una
impresa può scacciare dal mercato un’altra impresa, ed il
risultato può essere
positivo per la società. Ma la corsa tra gli Stati, a diminuire
tasse e salari,
non porta alcuno Stato ad uscire dalla
competizione. Stati ed economie nazionali non spariscono dai mercati
mondiali
come le imprese, che falliscono o vengono inghiottite da quelle
più grandi.
Dunque, o vengono foraggiate dai ‘vincitori’ (come
nel caso della Germania Est) oppure tendono a difendersi con gli stessi
metodi,
e cioè: svalutano le proprie valute, oppure si ritirano nel
classico metodo di
ritorsione mercantile, il protezionismo.” (5)
Traendo le estreme conseguenze da questo ammonimento dell’esperto
socialdemocratico di finanza, arriviamo a riconoscere l’interesse
strutturale
dell’economia tedesca per la guerra. Che cosa succede
quando uno Stato concorrente, in posizione subordinata, non si lascia
inghiottire volontariamente dal vincitore, come fece la DDR? Che cosa
succede,
se si mette a difendere la propria autonomia, ad esempio
attraverso i dazi, i controlli sulla introduzione di capitale, le
nazionalizzazioni o la difesa della propria industria contro
l’acquisizione
straniera? Ecco allora che lo Stato-canaglia viene
riportato alla ragione con mezzi militari, e la sua economia viene
soggiogata
con la guerra.
Per questa ragione la Germania non nutre alcun dissenso di principio
rispetto
agli USA e ad una politica militare globale. Ma conflitti di interessi
possono
sorgere in casi specifici, perché le forze motrici
della politica delle cannoniere nei due Stati sono diverse. La spinta
aggressiva del capitale monopolistico tedesco deriva dalla sua
situazione
largamente favorevole, e consiste - come per l’impero
guglielmino durante la Prima Guerra Mondiale - nella ricerca di nuovi
mercati e
sfere di influenza. La politica aggressiva dei monopoli statunitensi,
invece, è
piuttosto il risultato di una situazione di
forte disavanzo, per cui essi cercano - come fu per l’economia tedesca
nella
Seconda Guerra Mondiale - di coprire la propria massa fittizia di
capitale
rapinando materie prime e valuta.
Quando gli USA - come nel caso dell’Iraq - attaccano mercati già
tedeschi,
Schröder, il “compare del boss”, si sporge dalla finestra e vince
la campagna
elettorale annunciando una cosiddetta “via speciale”
tedesca. Tuttavia egli non può mettere in questione il ruolo
della Germania
come snodo e retroterra logistico della aggressione, perché una
sconfitta
americana sarebbe ancor meno nell’interesse tedesco di
quanto non lo sia questa guerra: come possono infatti le esportazioni
tedesche
trovare degli acquirenti sul mercato mondiale, se il dollaro, a causa
di una disfatta
militare dei garanti del dollaro, diventa un
pezzo di carta senza valore? Una politica di pace tedesca dunque non
è
concepibile sulla base dello
status quo economico. Fintantoché il potere del capitale di
esportazione non si
spezza, i suoi interessi saranno sempre difesi in Afghanistan come su
altri
fronti analogamente distanti. Ma questo, al
contempo, significa anche che ogni passo verso il rafforzamento della
domanda
interna - e cioè per salari più alti, pensioni e servizi
sociali -
implicherebbe una svolta della politica estera. In questo senso i
sindacati,
che potrebbero (dico: potrebbero) opporsi allo sfascio sociale e
salariale,
rappresenterebbero la forma migliore di movimento per la pace.
D: Perchè gli USA e la Gran Bretagna hanno aggredito l’Iraq? La
situazione
economica interna statunitense ha davvero tanto a che fare con questo,
come hai
sostenuto nel tuo libro?
R: Negli scorsi tre anni la valuta statunitense ha perso il 35 per
cento del
suo valore rispetto all’euro ed il 24 per cento del suo valore rispetto
allo
yen giapponese. Solo dall’ottobre scorso l’ammontare della perdita
è di circa
il 7 per cento [fino a marzo 2005, ndt]. Se facciamo un paragone
storico,
prendendo il marco
tedesco al posto dell’euro, la moneta degli yankee si è
svalutata rispetto a
quella dei crucchi dei due terzi a partire dal 1960. All’epoca per il
biglietto
verde si dovevano pagare 4 marchi, mentre oggi ne basterebbero circa
1,30. (6) Causa
principale di questa evoluzione è la debolezza della economia
americana. Le
merci che questa produce sono tanto scadenti o tanto costose che non
riescono a
piazzarsi sul mercato mondiale. Poiché gli export statunitensi
difficilmente
trovano un mercato all’estero, e persino all’interno vengono preferiti
ad essi
dei prodotti stranieri, nella bilancia dei pagamenti esteri degli USA
si é
aperto un buco
sempre più grande. La sua crescita è esponenziale: nel
1992 si trattava di 50
miliardi di dollari, nel 1998 di 245 miliardi, nel 2000 di 435, (7) per
l’anno
2004 si pronosticavano 600 miliardi e per il 2006 ben 825 miliardi di
dollari
di deficit - più dell’otto per cento del prodotto interno lordo
annuale (PIL).
(8) Per confronto, si
consideri che in Germania l’8 per cento del PIL corrisponderebbe ad un
saldo
commerciale negativo di circa 130 miliardi di dollari USA; viceversa,
il
commercio estero tedesco nel 2003 ha registrato un
positivo di 135 miliardi di euro. Per il finanziamento delle
importazioni, la
Banca centrale statunitense ha emesso moneta aggiuntiva, e tanto
pubblici
quanto privati hanno prodotto titoli con buon tasso di interesse ed
altri
buoni, che sono stati acquistati dall’estero. Al contempo, in questa
maniera,
insieme al deficit con l’estero anche l’indebitamento degli USA verso
l’esterno
è cresciuto. Al termine degli anni Settanta gli
USA erano creditori verso l’esterno per un ammontare netto di 20
miliardi di
dollari; nel 1982 questi crediti, con 231 miliardi, avevano raggiunto
il loro
massimo. Tuttavia, poco dopo sopraggiunse la
svolta e le cifre negative: a partire dal 1985 sono gli USA - Stato,
economia e
privati - ad essere debitori verso l’estero. Nel settembre 2001 il
debito lordo
ammontava a 7815 miliardi di dollari, che - pur
corretti dei propri crediti verso l’estero - si traducono in tutti i
casi in un
indebitamento netto residuo di 3493 miliardi di dollari. (9) Rispetto
ad un PIL
che negli USA ammonta a circa 10mila miliardi di dollari, il debito
estero
corrisponde a quasi il 35 per cento. Si noti, per paragone, che la DDR,
nell’ottobre 1989, fu dichiarata in bancarotta da un gruppo di lavoro
del
Politbüro perché aveva un’indebitamento verso l’occidente
pari a 49 miliardi di
marchi in valuta: vale a dire solo il 16 per cento del PIL della DDR.
(10) Il
presidente Bush ed il capo della FED, Alan Greenspan, devono avere la
stessa
paura che ebbero Hitler, da cancelliere del Reich, ed il suo banchiere
Hjalmar
Schacht: e cioè che la bolla inflattiva monetaria non esplode
solo fintantoché
le proprie truppe riportano vittorie su vittorie. Per il dollaro (e per
tutte
le valute che da questo dipendono) vale oggi quello che valeva per il
Reichsmark durante la Seconda Guerra Mondiale: i creditori
credono al valore stampato sulle banconote
solo finché chiunque sempre ed in qualsiasi posto può
essere costretto con la
violenza militare a scambiare quella carta con delle merci. Tanto
più l’economia
USA scivola in rosso, tanto più aggressiva deve agire la
politica estera
statunitense.
Se valesse la legge dell’offerta e della domanda, il dollaro sarebbe
precipitato
molto più in basso, da tempo. Già da due anni, i ricchi
stranieri ed i fondi
privati internazionali ritirano capitale dai depositi in dollari, e solo l’acquisto sempre crescente di valuta USA da
parte delle banche nazionali di Tokio e di Pechino sostiene ancora il
biglietto
verde. Giapponesi e cinesi con questa politica vogliono mantenere forte
la
valuta USA e deboli le loro, allo scopo di rendere competitive le loro
esportazioni nello spazio del dollaro. Ma quanto a
lungo potranno ancora permettersi di sciupare i loro buoni soldi con
quelli
cattivi americani?
La fine del dollaro come valuta mondiale sarebbe raggiunta qualora il
commercio
internazionale di petrolio non si fondasse più sul dollaro.
L’Iraq era stato precursore di questo sviluppo. Alla fine del 2000,
Saddam
Hussein aveva convertito la fatturazione delle esportazioni di petrolio
iracheno in euro. Questa scelta è stata invertita dopo la
conquista dell’Iraq da parte degli USA. Anche altri Stati, che vengono
minacciati dagli USA, sono tentati di convertire le esportazioni di
petrolio
sulla base dell’euro. Si ragiona in tal senso in Venezuela,
paese dal quale provengono un quarto delle importazioni di petrolio
statunitensi,
nonché in Russia. Nell’ottobre 2003, il Moscow Times pubblicò un articolo intitolato: “Putin:
perché non misurare il
petrolio in euro?” Già alla fine del 2002 la Corea del Nord
passava dal dollaro
all’euro. È dall’anno 2003 che l’Iran chiede che i conti per le
forniture di
petrolio, calcolati in dollari USA, vengano pagati
in euro. In precedenza Teheran aveva già convertito la gran
parte delle sue
riserve di valuta in euro: uno sviluppo che è cominciato anche
in Russia.
Perciò, tanto in Iraq come negli altri Stati sopra menzionati,
anche essi
minacciati di guerra, non si tratta di “sangue per il petrolio” quanto
piuttosto della difesa della capacità di pagamento da parte
degli USA, cosa per la quale d’altronde il controllo sul petrolio non
è
comunque irrilevante. In ultima analisi tuttavia non si tratta tanto di
guerra
per le risorse, quanto piuttosto di un conflitto tra le
valute - dollaro contro euro.
Il collasso economico deve dunque essere impedito con misure di
carattere
extra-economico. A questo proposito, la rivista di Monaco
”Gegenstandpunkt” ha
scritto: “È come se Bush ed i suoi combattenti
contro il terrore volessero sostituire la ‘Legge del valore’
capitalistica con
una vittoria strategica planetaria che si sono prefissi e che vogliono
conquistare in combattimento, fino a sbarazzarsi di quella ‘Legge’ in
questo
modo.” (11) Ma questo chiaramente non può funzionare: “Ma che
vuol dire questo
- in un mondo
che comunque... non viene governato da chi conosce la ‘Legge del
valore’ bensì
da maschere recitanti.” La volta scorsa, questo esperimento osceno
è costato la
vita a circa 60 milioni di persone.
D: Nel tuo libro hai scritto: “Un campo di battaglia decisivo è
stata la
Jugoslavia, e precisamente nei due sensi: lì gli USA hanno
condotto una guerra
calda contro i serbi, ed una guerra fredda contro i
tedeschi. In effetti la Germania aveva appoggiato i secessionisti
albanesi ben
prima degli USA (...) Ma la guerra vera e propria era un progetto di
Washington, e la frammentazione ne è stata la conseguenza
- sia per la Jugoslavia che per l’Europa. Perciò l’aviazione USA
ha bombardato
obiettivi scelti nella provincia della Vojvodina, nel nord della
Serbia, senza
con questo causare alcun disturbo alle manovre
militari nella provincia meridionale del Kosovo. Invece, lassù
sono stati
distrutti i ponti sul Danubio e così è stata paralizzata
– fino ad oggi -
un’arteria decisiva per il traffico tra l’Europa centrale ed
il Mar Nero.” La bombe sui ponti del
Danubio e sulle industrie chimiche, e l’occupazione occidentale del
Kosovo e
della Macedonia, hanno dunque anch’esse qualcosa a che vedere con il
petrolio e
con gli oleodotti?
R: Una parte del petrolio del Caspio - laggiù ci sono le seconde
riserve
mondiali - dovrebbe essere trasportata attraverso il Mar Nero. Nel
porto
bulgaro di Burgas essa dovrebbe poi essere pompata
all’interno di un oleodotto del consorzio AMBO, controllato dagli USA,
che
attraverso i territori albanesi della Macedonia e forse del Kosovo
condurrebbe
fino al porto albanese di Vlora, sul Mediterraneo. Un
contratto in questo senso è stato sottoscritto alla fine del
Dicembre 2004 a
Sofia tra AMBO e gli Stati interessati. Il londinese Guardian ha
scritto in
proposito: “Per l’Occidente questa sarebbe probabilmente
la rotta più importante per il petrolio e per il gas naturale
che adesso
vengono procurati in Asia. 750mila barili al giorno: un progetto
necessario,
secondo l’agenzia statunitense per il commercio e lo sviluppo,
perché...
assegna alle imprese USA un ruolo-chiave nello sviluppo di questo
corridoio
vitale tra l’Oriente e l’Occidente.” (12)
Il britannico Michael Jackson, primo comandante della KFOR [forza
internazionale a guida NATO, che ha preso il controllo del territorio
del
Kosovo dopo i bombardamenti, ndt], ha spiegato il legame diretto
con la occupazione dei Balcani da parte della NATO: “Di sicuro, noi,
qui,
resteremo a lungo, per garantire la sicurezza dei corridoi energetici
che
passano attraverso la Macedonia.” (13)
Le bombe sulla Vojvodina hanno interrotto il corridoio concorrente
della UE,
che dovrebbe servire a pompare il petrolio del Caspio attraverso la
Romania
verso il porto mediterraneo di Rijeka/Fiume e
nell’oleodotto transalpino verso Austria e Baviera.
D: Che cosa significa il recente litigio per i nuovi seggi nel
Consiglio di
Sicurezza dell’ONU?
R: Questa vicenda mostra nel migliore dei modi la insensatezza della
politica
tedesca dalla Guerra irachena in poi. da una parte si vorrebbe
controbilanciare
la potenza USA; ma al contempo non si vuole
rompere con gli USA in nessun caso. È la quadratura del cerchio.
Concretamente:
se la Germania non avesse fatto blocco con il Giappone, essa avrebbe
potuto
guadagnare l’appoggio di Mosca e di Pechino, e
dunque la maggioranza dei voti nella Assemblea Generale. Ma il
Giappone,
strumento asiatico degli USA, doveva per forza essere coinvolto - e
perciò il
fallimento era prevedibile. Lo scontro tra
Germania ed Italia in sede ONU è stato perlomeno una divertente
“lotta nel
fango”: alla fine si sono insozzate entrambe, come era logico.
L’esito (inconcludente) è in fondo positivo per chi si oppone
alla guerra, da
Roma a Berlino.
D: Come è stato accolto in Germania il rifiuto del progetto di
Costituzione
Europea da parte della Francia?
R: La Bild Zeitung - che con 4 milioni di copie ogni giorno è il
quotidiano più
diffuso [si tratta di un tabloid di impostazione scandalistica, ndt] -
ha svolto
subito dopo un sondaggio telefonico
sul tema della Costituzione Europea. Ebbene, 390mila lettori hanno
voluto
partecipare, esprimendosi per il NO nella misura del 96,9 per cento! Ma
che
cosa fa il Cancelliere Schröder? Annuncia, venendo meno
alle sue promesse, che la Germania aumenterà le sue
contribuzioni per la UE -
dunque, ancora la minestra che è stata appena rifiutata...
Quando mai un
governante è stato tanto lontano dai suoi sudditi?
D: Si parla di un asse Berlino-Parigi-Mosca, ma il tuo libro dimostra
che la
posizione tedesca in realtà è contraddittoria. Forse che
l’imperialismo
francese è un avversario più coerente dell’imperialismo
statunitense?
R: La Germania economicamente dipende dagli USA, la Francia invece
dipende
dalla Germania. Un blocco europeo indipendente è concepibile
solo se la linea
Parigi-Berlino viene prolungata fino a Mosca. Il
fondamento di questa alleanza è la ricchezza russa in termini di
petrolio e gas
naturale, che potrebbe emancipare l’Europa occidentale dai rifornimenti
nelle
aree di conflitto tra Africa settentrionale ed
Asia centrale. Ma, al di là di certe le versioni oleografiche,
bisogna tenere
presente che questo asse non sarebbe un asse di pace. Nel mio libro si
fa
vedere chiaramente come Berlino ha conseguentemente
rafforzato la sua posizione di potere in Europa sud-orientale ed
orientale
tanto sotto Kohl quanto sotto Schroeder, e questo spesso giocando con
rappresentazioni revansciste e facendo uso dei suoi mezzi
militari. Ogni impedimento, che fosse di carattere costituzionale o
relativo
alla Carta dell’ONU, è stato allegramente accantonato. Il
capitale tedesco
domina dall’Atlantico fino agli Urali.
Se l’esportazione tedesca di merci e di capitali si rivolgesse verso i
nuovi
partner dell’alleanza anzichè verso l’America, questi potrebbero
sostenere
l’impatto? Che cosa succede nel momento in cui questo
colosso centroeuropeo diventa determinante nelle scelte della Force de
Frappe
[l’esercito francese, ndt], oppure: e se la Russia si mette a costruire
gli
aerei da trasporto per le truppe tedesche (che il
ministro delle Finanze Hans Eichel fino ad ora non ha potuto finanziare)? Putin potrebbe opporsi se la
Deutsche Bank volesse comprare
Kaliningrad - come fu proposto già nel 1989 da Alfred
Herrhausen - e ribattezzarla Koenigsberg? Ed in questa situazione, che
cosa ne
sarebbe dei piccoli Stati centroeuropei, che sono comunque dipendenti
economicamente dalla Germania e sono sottoposti alla
pressione delle lobby revansciste dei profughi? (*)
D: Ti consideri dunque un sostenitore oppure un oppositore del modello
eurasiatico,
cioè di questo asse Parigi-Berlino-Mosca?
R: I pericoli che ho appena elencato rappresentano delle minacce solo a
medio
termine. A breve termine la Germania è costretta a mantenere gli
equilibri
nella costellazione Parigi-Berlino-Mosca, e senza la
”copertura” statunitense non avrebbe la forza di esercitare pressioni.
Da
quando Schröder si confronta con Bush, deve allo stesso tempo
cedere a Chirac
sulle politiche europee: l’esempio più eclatante di
questo è nell’aver sacrificato il Patto di Stabilità. I
criteri che esso
fissava per regolare i conti domestici erano stati usati inizialmente
dalla
Germania contro la Francia ed il „Club Mediterranée”
(così lo aveva chiamato l’allora
Ministro delle Finanze Theo Waigel), per costringere questi paesi ad
una rigida
politica di
risparmio secondo il modello tedesco. Se la Germania rimanesse dalla
parte
dell’America, la conseguenza
immediata sarebbe una marcia comune verso ulteriori guerre: Iran,
Siria, Arabia
Saudita, Corea del Nord, Cuba, ed alla fine persino l’aggressione
contro la
Russia o la Cina, il che vorrebbe dire la
guerra atomica.
Se le crociate di Bush falliscono, l’economia statunitense soffre di
una crisi
ulteriore e, di conseguenza, non può più assorbire le
esportazioni europee,
allora si potrebbe affermare l’opzione eurasiatica. Ma se questo non
avviene
secondo un piano ed in maniera graduale, bensì precipitosamente
e come
conseguenza di sviluppi catastrofici
sui campi di battaglia o sulle borse, allora le elites
politico-militari
eurasiatiche finirebbero con l’impigliarsi in contraddizioni e
contrasti.
Ma anche nel caso più favorevole ci vorrebbe comunque molto
tempo prima che una
blanda intesa si consolidi in un blocco militare alternativo, il quale
allora
potrebbe perseguire a sua volta degli
obiettivi in maniera aggressiva. Bisogna tenere presente la
difficoltà con cui
si vanno costruendo delle strutture di difesa per l’Unione Europea. Una
rottura
nell’Alleanza Atlantica comporterebbe pesanti
turbolenze anche all’interno dell’Unione Europea nella forma in cui la
conosciamo adesso - sotto il fuoco di sbarramento dei governi
filoamericani,
una integrazione, ed in particolare una integrazione
militare, potrebbe procedere ancor meno di adesso. Se poi pensiamo alla
Russia,
con la sua tradizione e la sua geopolitica completamente
diverse, ci facciamo un quadro delle
difficoltà che una eventuale
nuova alleanza dovrebbe affrontare sin dalla nascita. In generale
possiamo
dire: la politica aggressiva che la Germania ha perseguito sin dalla
riunificazione, è stata messa in atto di norma con l’appoggio o
sotto la
copertura degli USA - e contro l’opposizione, aperta o mascherata, di
Parigi o
di Mosca o di
entrambe. Se Berlino si impegnasse in una alleanza con queste potenze,
allora
sarebbero indispensabili correzioni e compromessi in politica estera.
Un allontanamento dall’America causerebbe anche sconvolgimenti nel
panorama
politico interno. I Verdi probabilmente farebbero fronte al meglio alla
nuova
situazione, adattandosi in modo flessibile a
qualsiasi cosa come hanno fatto sempre negli ultimi anni, ed acquisendo
così
potere e risorse. Però per la Unione [CDU-CSU] la cosa potrebbe
essere
drammatica, perchè esiste già una minaccia di
scissione tra un’ala atlantista ed una gollista. Analogamente, anche la
FDP
potrebbe spaccarsi in una frazione globalista-neoliberale ed in una
europeista-nazionale. Nella SPD avrebbero perso tutti gli
argomenti contro Lafontaine, che è da sempre più vicino a
Parigi che non a
Washington, o a Berlino addirittura.
In questa atmosfera turbolenta ed in vista dello scioglimento dei campi
politici tradizionali, una terza posizione avrebbe qualche
possibilità di
affermarsi: la finlandizzazione o, per meglio dire, la
ellenizzazione del continente. Il rapporto Parigi-Berlino-Mosca non
come nucleo
di un asse militare, bensì come nodo di una rete di pace
eurasiatica. Nessuna
corsa agli armamenti, ma piuttosto un disarmo
generalizzato; nessun intervento in giro per il mondo, bensì il
ritiro delle
truppe; i profitti di pace verrebbero usati per l’economia civile, per
la
formazione e per la cultura; la Jugoslavia distrutta
dalla guerra ed i paesi dell’Est sprofondati nella miseria dal
neoliberalismo
sarebbero ricostruiti. Un’area di pace da Brest fino
a Vladivostok... Una federazione di repubbliche
sovrane, così come
l’antica Grecia era una federazione di libere città - la vecchia
Europa nella
sua forma più bella. A Pietroburgo o piuttosto a Leningrado,
punto di
intersezione storico tra l’Est e l’Ovest,
potrebbe riunirsi il Parlamento di questa federazione! Una simile
unione di
Stati non minaccerebbe nessuno. Anche l’America dovrebbe sentirsi non
più
sfidata e potrebbe ritornare alle sue virtù isolazioniste. Atene
e Roma si
riconcilierebbero. È possibile una cosa simile nell’ordine
economico dominante?
No, ovviamente essa è possibile solo contro di esso. In ogni
caso, in Germania
lo status quo è non solo nell’interesse del complesso
militare-industriale, ma
anche nell’interesse generale del grande capitale. Per il suo
orientamento
alle esportazioni senza frontiere essa ha bisogno
di sicurezza militare. Ma noi, cittadine e cittadini,
dobbiamo vivere per questo in continua apprensione di guerra?
La “via speciale” tedesca, percorsa sin dalla riunificazione in
alleanza con
gli USA, è una via verso la catastrofe. Una rottura con
l’America è l’offerta
del minuto. Il paese tra il Reno e l’Oder
potrebbe finalmente trovare la pace
mettendosi alla pari con i suoi vicini all’Est ed all’Ovest.
(a
cura di A.
Martocchia)
NOTE:
(1) Karl Marx, „Einleitung zur Kritik der Hegelschen
Rechtsphilosophie“, pag.224
(2) isw-Wirtschaftsinfo Nr. 34, München 2002, pag.12
(3) Vedi: DIW-Wochenbericht 10/2003
(4) Bmwa, Entwicklung des Außenhandels der Bundesrepublik
Deutschland
2003 („Sviluppo del commercio estero della RF di Germania nel 2003“)
(5) „Lafontaines
letzter Kampf“ („L’ultima battaglia di Lafontaine“),
in: Konkret 11/1999 (www.konkret-verlage.de)
(6)
The passing of the buck?, in: The Economist , 2.12.2004
(7) Kreditanstalt für Wiederaufbau, Das Leistungsbilanzdefizit der
USA – eine Gefahr für die Weltwirtschaft? (“Il deficit
di bilancio USA
- un pericolo per l’economia mondiale?”), Frankfurt/M. 1999
(8) The disappearing dollar, in: The Economist, 2.12.2004
(9) Dati della Banca Centrale USA, accessibili da: www.federalreserve.gov
(10) Siegfried Wenzel, vice presidente della Commissione per
la
pianificazione della DDR: “La DDR non era in bancarotta”, in Konkret
10/1999; Wenzel ritiene che la cifra di 49 miliardi di marchi in
valuta sia eccessiva, e che sia stata usata dai riformisti della SED
solo per far cadere Ulbricht
(11) “Gegenstandpunkt” 3/2002
(12) Vedi Michel Collon, Après le Kosovo, la Macédonie,
testo fatto
circolare in internet il 15.3.2001
(13) Michel Collon, ibidem
(*) Si pensi alla questione dei Sudeti per la Repubblica Ceca, alla
Slesia ed alla Pomerania per la Polonia, o agli “svevi danubiani” che
agitano le loro rivendicazioni sulla Vojvodina e sulla Romania,
analogamente a quanto fanno gli esuli italiani di Istria e Dalmazia ai
danni di Slovenia e Croazia. (ndt)
SCHEDA: JÜRGEN ELSÄSSER
Jürgen Elsässer, giornalista e saggista, esperto di politica
internazionale, lavora per diversi periodici della sinistra di lingua
tedesca, tra i quali il quotidiano di Berlino “Junge Welt” ed il
settimanale “Freitag”. Elsässer ha scritto una dozzina di libri su
questioni di politica estera, specialmente incentrati
sull’imperialismo tedesco e sui retroscena della distruzione della
Jugoslavia. Questo autore è conosciuto in Italia in particolare
per
”Menzogne di Guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel
conflitto per il Kosovo” (Napoli, La Città del Sole, 2002;
versione
italiana di “Kriegslügen - Vom Kosovokonflikt zum
Milosevic-Prozess”,
edito da Kai Homilius Verlag, Berlino, ultima edizione aggiornatissima
2004): si tratta di uno dei pochissimi testi editi nel nostro paese a
proposito della disinformazione strategica sulla guerra nei Balcani e
sui crimini di guerra della NATO. Elsässer è stato varie
volte di
recente nel nostro paese, su invito del Coordinamento Nazionale per la
Jugoslavia, per presentare i suoi libri in una decina di iniziative
pubbliche. L’ultima occasione, la scorsa primavera, è stata data
dalla
presentazione del suo lavoro più recente, “Come la Jihad giunse
in
Europa. Combattenti di dio e servizi segreti nei Balcani”.
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Ulteriori informazioni ai siti:
http://www.juergen-elsaesser.de
http://www.cnj.it/INIZIATIVE/roma290305.htm