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inchiesta 12.02.07
aggiornamenti dicembre
Cronaca dell’Associazione Solidarietà Parenti e Amici degli Arrestati il 12/02/07 sulle udienze 19, 20, 21, 22 del processo in corso a Milano contro i compagni e la compagna arrestati nell’ambito dell’operazione “Tramonto”.

Udienza del 4 dicembre
Aperta l’udienza prende subito la parola il compagno Alfredo Davanzo annunciando che tutti gli imputati detenuti se ne andranno dalla gabbia quando in aula verranno i cosiddetti “collaboratori di giustizia”, oramai squallidi individui e collaboratori di professione che nulla hanno a che fare con questo processo e con i compagni. Invita i giudici a chiamarli per il processo a Ganzer (capo dei Ros sotto inchiesta per narcotraffico) e aggiunge, consegnando alla Corte un comunicato intitolato “Noi non ci saremo”: “A ognuno i suoi amici”.
Anche un compagno ai domiciliari interviene dicendo che anche loro lasceranno l’aula.
Nella prima parte dell’udienza devono essere sentiti anche altri testi citati dalla Pm, primo il compagno Giuseppe Di Cecco che, non presente, ha inviato un  fax in cui annuncia che avvalendosi della facoltà di non rispondere (prevista per testi inquisiti) ha deciso di non comparire.
Seguono due testi, sempre dell’accusa, che fa una figuraccia in quanto, invece che confermare le deliranti ipotesi delittuose sul prestito delle loro autovetture ad alcuni imputati, il primo descrive attività sociali del Centro Popolare Gramigna tra cui la festa di capodanno e la lotteria, l’altro, alla domanda su che macchina possedesse, risponde che non ha nemmeno la patente.
Arriva poi un dirigente di un’azienda di vigilanza per una tentata rapina accorsagli nell’88.
Segue poi la “famiglia” Maniero: Giulio, Felice e il suo autista Zampieri.
La difesa protesta: i fatti non hanno nulla a vedere con questo processo! Le loro deposizioni lo confermano: Maniero dice che la rapina dell’88 ai danni di Agnoletto era una sua rapina a cui aveva partecipato il Di Cecco (divenuto suo amico in carcere e con il quale era evaso) con altre persone che non conosceva.
La Pm inviperita dalle proteste della difesa anticipa parte del suo delirante teorema sull’unità tra la malavita e il “terrorismo” basandosi su altrettanto deliranti testi di dubbia provenienza che, secondo lei, sarebbero un’autoaccusa, in forma autobiografica, dell’imputato Latino.
Per dimostrarlo insiste con i testi sia sul riconoscimento dei compagni che sui rapporti tra la banda di Maniero e il clan Fidanzati ma, anche questi vengono smentiti da Felice Maniero stesso.
Dopo molta insistenza e l’imbeccata sul numero della foto da riconoscere, la numero 6 raffigurante il compagno Claudio Latino,  il Zampieri dice: “l’unica foto che in qualche modo potrebbe ricordarmi qualcosa è la numero 6”. E, a precisa domanda della difesa risponde: “Potrebbe assomigliare, non dico con certezza”
Solo il giornalista di “Il Padova”, battendo in infamia anche il “Gazzettino”, ha deciso di fare una pagina intera sui rapporti tra “terrorismo” e la Banda Maniero mentendo spudoratamente su ciò che era emerso in aula.
Nell’ultima parte dell’udienza la difesa si oppone a che il teste principale del processo Valentino Rossin venga ascoltato in videoconferenza. Non sussistono in questo caso le ipotesi previste dalla normativa di legge per questo tipo di audizione quindi opporranno nullità e denunciano l’incostituzionalità dell’applicazione della norma.


- Di seguito riportiamo il comunicato dei compagni detenuti in carcere e quello dei compagni detenuti agli arresti domiciliari.

AL PRESIDENTE DELLA I° SEZIONE DELLA CORTE DI ASSISE DI MILANO
DOTT. LUIGI DOMENICO CERQUA

“NOI NON CI SAREMO”

Noi, militanti comunisti imputati in questo processo, dichiariamo che oggi e nelle prossime udienze abbandoneremo l’aula nel momento in cui sfileranno i cosiddetti pentiti o collaboratori di giustizia. Un solo compagno rimarrà in aula in semplice qualità di osservatore.
Questa decisione ci coinvolge tutti perché non vogliamo legittimare in alcun modo, nemmeno con la nostra presenza critica, la produzione e l’utilizzo giudiziario di queste figure. Figure di testimoni della corona, aberrazioni giuridiche che caratterizzano oggi il diritto borghese e che ne svelano anche la natura di strumento di oppressione in mano alla classe dominante.
La produzione di queste figure sembra ormai essere il principale scopo di questa giustizia.
Si coltiva la prostituzione dell’identità dei singoli con l’intento di utilizzare il tradimento e l’infamia come armi di distruzione di massa contro la collettività; nel nostro caso contro comunisti che lottano per la difesa strategica degli interessi della loro
classe. Anche nell’inchiesta che ci ha coinvolto, infatti, è stato fatto il massimo sforzo per produrre figure di questo tipo, come testimoniano il trattamento particolare riservato agli imputati, i mesi e gli anni di isolamento, le speciali condizioni di detenzione in reparti di tipo punitivo che hanno interessato diversi di noi. Questo lavoro di cui il PM si è dimostrato tenace cultore ha prodotto unicamente il cosiddetto pentimento di Rossin. E basta leggere i verbali dei suoi interrogatori per avere una chiara visione di come “il gioco del gatto con il topo”, condotto dalla pubblica accusa, ha portato alla distruzione dell’identità e alla prostituzione di una persona che è stata trasformata in un rottame, portandolo così a dire, anche se con una certa “fatica”, tutto quello che da lui si è voluto fosse detto.
Ma evidentemente non è bastato visto che, nei mesi successivi agli arresti del 12 febbraio 2007, per gli inquirenti, la compattezza degli imputati era da considerarsi così negativamente da essere motivo di non concessione degli arresti domiciliari per alcuni. Quindi si è pensato bene di colmare la carenza attingendo a figure “storiche” dell’infamità criminale appartenenti alla cosiddetta mafia del Brenta. Ecco così letteralmente comparire nel processo Felice Maniero, alias “Faccia d’Angelo” e alcuni suoi accoliti, tutti personaggi della malavita locale veneta poi convertiti in spacciatori internazionali di eroina per approdare, in conclusione, al ruolo di collaboratori dello stato.
Un personaggio, il Maniero che ha sempre saputo tutelare bene i suoi interessi nelle trattative con le bande armate dello stato come si era potuto vedere anche nella eclatante vicenda del mento di S.Antonio, sottratto alla Basilica del Santo a Padova per essere scambiato, tramite restituzione concordata, con un trattamento di favore da parte di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri che su questi intrallazzi coglievano i meriti per fare carriera. Nell’accordo di “pentimento” finale poi è stata compresa la salvaguardia dell’intero patrimonio costituito dai proventi delle attività cosiddette illecite, a testimonianza del fatto che lo stato borghese può accogliere il “figliuol prodigo” riconvertendolo in stimato miliardario, coperto da una nuova identità, nonché titolare di alcune fabbriche tessili in modo che possa regolarmente realizzarsi nel ruolo di pescecane sfruttatore.
Evidentemente la moralità non ha più niente a che fare (se mai ne ha avuto) con la borghesia e con la sua giustizia.
Ma, lasciando perdere le questioni morali, che dovrebbero sorgere in merito all’utilizzo ai fini di giustizia di queste persone, a noi interessa denunciare politicamente che questo utilizzo viene messo in atto nel processo con l’intento di destabilizzare l’identità collettiva comunista e rivoluzionaria di noi imputati.
Anche questa è un’altra evidenza della debolezza politica dell’accusa che deriva dalla debolezza politica della borghesia di fronte alla crisi del suo sistema e alla lotta di classe condotta dai lavoratori e dal proletariato.
Per cercare di negare la possibilità e la necessità della rivoluzione proletaria tutte le armi sono buone e tutti i collaboratori vengono chiamati all’appello.
Con questi personaggi noi non abbiamo niente a che fare mentre molto ne hanno i solerti e prezzolati funzionari dello stato che con loro hanno trattato, con cui hanno fatto accordi miliardari.
Con questi accordi la borghesia li ha accolti tra le braccia della sua legalità e oggi pagano l’ennesima rata del loro infame tributo, testimoniando tutto quello di cui vengono imbeccati. Per parte nostra possiamo solo ribadire che abbiamo invece a che fare con i proletari che lottano, con gli operai che si organizzano contro i padroni, con i rivoluzionari che combattono l’oppressione e lo sfruttamento, con i popoli che lottano contro l’imperialismo.

MILITANTI COMUNISTI PRIGIONIERI
DEL PROCESSO AL PC P-M

Milano, 4 Dicembre2008

All'udienza del 4 dicembre sono chiamati a testimoniare dei personaggi noti per la loro appartenenza ad organizzazioni mafiose che non hanno nulla a che vedere con questo processo e con le imputazioni che ci vengono addebitate dalla procura.
Questo non è altro che l'ennesimo tentativo da parte della procura di spettacolarizzare questa inchiesta.
Ma l'aspetto principale è l’ennesimo tentativo di denaturare il carattere prettamente politico di questo processo, comparandolo a reati di criminalità comune e addirittura mafiosa. Questo atteggiamento ha un duplice obiettivo.
- Da un lato equiparare la mentalità mafiosa e l'ideologia politica, aspetto inaccettabile visto che sono in totale antitesi: l'una serve la sopraffazione degli individui in difesa degli interessi economici e del mantenimento del potere di un' élite e quindi rientra perfettamente nell'idea di società che il capitalismo presuppone, mentre il comunismo si fa portavoce di un'idea di società basata sul benessere collettivo in cui lo sfruttamento è bandito.
- Dall'altro lato la procura, tramite queste testimonianze, vuole forzare la propria tesi accusatoria attribuendo ad ognuno di noi imputati uno spessore dal punto di vista criminale che non ci appartiene.
Noi siamo giudicati in questo tribunale perché comunisti e non perché criminali. Ogni tentativo di confondere questi due aspetti è un attacco alla nostra identità politica. Per queste ragioni noi non saremo in aula quando verranno a deporre questi individui perché non vogliamo, con la nostra presenza, avvallare questa logica.
I collusi con la mafia non vanno cercati tra noi, ma in parlamento.

Alessandro Toschi, Alfredo Mazzamauro, Amarilli Caprio, Federico Salotto, Michele Magon.


Udienza del 10 dicembre
In aula il compagno Ghirignghelli, in traduzione dal carcere di Siano-Catanzaro dove ora è detenuto grazie alla Pm che lo ha fatto rinchiudere nuovamente (usufruiva del cosiddetto “beneficio” del lavoro esterno dopo decenni di galera), perché aveva espresso, in uno scambio di battute (intercettate) il desiderio di andarsene.
A noi sembra un desiderio estremamente legittimo!
Le domande della Pm rivolte al teste, fatte con il solito stile forcaiolo, sono state su quello che, anche in altre udienze, aveva chiamato “spessore criminale”. Domande sulla sua vita e sui suoi precedenti che nulla hanno a che fare con i fatti del processo. Alle proteste della difesa la Pm ha ribadito che quel tipo di domande servono per inquadrare il personaggio. Strano che le stesse domande non le abbia fatte anche a Maniero e soci!
Ne risulta che per lei Maniero non ha spessore criminale essendo ora un rispettabile padrone con una nuova faccia e un nuovo nome. Un collaboratore che ha fatto incarcerare tutti i suoi sottoposti, con cui lo stato ha trattato garantendogli l’intero patrimonio proveniente dai suoi efferati crimini e con il quale oggi, alla pari con gli altri padroni, sfrutta i lavoratori.
Ghiringelli ha decisamente negato ogni rapporto dei compagni con la criminalità organizzata e ha affermato dalla sua, purtroppo, lunga esperienza galeotta, che i rapporti che si stabiliscono in lunghi anni di carcere con persone accusate per fatti di criminalità sono rapporti umani e non politici.
E’ stato poi sentito Calogero Diana nell’intento di tornare indietro negli anni per costruire un legame tra le armi trovate nell’imbosco presso la casa di Valentino Rossin (unico imputato collaboratore in questo processo, ora in libertà) e le armi che il teste aveva acquistato quando militava nelle BR. Una testimonianza davvero suggestiva come direbbe la difesa.
E’ stata poi ascoltata una sarta a cui un esponente della banda Maniero aveva commissionato due divise della Guardia di Finanza. L’intento della Pm era quello di dimostrare che erano le stesse trovate nell’imbosco del Rossin, sempre per affermare il legame tra la criminalità organizzata e i compagni. Ma il tentativo è fallito: “Quelle che mi avete mostrato sono fatte male, non penso di averle fatte io, io lavoro meglio”, “La stoffa grossa la mia macchina non la cuce”.
Solo Patanè ha scritto sul giornalaccio “Il Padova” che in aula è stato confermato che le divise
confezionate dalla sarta erano quelle trovate nell’imbosco di Arzercavalli non smentendo la sua oramai provata falsità al servizio dell’accusa.
La Corte respinge le opposizioni dell’accusa dell’udienza precedente sulle modalità di ascolto di Valentino Rossin che verrà sentito in videoconferenza.


Udienza del 15 dicembre
Dei compagni detenuti e ai domiciliari, come annunciato, sono in aula solo alcuni osservatori, così pure fanno i parenti scegliendo di non legittimare le figure degli infami.
Gli avvocati della difesa chiedono la revoca dell’ordinanza della Corte sulle modalità di ascolto del Rossin, per incostituzionalità. La Pm campa la motivazione di minacce ma non è in grado di dire quali siano state. La Corte dopo essersi ritirata conferma la videoconferenza. Così dopo le forzature del paravento e degli incappucciati in aula, la Corte accetta anche la videoconferenza legittimando il livello di scontro e gli strumenti che oggi lo stato mette in campo per reprimere, anche preventivamente, chi si oppone allo stato di cose presenti.
E così assistiamo alla commedia natalizia: le riprese di un’aula spoglia (un po’ simile a quelle del tribunale di Milano!), una recitazione perfetta, cantilenante, solo qualche sbavatura.
”Sono Valentino Rossin, mio padre era falegname…”, proprio come Gesù bambino!….
E così racconta la sua vita di bravo ragazzo peccato però che teneva le armi e che le divise avevano solo il suo dna.  Ma, per lui, come dice alla sua Pm, era naturale avere le armi, per occultarle, come facevano i partigiani, il Veneto è pieno di armi occultate aggiunge.
La Pm ogni tanto lo chiama Valentino ma, poi di fretta si corregge con un Rossin deciso ed è attenta a fare ripetutamente domande (e sono molte) su ogni suo cambio di versione durante i lunghi interrogatori durati mesi sotto l’ala del dirigente della digos di Padova Pifferi. Il cambio di versione è una caratteristica costante di questo novello collaboratore e si manifesta anche durante la deposizione in aula perché, anche se ha studiato bene la parte, il Rossin evidentemente non eccelle ne in memoria ne in intelligenza ma solo in infamia  Il giallo della pausa mette bene in luce questo aspetto. Ha sbagliato una risposta importante tesa ad appioppare ai compagni un attentato avvenuto a Milano e allora la Pm rifà la stessa domanda subito dopo la pausa e, immancabilmente, come tutte le volte che non ha detto ciò che avrebbe voluto la Pm, la risposta cambia. La difesa chiede con chi abbia trascorso la pausa o se ha potuto parlare con qualcuno. La Bocassini insorge! E’ lecito pensare che abbia avuto un suggeritore, la videoconferenza serve anche a questo!
Tra alti e bassi, riferendoci ai toni di voce della Bocassini, suadenti nel riferirsi alla Corte, isterici contro la difesa, il pubblico e gli imputati, termina l’udieza.
Una vera tortura per gli osservatori dei parenti stare in aula per lo schifo del personaggio e per l’accettazione della videoconferenza che impedisce agli avvocati di esercitare a pieno la difesa sul teste principale di tutte le accuse rivolte ai compagni.


Udienza del 18 dicembre
L’udienza del 18 dicembre si svolge in pieno “spreco natalizio” con gran parte delle stazioni del metrò letteralmente ricoperte di manifesti pro Israele: “una vacanza dove tutto ebbe inizio” recitavano. Niente di più vero, è in quella zona che iniziò uno dei più grandi massacri neocoloniali ed è lì che iniziò l’opera di destabilizzazione e occupazione del Medioriente ad opera delle potenze imperialiste. Diciamo questo, ricordando che quest’anno cadeva il sessantesimo anniversario dell’occupazione della Palestina per la quale i nostri compagni prigionieri si sono battuti e si battono tuttora.

L’udienza processuale inizia con l’abbandono dell’aula da parte di Massimiliano e Vincenzo, rimangono nelle gabbie solo Andrea e Bruno, oltre ai compagni agli arresti domiciliari, come osservatori del contro esame del collaboratore dello stato Rossin. Inizia l’avvocato Giannangeli che gli chiede spiegazioni sulle sue continue reticenze e cambi di versione in particolare riguardo le accuse contro i compagni Massimiliano Toschi e Andrea Scantamburlo.
L’infame dichiara che, dopo aver letto le pesanti accuse mosse contro i compagni, tanto valeva nominarli ma che comunque, fino all’ultimo, ha cercato di tutelarli. Spontanea allora sorge una domanda all’avvocato: “Se voleva tutelarli perché, invece, fin da subito, ha affermato di aver riconosciuto Massimiliano Toschi durante le cosiddette prove di sparo, affibbiandogli quindi una delle accuse più gravi? Non è che forse voleva tutelare solo se stesso?”.
Anche perché il Rossin, come gli è stato ricordato in seguito da tutti gli avvocati, il giorno degli arresti aveva in casa una pistola, centinaia di proiettili di diverso calibro, libri sulle armi e vestiti militari nei quali sono state trovate tracce solo del suo DNA. Anche in questa udienza nelle risposte del Rossin i cambi di versione, le “amnesie improvvise” e le contraddizioni non mancano e la Boccassini, ogni volta che il “suo” Valentino è in difficoltà o quando gli avvocati toccano tasti “dolenti”, fa opposizione alle domande.

Afferma, ad esempio, di avere a disposizione solo l’atto delle misure cautelari ma, un avvocato gli ricorda, che ha nominato altri atti che evidentemente aveva davanti. Nega di ricevere soldi dallo stato ma, allora, come fa a campare e mantenere sua madre se nemmeno lavora?
Le imprecazioni della Pm confermano i nostri dubbi.

Un avvocato gli chiede se attualmente è indagato per coltivazione e spaccio di droga, lo conferma ma si rifiuta di rispondere ad altre domande sull’argomento, sostenuto dall’opposizione della Pm.

Emerge dalle domande, dalle reticenze e dalle risposte la figura di uno squallido personaggio, trafficante avido e gretto passato dal mercanteggiare, a prezzi da ladro, miele, propoli, marjuiana e chissà che cos’altro (cosa se ne faceva ad esempio di tutte quelle munizioni in casa?) a trafficare con le vite dei compagni. Uno schifo di essere umano che non ha remore nemmeno a coprire la sua infamia con la mamma. Dice infatti che ha collaborato per la mamma!
La commedia studiata a menadito dall’infame, che addirittura si scusa con la Bocassini quando la sua memoria fa cilecca, continua per tutta la giornata con diversi inceppi: prima non riconosceva i compagni ora li riconosce tutti, prima non si ricordava della motocicletta del compagno Andrea ma adesso si, nei primi interrogatori aveva affermato che le armi gli arrivarono nel 2006 mentre nell’udienza dichiara che sono arrivate nel 2000 e così via. Il bello arriva al termine dell’udienza quando l’avvocato Pelazza chiede a Rossin da dove saltano fuori alcune sue dichiarazioni che non si sa dove e quando siano state prodotte. “Forse durante le lunghe pause tra un interrogatorio e l’altro mentre non si verbalizzava?” domanda Pelazza. Qui le ire funeste della Bocassini costringono perfino il giudice a zittirla per lasciar finire l’avvocato anche se, vista l’ora tarda, è costretto a interrompere l’udienza e a riconvocare l’infame in videoconferenza per la prossima, il 22 gennaio.
Ricordiamo che quasi tutti i compagni per la pausa processuale probabilmente saranno trasferiti nel carcere confino di Siano Catanzaro dove sono assegnati, invitiamo da subito a tenere alta la solidarietà ringraziando tutti coloro, che durante le udienze autunnali, l’hanno espressa in diverse e numerose forme.

Invitiamo fin da subito a una presenza di massa in aula alla ripresa delle udienze di gennaio per salutare i compagni che probabilmente, se trasferiti, per oltre un mese non vedranno nessuno vista la distanza e i soldi necessari a raggiungerli. 
Diamo appuntamento all’udienza del 23 gennaio in quanto in quella del 22, la prima dopo la pausa natalizia, i compagni non saranno tutti in aula perché come hanno dichiarato non vogliono legittimare in alcun modo gli infami.

In questa udienza comparirà anche Ichino, “rosso” come la Pm. L’unico rosso che questi personaggi potrebbero mostrare è quello della vergogna per gli attacchi sui diversi fronti che hanno portato alla classe e al proletariato intero!

Associazione Solidarietà Parenti e Amici degli Arrestati il 12/02/07