Claudio Latino, arrestato il 12/2/2007, dopo essere stato detenuto
presso il carcere di S.Vittore di Milano, sempre in regime di
isolamento, il 11/6/2007 viene trasferito a Livorno e “depositato”
nella sezione di osservazione psichiatrica. Solo dopo l’intervento di
parenti e avvocati e dopo 2 settimane di questo trattamento viene messo
nella sezione EIV dove tuttora si trova.
Riportiamo quanto ha scritto su questa esperienza.
TOUR A LIVORNO – BREVE CRONACA DI ORDINARIA FOLLIA CARCERARIA
“Si prepari che è in partenza”. La voce dallo spioncino
dà la sveglia, l’orologio dice ore 6 di lunedì 11 giugno.
Un’ora per i bagagli.
E’ incredibile quanto roba si accumula in quattro mesi di isolamento.
Un sacco nero di vestiti, uno di libri, cancelleria e corrispondenza,
uno piccolo da accessori bagno, una borsa di roba da cucina e alimenti.
Data l’ora il commiato con il popolo di san Vittore si riduce al saluto
dei lavoranti che passano e a piccole eredità alimentari da
lasciare ai pochi di cui si ha una minima conoscenza.
Scarpinata, carico come un mulo lungo, lungo i vari corridoi e cortili
fino all’entrata furgoni. Parcheggio in “camera di sicurezza” stile
scantinato lurido. Perquisa e breve interlocuzione con il capo
scorta che con tono lievemente sprezzante comunica la
destinazione: Livorno. La parola evoca diversi collegamenti dalla
fondazione del PCI alla squadra di calcio con al tifoseria di compagni,
ma nella toponomastica carceraria richiama cose non proprio piacevoli.
Comunque otto ore di furgone in una gabbia dove quando entri il primo
pensiero è: “meno male che sono piccolo” e il campo visivo
è tutto sforacchiato. Dopo un po’ il passatempo delle acrobazie
visive per guardare il paesaggio diventa troppo costoso con l’immagine
ridotta a palline che ti rimbalzano nel cervello. Meglio far finta di
dormire.
In certe situazioni sembra che il corpo apra autonomamente una sua
linea di scontro e una pisciata ogni due ore diventa una cosa
imprescindibile con al conseguente “querelle” con la scorta. Tappe:
Lucca, Massa, Pisa. Ogni tappa un detenuto e così scopri che in
partenza si era in quattro. Gli altri tutti arabi.
Arrivo a Livorno ore 15.30. Impatto asettico, senza presenza umana.
Telecamere, cancelli e blindate che si aprono con comando a distanza.
La scorta mi parcheggia in camera di sicurezza telecamerizzata e
con spioncino sigillato. Per più di un’ora non vedo nessuno
della nuova “custodia”. Poi arrivano, passaggio in locale
perquisì, nudo, flessioni, setaccio bagagli. Non “passa”
l’orologio di “metallo”, le scarpe che impertinenti suonano al meta
detector e tutta la roba da mangiare.
Pratiche di accettazione: impronte, foto e visita medica. Poi di nuovo
scarpinata da mulo tra telecamere e cancelli elettrici. Destinazione
finale cella nuda. Non c’è niente: niente tavolo, niente
sgabello, niente armadietto, solo il letto. Con l’ultima pisciata
scopri che nemmeno lo sciacquone della turca funzione e così
capisci la ragione del fetore che tormenta le narici. La ciliegina
è la finestra con una lamiera bucherellata saldata alle sbarre,
nel solito stile campo visivo “a palline”. Inevitabile diventa
l’apertura di un “cortese contenzioso” per un immediato cambio
cella, con il custode di turno. E come sempre nella
contraddizione affiora la realtà: sezione di osservazione
psichiatrica per detenuti sottoposti a regime di alta sorveglianza.
Ottenuta la sistemazione in una cella “accessoriata” senza lamiera alla
finestra, e con lo sciacquone funzionante spunta impetuosa nella mente
il quesito: “ Che cazzo ci faccio qui?”
Trentacinque chili in settanta giorni. Calo ponderale per sciopero
della fame. E’ il mio coinquilino dirimpettaio di cella. Tunisino,
traffico di coca, alta sorveglianza. Oltre allos sciopero della fame ha
fatto anche dieci giorni di sciopero della sete che gli ha ridotto la
funzionalità urinaria al 40%. Non è preso bene, lo
imbottiscono di psicofarmaci e tranquillanti. Ha tentato più
volte il suicidio, dice di non sopportare la detenzione e a vederlo
risulta difficile non credergli.
C’è molto silenzio, respiri aria di depressione. La vedi nelle
facce delle poche presenze evanescenti che passano davanti alla cella,
oltre ai lavoranti tutti cinesi. Nel braccetto, diviso dal resto della
sezione da un cancello, in tutto siamo in tre. Oltre al tunisino, un
siciliano arrivato dopo di me. “Associazione” sedici anni di
galera fatti, decine da fare, dice che lo hanno mandato qui con
l’etichetta di schizofrenico.
Armadietti fuori nel corridoio; perché tutti, tranne me, possono
tenere letteralmente nulla in cella e anche per avere un cambio di
mutande devo chiamare la guardia. Aria a turno, uno alla volta, unico
cortile, orari e durata imprecisati.
Clima buono, soleggiato e ventilato, volo di gabbiani e odore di mare.
Colori: grigio panna del cemento, azzurro chiaro del cielo, giallo ocra
dei muri scrostati del “Residence”.
La quiete ammorbata dei depressi ogni tanto va in frantumi. Battitura
per una mancata telefonata. Crisi epilettica del siciliano. E’ la
seconda crisi epilettica che vedo in quattro mesi di cella di
isolamento. Prima era quindici anni che non ne incrociavo una, si vede
che l’ambiente concilia.
“Come mai l’hanno trasferita qui?” E’ la domanda della psicologa
ingenuamente inconsapevole di sfiorare il ridicolo. Ridicola
perché rivolta al soggetto che suo malgrado subisce tutta la
vicenda, ma non peregrina. Dopo quattro mesi di isolamento giudiziario
in attesa del deposito atti da parte della pubblica accusa vengo
trasferito a quattrocento chilometri di distanza dalla sede del
processo fin qui dato per imminente. Alla faccia del diritto alla
difesa “tutelato” dalla “democrazia” borghesia. “Lei è stato
assegnato qui dal Ministero ma non possiamo metterla nella sezione a
E.I.V. perché ci sono disposizioni che non lo consentono.” E’ la
risposta dell’ispettore di turno alla stessa domanda, questa volta
posta da me.
Il paradosso impera. Il Ministero mi classifica E.I.V., che nei gironi
carcerari sta subito prima del 41 bis e subito dopo dell’Alta
Sorveglianza (A.S.), ma non posso nemmeno accedere al mio girone e
quindi scivolo automaticamente nell’unica “sistemazione disponibile”:
la sezione di osservazione anticamera del manicomio criminale.
Non considerando che si possa trattare di un caso di
psicanalizzazione degli oppositori politici di revisionistica
memoria; di cosa si tratta? La tesi che mi viene propinata della
custodia è che siamo di fronte ad un errore del Ministero che
non si sarebbe accorto che tra le disposizioni stabilite dal magistrato
la dott. Boccassini, c’è il divieto di “avere contatti con altri
detenuti ristretti per reati concernenti associazione sovversiva e/o
banda armata”.
Essendoci nella sezione E.I.V. qualcuno in questa situazione hanno
pensato bene di parcheggiarmi temporaneamente qui in attesa di nuove
disposizioni.
L’altra possibilità è che sia un errore non casuale, una
particolare misura repressiva non gestita esplicitamente. In questo
caso la dott.ssa Boccassini ne è la principale responsabile in
collaborazione con il Ministero.
Concludo con una citazione di un mio compagno di sventura
“I veri pazzi sono gli psichiatri”
Livorno, via Macchie n. 9
17 giugno 2007
Claudio Latino
Stralci di una lettera del 22 giugno 2007-07
Ero all’aria quando sento un odore di bruciato e mi giro. Un denso fumo
nero esce dalla finestra di Medi, un tunisino che ha la cella di fronte
alla mia. E’ una colonna di fumo che riempie tutta la finestra. Dopo 5
giorni di sciopero della fame ha dato fuoco alla cella. Si sparge un
po’ di panico tra la gente rinchiusa, non è bello sentirsi in
trappola. Io egoisticamente faccio in tempo a pensare: “Per fortuna che
sono all’aria”. Il secondo pensiero è: “Forse medi ha aspettato
che scendessi per farlo”. E’ un tipo molto dolce e rispettoso. Lancio
un paio di urla: “Al fuoco, al fuoco” e intervengono le guardie con gli
estintori. L’incendio viene spento ma il dramma no. Sento Medi piangere
sconsolato dice che non sopporta il carcere e vuole tornare delle sue
bambine. E’ al terzo sciopero della fame, è in carcere da 10
mesi e ha già perso 35 chili. In pratica è ridotto a una
larva. Quando torno in sezione nella cella di Medi c’è il
disastro, un po’ di povere cose bruciacchiate sono sparse per il
corridoio e Medi lo hanno traslocato due celle più in là.
In pantaloncini e niente altro.
Può far sorridere ma io qui sono quello messo meglio, di gran
lunga meglio di tutti….solo che non è possibile non soffrire
della sofferenza umana. Ci riescono bene le guardie, sono pagate per
questo, sono selezionate per questo, sono formate per questo. Sono
disumanizzate per questo.
…Vi lascio, c’è da vedere che fine fa Medi, per ora siamo
riusciti a fargli avere la maglietta ma è in una cella senza
acqua e senza materasso.
Ciao Claudio LETTERA APERTA ALLE COMPAGNE E
COMPAGNI DI LAVORO.
Mi rivolgo direttamente a voi, con questa lettera, perché siete
tra quelli a cui devo delle spiegazioni. Con voi ho condiviso la fatica
del lavoro, speranze e lotte, a voi devo chiarimenti sul mio operato.
Con voi ho preso l’impegno di rappresentare e difendere i nostri
interessi di lavoratori, e nei miei 20 anni di attività
sindacale in fabbrica, ho cercato di tenere fede a questo impegno nel
migliore dei modi, sperando di non aver tradito la vostra fiducia. Le
lettere e i messaggi di affetto che ricevo da voi mi confermano che il
rapporto di amicizia e solidarietà che in tanti anni siamo
riusciti a costruire è abbastanza forte da resistere alla
campagna di odio contro di me e gli arrestati il 12 febbraio. In questa
campagna criminale siamo stati descritti come dei mostri, nel tentativo
di farci passare come nemici della stessa nostra gente, quando, nella
realtà, gli unici ad aver paura sono i governanti, i politici e
il loro sistema fatto di parassiti e sfruttatori che per difendere in
tutti i modi i loro privilegi cercano di mettervi contro di noi. Loro
sanno di essere sempre puiù disprezzati e mal visti dalla gente
e così agitano questa campagna di odio contro un gruppo di
rivoluzionari che lotta per la libertà. A questa campagna
allarmistica i vertici sindacali danno il loro contributo, avvalorando
l’accusa di terrorismo contro di noi, dichiarando sciopero e
cacciandoci da delegati di fabbrica. I capi del sindacato, in questo
modo, dimostrano ancora una volta la loro fedeltà al sistema, lo
stesso sistema economico e politico all’origine dello sfruttamento e
delle ingiustizie commesse contro i lavoratori e la povera gente. Lo
stato cerca di far passare per criminali quanti si oppongono e cercano
di organizzarsi e lottare in modo efficace e coerente per liberarci
dallo sfruttamento, senza rispettare le loro regole ingannevoli e
ipocrite.
Se dovessimo aspettare il loro permesso per lottare contro la
schiavitù del lavoro salariato, vivremmo in un’eterna
sottomissione. Se il movimento operaio non avesse lottato, sfidando le
leggi e i divieti, quando è stato necessario, usando anche la
forza, oggi non avremmo niente. Oggi viviamo in un sistema che uccide
migliaia di operai all’anno tra «infortuni» e malattie sul
lavoro, quasti morti sono una parte del prezzo che i lavoratori pagano
per garantire profitti alle imprese e i privilegi a tutti quelli che
vivono della ricchezza prodotta dai lavoratori. Se noi, in fabbrica,
non avessimo lottato in modo organizzato contando sulle nostre forze,
non sarebbe venuto nessuno a regalarci le cose che invece ci siamo
conquistati. Vi ricordate le fermate improvvise, le assemblee per
decidere come lottare, i cortei interni, i blocchi dei cancelli, le
fermate per le pause e quelle contro i carichi di lavoro. Ogni cosa
è stata conquistata con le lotte e ogni conquista dovrà
essere difesa con la lotta. Con il nostro lavoro organizzativo e la
lotta abbiamo costituito il sindacato di fabbrica, oggi i capi del
sindacato hanno deciso che io non sono più il vostro delegato,
questa decisione presa sulla vostra testa è un esempio della
loro democrazia. Difendono la legalità dello stato di rapina e
le sue leggi, calpestano la libertà dei lavoratori e le loro
scelte. Questi capi del sindacato sono gli stessi che sono venuti a
dirvi di scioperare contro il terrorismo, sono gli stessi che hanno
firmato lo striscione davanti alla fabbrica, a nome dei lavoratori.
Perché non hanno avuto il coraggio di firmarlo con i loro nomi e
si sono nascosti dietro noi operai? Il vero terrorismo in Italia,
quello delle stragi di stato, è rimasto impunito, quello che
uccide migliaia di lavoratori nessuno lo dichiara fuori legge,
perché uccidere degli operai non lo considerano un reato,
infatti nessuno va in galera per questo. Adesso, i capi del sindacato
si preoccupano di questi rapporti che ho con voi, vorrebbero spezzare
il legame di solidarietà e affetto che abbiamo e che ci unisce.
Perché non sono ancora soddisfatti del fatto che sono in una
cella di isolamento e grazie anche a loro sono stato licenziato e
sarò condannato a una lunga pena detentiva, come si usa fare per
i reati politici. Adesso non sono lì con voi per difendermi come
vorrei, non posso parlarvi guardandovi negli occhi, e dirvi che non
è vero quello che hanno detto, che avevo una doppia vita. Il mio
impegno sindacale era alimentato dagli stessi ideali per i quali oggi
sono in prigione. La necessità di organizzarsi e lottare, per
avere migliori condizioni di lavoro e di vita è importante
quanto quello di organizzarsi per raccogliere le forze e preparare la
lotta per l’abolizione definitiva della barbarie dello sfruttamento, e
per la costruzione di una società dell’uguaglianza e della
libertà. Adesso io cerco di difendere la mia identità di
operaio comunista, prima di tutti, ai vostri occhi, perché io
continuo a sentirmi uno di voi, e quando penso ai problemi che vi
trovate ad affrontare in fabbrica, sono sicuro che saprete trovare il
modo di riorganizzare il vostro sindacato di fabbrica, forte abbastanza
per migliorare le condizioni di lavoro e difendere le vecchie
conquiste.
Un caro saluto.
Vincenzo Sisi
23 giugno 2007 Alle lavoratrici e lavoratori
Ergom
R.S.U. ERGOM U.P. BORGARO
R.S.U. ERGOM U.P.1, U.P. 2 CHIVASSO
AVV. GIUSEPPE PELAZZA
FILCEM CGIL TORINO
Ho ricevuto in carcere copia della lettera dove si «dichiara
l’espulsione dalla CGIL e da ogni incarico ricoperto all’interno della
categoria e in azienda del lavoratore Vincenzo Sisi».
A tale proposito ritengo opportuno fare la seguente dichiarazione
rivolgendomi alle lavoratrici e ai lavoratori ERGOM, essendo le persone
con le quali ho condiviso lotte e fatiche, le sole alle quali devo
chiarimenti sul mio operato sindacale.
La decisione di aderire alla CGIL è stata una decisione che
abbiamo preso tutti insieme come lavoratori, essa si è resa
necessaria per poter costruire una nostra rappresentanza sindacale di
fabbrica, per difendere i nostri interessi di lavoratori. Il mio
rapporto con il corpo dell’organizzazione e, in particolare, con i
compagni di fabbrica è sempre stato corretto e leale. Ho svolto
attività volontaria e contribuito al dibattito di
organizzazione, nonostante il mio aperto dissenso con i capi del
sindacato e con la linea di sottomissione e svendita che questi hanno
portato avanti. Ho lavorato con impegno alla costituzione della
rappresentanza di fabbrica e al suo rafforzamento. Questo ha portato
solo vantaggi all’organizzazione, tra i quali, oltre 25.000 euro di
entrate all’anno. Mentre i vantaggi per i lavoratori sono unicamente
frutto delle lotte. Con la mia espulsione, la CGIL preserva l’immagine
dei suoi dirigenti, in quanto difensori della legalità borghese
e delle regole della democrazia dei banchieri e dei padroni, quella
stessa democrazia e legalità che lasciano impuniti le migliaia
di morti per il lavoro. Non giustifico, in nessun modo, l’operato dei
dirigenti sindacali in riferimento ai seguenti fatti: avere svolto una
assemblea per dichiarare otto ore di sciopero, strumentalizzando il mio
arresto e l’accusa infamante di essere un terrorista. Tale decisione ha
sicuramente incoraggiato il mio licenziamento, ha messo in cattiva luce
la mia persona di fronte all’opinione pubblica e ai miei compagni di
lavoro, ha favorito il clima per farmi passare da criminale,
incentivando, in questo modo, una dura condanna al prossimo processo.
Avete insultato la mia persona e abusato della buona fede dei miei
compagni di lavoro, esponendo uno striscione in un luogo pubblico con
la scritta «No al terrorismo. Lavoratori ERGOM»
all’insaputa degli stessi. Considerando la gravità di questi
fatti di cui la segreteria FILCEM CGIL si è resa responsabile,
non resta che constatare la completa estraneità materiale e
morale dal movimento operaio dei sopracitati capi sindacali. Pertanto
non riconosco alla FILCEM CGIL autorità di interferire nei
rapporti tra me e i miei compagni di lavoro. Non le riconosco il potere
di espellermi da rappresentante dei lavoratori, poiché rispondo
solo ai lavoratori del mio operato, dai quali ho ricevuto mandato a
rappresentarli. Comunico l’immediata rottura di qualsiasi rapporto
organizzativo e personale con la segreteria FILCEM CGIL Torino.
Vincenzo Sisi
23 giugno 2007 1-6-07
Ciao tosi. Oggi ho ricevuto con piacere la cartolina dei nuovi compagni
del Filorosso di Foggia. Di tutta la posta che ricevo ogni giorno, non
c’è nulla che mi riempia di felicità come le parole di
nuovi giovani che scelgono di impegnarsi e di lottare in prima persona
contro lo sfruttamento e i soprusi dei padroni. È importante
perché è la testimonianza più tangibile e evidente
che le masse non si arrendono davanti agli attacchi alle loro
condizioni di vita e nemmeno davanti alla repressione che, con
operazioni come quella che mi ha portato in galera, punta a intimorire
chi sceglie di mobilitarsi per una società migliore.
Con le vostre parole, ogni volta, mi ricordate lo spirito e lo slancio
che ci guidano nel nostro cammino di lotta, siete la conferma che la
nostra lotta è giusta, e ogni nuovo compagno infonde nuova forza
alla resistenza di chi è prigioniero. La vostra è una
scelta coraggiosa, soprattutto in una realtà come Foggia. I
vostri compagni più “vecchi” li conosco da una vita e so quanto
è difficile fare politica lì. Le condizioni oggettive
spingono molti a emigrare non curandosi dei problemi della loro
città; per chi rimane non resta che tirare a campare come meglio
può, cadendo spesso in comportamenti individualisti e
opportunisti. Per i giovani è facile farsi invogliare dalla
droga o dal denaro facile della malavita. Tutto è tollerato
purché non si mettano i bastoni fra le ruote a chi fa i soldi
sulla pelle della gente. Ovunque, ma a Foggia in particolare, adattarsi
alle condizioni che ci vengono imposte non può che contribuire
ai soprusi della borghesia; denunciarli e lottare è l’unico modo
per riavere la nostra dignità e i nostri diritti. È
giusto mobilitarsi per una società senza più guerre e
sfruttamento, senza oppressi né oppressori.
Per il comunismo.
Un grande abbraccio.
A pugno chiuso.
MAX
P.S.: salutatemi tutti/e i compagni “vecchi”. Morti per il lavoro
Quando degli operai muoiono nei cantieri e nelle officine, in modo
violento, non si può fare a meno di parlarne. I sindacati
denunciano il fenomeno, le autorità si indignano, i giornalisti
pubblicano i dati. I dati che vengono diffusi sono riferiti ai morti in
seguito ad incidenti sul lavoro. Nulla viene detto degli operai vittime
di gravi malattie mortali, la cui causa è il lavoro. Questi
lavoratori uccisi in seguito al contatto con sostanze nocive, per loro,
non esistono, vengono fatti sparire dalle statistiche e dalla cronaca.
Per questo motivo si deve parlare di morti per il lavoro, sia nel caso
essi sono riferiti ad eventi violenti sui posti di lavoro, oppure
vittime della violenza sistematica e subdola che uccide lentamente dopo
anni di sofferenze. Bisogna dire che l’ente che gestisce i dati
è l’INAIL, la quale essendo una assicurazione (di stato) deve
stabilire quando la malattia è riconducibile al lavoro, e
dovendo quantificare il danno per l’indennizzo, ha tutto l’interesse a
non riconoscere molte malattie del lavoro, nascondendo in questo modo
il fenomeno diffuso delle malattie e morti fuori dai posti di lavoro.
Bisogna considerare che questo tipo di malattie si manifesta dopo
diversi anni di lavoro, cosa che rende difficile il collegamento con i
luoghi di lavoro e le circostanze lavorative che in parte non esistono
più, rendendo quasi impossibile il riconoscimento della malattia
da lavoro e il risarcimento del danno, riconoscimento reso difficile
perché nel frattempo il reato è andato in prescrizione.
Ma quanti sono le morti e le malattie per il lavoro? I dati INAIL
dicono che ci sono stati nel 2006 1280 morti sul lavoro, un milione di
feriti, diverse decine di migliaia dei quali avranno come conseguenza
danni permanenti. Considerando il fatto che in Italia la stragrande
maggioranza delle aziende è di piccole dimensioni, che il
sistema di appalti e subappalti nei cantieri fa scomparire ogni minima
tutela, se si considera la presenza diffusa del lavoro nero e
schiavistico, non è facile dedurre che una grande
quantità di infortuni non vengono denunciati. Agli infortuni
ufficiali e a quelli mai denunciati, bisogna aggiungere le malattie
professionali riferite alle gravi patologie riconosciute dall’INAIL, di
queste una parte sono mortali. Solo il mesotelioma, tumore che colpisce
chi ha respirato fibre di amianto, uccide, secondo i dati ufficiali,
1000 persone l’anno. Questi morti per il lavoro sono in realtà
una piccola parte della strage di operai ed operaie che si ammalano e
muoiono a causa di questo modo di lavorare. La realtà,
accuratamente nascosta riguarda un numero incalcolabile di lavoratori
colpiti da gravi malattie, diverse migliaia delle quali mortali. Questa
parte nascosta sono le morti e le malattie imputabili al lavoro e non
riconosciute come tali, sono tutti quei casi in cui esiste un
ragionevole rapporto tra patologia e lavoro. Le malattie di cui si
parla sono i tumori ai polmoni, al naso, alla vescica e le leucemie.
Questi tumori, sono stati contratti in anni di esposizione a sostanze
nocive e cancerogene, i cui effetti si manifestano dopo diversi anni di
lavoro e spesso dopo che il lavoratore è andato in pensione.
Alcuni studi stimano in 6000 gli operai morti ogni anno per tumori
derivanti dall’esposizione a sostanze cancerogene presenti nelle
attività lavorative. A queste malattie mortali bisogna
aggiungere le malattie gravi, le quali anche se non hanno effetti
mortali, provocano danni permanenti. Una di queste è quella che
colpisce l’apparato scheletrico. Mani, braccia, schiena, sono queste le
parti del corpo dove si evidenzia il grado di violenza che
l’intensità dei ritmi di lavoro hanno sul corpo umano. Questa
patologia usurante è molto diffusa nel settore manifatturiero ed
in particolare in quelle lavorazioni dove esistono fasi di lavoro che
implicano movimenti ripetitivi e operazioni gravose. Tra i lavoratori
colpiti ci sono in prevalenza donne, per via della quantità di
ore lavorate nell’arco della giornata. I danni di questo tipo sono la
prima tra le cause di malattia tra i lavoratori, e pur avendo
conseguenze invalidanti gravi essa non è riconosciuta come
malattia del lavoro. Questo tipo di malattia, e tutte le altre,
riferite al lavoro, non essendo riconosciute come tali, non godono del
diritto alle cure mediche gratuite, risarcimento del danno e
conservazione del posto di lavoro. Inoltre, queste malattie causano un
peggioramento della qualità della vita, impediscono una normale
prestazione lavorativa, costringono il lavoratore a interventi
chirurgici e a lunghe assenze dal lavoro. In questo modo, le
conseguenze a cui si va in contro sono, licenziamenti per sopraggiunta
inidoneità alla mansione, oppure perché le assenze hanno
superato il periodo massimo per la conservazione del posto di lavoro.
Mentre nelle piccole aziende non serve nessuna motivazione per
licenziare. Il danno che questi lavoratori subiscono non sarà
mai ripagato, violentati nel fisico e offesi nella loro dignità,
utilizzati e poi espulsi dal ciclo produttivo, emarginati e messi
nell’ombra come se non fossero mai esistiti. Mentre le morti violente
sul lavoro non possono essere nascoste perché diventano cronaca
di tutti i giorni, e i lavoratori fanno notizia cadendo dalle
impalcature, restando schiacciati, bruciati vivi in qualche fonderia o
colpiti da qualche esplosione, Invece, le morti per tumori causati dal
lavoro, restano nel silenzio, non fanno notizia, non vengono
conteggiate. Queste migliaia di uccisioni che loro chiamano incidenti,
morti bianche o disgrazie, per farci, per farci credere che non ci sono
responsabili. Sono in realtà delle vere e proprie uccisioni.
Come si fa a conciliare la sicurezza in officina e nel cantiere con la
riduzione dei costi e agli appalti al massimo ribasso? Per le aziende
impegnate nella ricerca costante della riduzione dei costi, la
sicurezza e la difesa della salute dei lavoratori diventa un costo, e
perciò un ostacolo agli obiettivi d’impresa. Le aziende si
muovono sulla base di leggi economiche precise, ispirate dal principio
assoluto della ricerca del massimo profitto, da raggiungere a qualsiasi
costo. Dunque non c’è da stupirsi se fanno delle stragi di marca
terroristica e criminale, con l’aggravante della finalità del
bieco motivo economico. E’ per questo che gli operai continuano a
morire ed ammalarsi nella totale indifferenza. Quando questi morti sono
lì sul selciato, e non possono essere nascoste, scattano le
dichiarazioni di indignazione da parte dei capi delle istituzioni
borghesi. Si mandano telegrammi alle famiglie delle vittime, per dire
loro che i morti sul lavoro sono dei martiri che si sacrificano per il
bene di tutti noi, altri mandano i carabinieri nei cantieri. Come
esperti di sicurezza a loro non succede mai nulla, e se dovesse
succedere qualcosa diventano eroi. Loro, e tutti i militari, quando si
ammalano, e hanno 15 anni di servizio, possono andare in pensione
anticipata. Qualcuno, per curare la piaga delle morti sul lavoro
propone nuove leggi e più ispezioni, ma di fatto le uccisioni
continuano e i responsabili restano impuniti. E non possiamo, certo,
aspettare giustizia da questo stato borghese, che si fa carico della
difesa degli interessi economici che sono all’origine della privazione
dei bisogni fondamentali dei lavoratori. Lo stato borghese con le sue
istituzioni fatte di politicanti, consulenti, amministratori e
parassiti di tutte le forme e colori politici, asserviti alle esigenze
degli industriali e dei banchieri, vede gli operai e la povera gente
come un pericolo da contenere, una minaccia da controllare e rendere
innocua. Figuriamoci cosa gli frega a questa gente di noi operai e
delle nostre vite. Nella produzione delle merci, i lavoratori
costruiscono, con il loro ingegno e la fatica quotidiana, merci che
creano la ricchezza per l’intero paese, in cambio ricevono un salario
di sussistenza e nessun rispetto per la propria salute. Il modo di
produzione capitalista tratta gli esseri umani come merce per
l’accumulo di ricchezza. In questa logica gli operai, in quanto merce
facilmente reperibile e a basso costo, perché in abbondanza,
diventano carne da macello. Allora perché preoccuparsi se a
lasciarci la vita per il lavoro sono in tanti, cosa importa se muoiono
cadendo o schiacciati oppure in modo anonimo in una corsia di ospedale,
uccisi lentamente da qualche tumore le cui sofferenze durano anni? A
chi importa di questi morti invisibili che nessuno conosce e
pagherà per loro vite? Perchè preoccuparsi di questo,
quando il problema è facilmente risolvibile? Basterà
aumentare i flussi d’ingresso di nuova manodopera fresca e disponibile,
pronta a farsi spremere per garantire i profitti alle imprese,
contribuendo così a mantenere il benessere di quei parassiti
sociali di cui siamo circondati. A se il tasso di sfruttamento in
Italia non risulta soddisfacente, allora si possono chiudere le aziende
e buttare per strada la gente, trasferendo le produzioni nei paesi dove
gli operai sono più a buon mercato. In quei paesi privi di
regole che fanno la felicità e gli utili dei padroni di tutto il
mondo, che in questo modo possono gareggiare a chi spreme di più
gli operai. Oggi più che mai si sta svolgendo una competizione
mondiale, sempre più aspra, per il controllo dei mercati,
è in atto una guerra per l’appropriazione delle materie prima.
Un’altra guerra si sta svolgendo in tutti i luoghi di lavoro nei
quattro angoli del mondo, questa guerra, per alzare al massimo i
profitti e spingere la produttività a livelli bestiali, utilizza
gli operai come truppa d’assalto, mandati al massacro, giorno per
giorno, nei cantieri, nelle fabbriche e in tutti i posti dove la
violenza del lavoro si manifesta nelle sue diverse forme. In Italia, e
morti sul lavoro fanno parte del più generale attacco alle
condizioni di lavoro e di vita della nostra gente. Questo attacco si
concretizza con la ricerca di estorcere sempre più la ricchezza
dal lavoro operaio, attraverso l’aumento della produttività, la
riduzione del costo del lavoro e limitando gli spazi d’organizzazione e
di lotta, In questo modo si cerca di ridurre la classe operaia a
strumento d’arricchimento versatile e ubbidiente alle nuove esigenze
del capitale. Questa offensiva, trova complici le direzioni delle
vecchie organizzazioni operaie. Questi, partiti e sindacati, si sono
completamente asserviti agli interessi generali dell’economia borghese
e dello stato antipopolare. Questi sinistri capi, hanno utilizzato la
forza operaia per costruirsi una condizione sociale più elevata.
Hanno fatto ingresso a pieno titolo nei circoli imperialisti,
partecipando alle occupazioni militari e al finanziamento delle
guerre. In questo modo rivelano la loro vera natura di difensori
dell’economia borghese, infiltrati nella classe operaia. Questo inganno
non può durare a lungo. Infatti, è sempre
più largo e diffuso il discredito nei loro confronti,
altrettanto diffuso è il malessere causato dalle gravi
disuguaglianze ed ingiustizie sociali prodotte dalla crisi del sistema.
Possiamo, noi lavoratori, pensare di cambiare tutto questo con qualche
riforma? Fino a quando possiamo delegare la difesa dei nostri interessi
a burocrati e politicanti di mestiere? Pensate che ci sia qualcuno
disposto a rimettere in discussione, con le buone maniere, i suoi
privilegi a nostro favore? Noi pensiamo di no! Con l’accentuarsi della
crisi del modo di produzione capitalista e con il definitivo crollo di
qualsiasi ipotesi di riforma e di trasformazione per via pacifica della
società, si apre per il proletariato l’orizzonte possibile della
rivoluzione popolare. Tenendo fermo questo orizzonte, la strada da
percorrere è ancora molta, e non mancheranno gli ostacoli
e le difficoltà. Dobbiamo tracciare un percorso che sappia
tenere insieme l’orizzonte del cambiamento sociale con la lotta
quotidiana per i bisogni immediati. I comunisti ed i sinceri
rivoluzionari devono unirsi alle masse, per riconvertire ed orientare
in senso classista la grande energia presente tra i lavoratori e le
masse popolari nel nostro paese. Per contrastare la violenza dello
sfruttamento che porta alla morte di migliaia di lavoratori e
lavoratrici è necessario integrare la lotta di difesa con
l’attacco. Bisogna dare prospettiva alle avanguardie coscienti per
liberarli dalle logiche aziendaliste e dalla cultura riformista.
Occorre favorire la capacità autonoma di rappresentare la
propria condizione sociale, incanalando la lotta economica nel fiume
della lotta di classe per il potere. Il mezzo che useremo per questo
cammino sarà il partito della classe operaia, il partito
comunista. Questo partito, non può che essere indipendente e
svincolato da qualsiasi legame e condizionamento con le istituzioni
borghesi. Libero di agire nelle forme e nei modi che la situazione
richiede. La sua forma attuale è quella dell’internità
con le masse e clandestinità nei confronti dei nemici della
classe operaia. La sua libertà d’azione e d’organizzazione che
sfocia nella rivoluzione, vede nell’armamento il discrimine tra
cambiamento e conservazione, tra rivoluzione e opportunismo.
Vincenso Sisi
Militante per la costituzione del Partito Comunista Politico-Militare