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sindacali
marzo 2007
Contributo di alcuni/e lavoratori e lavoratrici del settore
metalmeccanico di Sesto San Giovanni.
assemblealavoratori@libero.it
Le nuove frontiere dell’attacco
padronale ai salari
La lotta per la difesa e il miglioramento dei salari è sempre
stato la base e il motore scatenante della lotta di classe. Da una
parte le aziende hanno utilizzato il contenimento e l’abbassamento dei
salari per aumentare i margini di profitto, essenziali per tenere testa
alle imprese concorrenti a livello internazionale. I lavoratori lottano
per migliorare le proprie condizioni di vita, sia attraverso aumenti
salariali, sia attraverso l’aumento di quella quota di “salario
indiretto” sotto forma di pensioni, TFR, abbassamento delle tasse,
casa, servizi sociali (trasporti, scuola, sanità).
Negli ultimi venti anni, l’inasprirsi della crisi economica
internazionale, e quindi della competizione fra padroni, Paesi e
blocchi regionali (USA-UE-Giappone) ha portato da una parte a continue
guerre di conquista e di rapina, dall’altra ad un attacco ai salari
della classe operaia dei Paesi capitalistici “avanzati”.
Con la solita promessa di futuri benefici in cambio di attuali
sacrifici, l’obiettivo che in questi anni Confindustria ha ottenuto
è stato quello di portare i salari italiani ai livelli
più bassi d’Europa, aumentando al tempo stesso
l’instabilità e la precarietà del lavoro. Ciò si
è riflesso nelle politiche dei vari Governi di differenti
orientamenti (DC, “pentapartito”, governi “tecnici”, di centro-destra e
di centro-sinistra) tutti in perfetta continuità nei termini di
legislazioni a scapito del lavoro e del salario. Un breve sunto
storico, solo per rinfrescare la memoria: nel 1985 un referendum
conferma la decisione del governo Craxi di congelare parzialmente la
“scala mobile”, ossia quel meccanismo che legava gli aumenti di salario
a quelli del costo della vita, sebbene non in forma adeguata; nel
biennio 1992-1993 , il governo Ciampi presiede i famosi accordi fra
confindustria e cgil-cisl-uil sulla famosa politica dei redditi, con
l’articolazione della contrattazione su due livelli (il CCNL di
categoria e gli integrativi aziendali) e l’adeguamento dei salari sulla
base di una “inflazione programmata” da sempre inferiore a quella
reale; nel 1995 la Riforma Dini aumenta l’età pensionabile e
sgancia l’erogazione della pensione dal sistema retributivo e lo
aggancia a quello contributivo; nello stesso anno viene firmato dai
sindacati l’accordo per la regolamentazione delle agenzie interinali,
in pratica si legalizza il precariato; nel 1997 il Pacchetto Treu norma
l’utilizzo della manodopera precaria (interinali e co.co.co.); nel 2001
la riforma del Titolo V della Costituzione da parte del governo D’Alema
(che segue la riforma Bassanini) assegna alle regioni la gestioni di
importanti servizi sociali, come la sanità e la scuola,
smantellando interi pezzi di welfare state, come il Sistema Sanitario
Nazionale; n el 2003 entra in vigore la Legge 30, che amplia a
dismisura i casi di ricorso a lavoro precario da parte delle aziende,
individuando ed ordinando tutta una serie di figure lavorative (lavoro
somministrato, apprendistato, co.co.pro, a chiamata, intermittente,
ecc.); infine arriviamo alla riforma del TFR e alla ventilata nuova
riforma delle pensioni, imposta da Prodi nei 12 punti della sua azione
di governo. Nel mezzo ci sono state Leggi Finanziarie e rinnovi
contrattuali che hanno sempre più aumentato il divario fra
profitti e rendite da una parte, salari dall’altra.
Ma al di là di chiacchiere e propaganda, contano i fatti. E
allora vediamo che, sul fronte salariale, assistiamo ad una progressiva
diminuzione degli aumenti salariali: +7,7% nel 1986-’90, +5,8% nel
1991-’95, +2,9% nel 1996-2000 e +3% nel 2001-05. Come giustamente
scrivevano alcuni delegati e operai di Sesto nel 2005 “Nella
realtà i prezzi sono aumentati dall’introduzione dell’EURO del
35% negli ultimi quattro anni che fa una media dello 8,7% annuo contro
un dato strumentale dell’ISTAT del 2% . La riduzione dei salari di
quasi il 20% di questi ultimi due anni è un dato incontestabile,
ad esempio in media i prezzi degli affitti sono cresciuti del 80%, e
così i prodotti ortofrutticoli che sono aumentati dal 35 al 40 %
ad ogni cambio di stagione, i trasporti hanno subito aumenti del 60% e
gli alimenti di prima necessità (pane, latte, uova e sale) hanno
subito complessivamente aumenti medi del 40 %.” A fronte di questo,
l’ex governatore della Banca d’Italia, Fazio esultava “In Italia,
secondo la contabilità nazionale, nel settore privato la quota
del capitale sul valore aggiunto (…) è cresciuta
ininterrottamente dalla metà degli anni settanta fino al 2001,
raggiungendo livelli storicamente elevati. (…) La quota dei profitti
è aumentata in misura più elevata nei trasporti, nelle
comunicazioni e nella produzione e distribuzione di energia, settori
caratterizzati da condizioni di mercato meno concorrenziale (…) e
interessati negli anni recenti da un processo di privatizzazione”.
(…)”. In soldoni, il 10% delle famiglie più ricche possiede il
45,1% dell’ammontare della ricchezza netta.
Non contento, il vice-presidente di Confindustria, Alberto Bombassei
rilancia : per i padroni il salario dovrà differenziarsi sul
territorio perchè ''è la stessa Unione Europea che spinge
verso differenziazioni territoriali''. Bombassei allarga le richieste
confindustriali con una detassazione delle ore di lavoro straordinario.
Con queste premesse e con questo contesto, la stagione contrattuale del
2007, che riguarda quasi 10 milioni di lavoratori e interessa vari
settori dell’Industria (per primi i metalmeccanici), dei Servizi, della
Pubblica amministrazione e dell’Artigianato, assumerà
un’importanza cruciale, proprio perché si salderà allo
scippo del TFR e alla controriforma delle pensioni. Da questa base
oggettiva deve partire il movimento di lotta. Con una ristrutturazione
che determina un aumento della precarietà e della
disoccupazione, il movimento dei lavoratori incontra ostacoli
“oggettivi” non facili da superare. Ma non sono questi ostacoli
oggettivi a costituire il problema principale. Il continuo
peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro porta
inevitabilmente alla ricomposizione della condizione proletaria,
indipendentemente dal tipo di contratto. Il problema vero sta, invece,
nell'atteggiamento dei vertici del sindacatoconfederale, nella sua
rinuncia a sostenere e unificare il movimento, e nel suo tentativo di
portare il proletariato a sostenere il capitale italiano, pubblico e
privato, ad aumentare la produttività e lo sfruttamento della
forza-lavoro.
In queste prime mobilitazioni operaie che si sono espresse contro la
Finanziaria, contro lo scippo del TFR, contro la riforma delle pensioni
e poi nei rinnovi contrattuali, sempre più chiara diventa la
linea di demarcazione tra la concertazione e il conflitto. Come
lavoratori e lavoratrici, delegati e delegate, il nostro compito
è di sviluppare il movimento di lotta, collegandolo in tutti i
suoi momenti ed in tutti i territori. Nel lavoro costante e quotidiano
di organizzazione, di agitazione e di lotta, nelle assemblee, negli
scioperi, nelle manifestazioni, dobbiamo tutti e tutte contribuire a
ristabilire quella indispensabile autonomia teorica, politica e
materiale di classe che è l'unica garanzia del futuro.
Un’autonomia che dovrà trovare negli organismi di lotta e di
partecipazione di cui i lavoratori si doteranno, la sua manifestazione
concreta.
PENSIONI E TFR
Dopo gli anni ’60-’70, sia in Italia che nel resto d’Europa, i
lavoratori hanno conosciuto una lenta, ma costante e inesorabile
erosione di tutti quei diritti e quelle conquiste in campo sociale e
salariale ottenute con dure lotte e sacrifici.
Da una fase in cui il livello delle tutele era molto elevato si
è passati oggi ad una fase di neoliberismo selvaggio in cui si
sviluppa un sistema economico capace solo di costruire una
società con sempre maggior differenziazioni al suo interno, in
cui il sistema di “protezione sociale” va sempre più
indebolendosi a danno delle fasce a basso reddito, ma non solo (la
percentuale di popolazione che non supera la soglia di povertà
cresce costantemente).
In questa strategia antisociale complessiva anche il sistema
pensionistico pubblico è stato oggetto di continui attacchi,
anche tramite campagne allarmistiche che ipotizzavano e ipotizzano
tuttora il cosiddetto “crack delle pensioni”, previsto inizialmente per
l’anno 2000, poi spostato al 2020 e poi proiettato al 2030 secondo
alcuni, al 2050 secondo altri.
La strategia dominante, quindi, è quella di realizzare un
sistema contributivo privato per tutti, e di abolire di conseguenza
quello pubblico.
Oggi ci troviamo in una fase di “transizione”.
Le varie riforme pensionistiche succedutesi negli ultimi 15 anni,
(dalla riforma Amato – legge 503/92-, alla Riforma Dini – legge
335/95-, alla controriforma Berlusconi ) aprono la strada proprio a
questo.
E’ infatti nel 1993 che viene introdotta in Italia la “ previdenza
complementare”, che si configura come un sistema volto ad affiancare la
tutela pubblica con forme di assicurazione a capitalizzazione di tipo
privatistico. Ma è solo nel 1995, con la Riforma Dini e
l’introduzione del “calcolo Contributivo”(1) che si sancisce il bisogno
di ricorrere a tali strumenti per assicurarsi una vecchiaia serena ( ma
vedremo poi che nemmeno questo è vero).
Dunque, ad oggi, il sistema di previdenza in Italia si basa su tre
“pilastri”:
· I°: pubblico obbligatorio ( versamenti all’Inps )
· II°: integrativo o complementare ( dato dai Fondi
negoziali o chiusi, dai Fondi aperti di banche e assicurazioni )
· III°: economie private che il lavoratore ha accumulato nel
corso della vita e/o polizze di assicurazione sulla vita.
I vari Governi succedutesi si sono affannati a dire che i conti
dell’INPS sono in rosso ( falso!) e che non sarebbe più
sostenibile erogare pensioni secondo il “calcolo retributivo”(2),
(l’ultima generazione a raggiungere la pensione con questo metodo
sarà quella che maturerà i requisiti nel 2017), ma
nessuno di loro ha mai dato spiegazioni sul fatto che esiste una legge
del 1989, che stabilisce la separazione tra Previdenza (di competenza
dell’INPS) e Assistenza ( di competenza dello Stato, ma da sempre data
in gestione all’INPS), mai applicata(3).
Nonostante oggi l’INPS continui a farsi carico anche dell’ Assistenza,
non chiude ugualmente il bilancio in negativo.
E’evidente che se si attuasse tale separazione si determinerebbe una
situazione ben più favorevole al mantenimento del vecchio
sistema previdenziale obbligatorio, ma verrebbero meno quegli equilibri
di bilancio pubblico forzati e finalizzati esclusivamente alla
stabilizzazione delle logiche monetariste di Maastricht ( le logiche
che determinano lo stare dentro o fuori “ l’Europa” ).
Cercare di tutelare il sistema previdenziale pubblico non è in
linea nemmeno con l’obiettivo in atto anche nel nostro paese di
rafforzare e rilanciare i processi di finanziarizzazione dell’economia.
Dal 2017 al 2036 si potrà accedere alla pensione con un calcolo
cosiddetto “misto”(4), dal 2036 solo con calcolo contributivo puro.
Ciò determinerà l’aumento esponenziale di masse di “nuovi
poveri”. Per cercare di arginare ora il problema che i Governi dovranno
affrontare dopo il 2017, cioè quando i lavoratori accederanno ad
una pensione che non permetterà loro di vivere, ecco che ci si
ricorda di quella riserva di denaro fresco su cui molte volte tanti
soggetti hanno cercato di mettere le mani, e cioè i TFR (
Trattamento di Fine Rapporto) dei lavoratori, di cui la stima annua
è nell’ordine dei 19 miliardi di euro.
Il TFR è salario dei lavoratori differito (5). Per i lavoratori
esso ha sempre rappresentato una riserva “forzata” utile nei momenti di
disoccupazione, di bisogno, per la cura e lo studio dei figli.
Oggi l’intento è quello di snaturarne completamente la sostanza.
E con questo istituto i signori del Parlamento e i signori di
Confindustria, con la non opposizione o addirittura accondiscendenza
dei Sindacati Confederali, intendono prendere “due piccioni con una
fava”.
Da una parte non vogliono affrontare l’emergenza della previdenza
pubblica, che da un punto di vista “sociale” sarebbe contrastabile
attuando soluzioni quali una lotta seria al lavoro nero, all’evasione
contributiva, al precariato, una lotta per una piena occupazione
femminile e per un’occupazione regolare degli immigrati.
Dall’altra vogliono cercare di dare nuova linfa all’economia
finanziaria, a discapito del sistema produttivo.
E i Fondi Pensione a cui destinare la propria liquidazione, aperti o
chiusi che siano, sono lo strumento per attuare questa strategia.
E’ per questo che i Fondi Previdenziali, soprattutto quelli negoziali
(cioè quelli stipulati tra associazioni datoriali e sindacati),
hanno caratteristiche attrattive per i lavoratori, come la
defiscalizzazione e la detraibilità.
Ma nonostante ciò, dal 1993 ad oggi solo circa il 13% dei
lavoratori ha sottoscritto un Fondo, un po’ per diffidenza, un po’
perché non è vero che conviene aderirvi. Non a caso,
tanto per fare un esempio, lo Statuto del Fondo COMETA dei
metalmeccanici e dei chimici conferma l’insicurezza, in quanto prevede,
oltre che comprare azioni, anche di finanziare le stesse aziende per i
suoi fabbisogni.
Dallo studio di alcuni economisti (6) emerge che, destinando l’intero
TFR e una piccola quota dello stipendio ( in percentuale ad esempio
dell’1o 2 o 3%) al Fondo non si riuscirebbe ugualmente ad avere una
quota adeguata di reddito tale da garantirsi un livello di vita
dignitoso.
Il giovane che volesse raggiungere un reddito di tipo privato e che,
sommato a quello pubblico, gli permettesse di avere una pensione come
quella dei suoi genitori, oltre al TFR e al contributo aziendale
dovrebbe versare intorno al 10% del suo reddito mensile per 30-40 anni.
E considerando che un numero sempre maggiore di giovani accede al
mercato del lavoro solo attraverso forme di lavoro atipico ( che
prevedono contribuzioni bassissime, assenza di TFR ecc..), è
facilmente intuibile che, anche attraverso i Fondi Pensione
Integrativi, si otterrà una pensione da miserabili dopo una vita
di lavoro con stipendi e redditi da miserabili.
L’art. 36 della Costituzione recita:” Il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del
suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
Alcune sentenze della Corte Costituzionale, i cui principi debbono
essere considerati tuttora validi, in quanto mai rinnegati, hanno
stabilito che “non deve mai sussistere una differenza irragionevole fra
pensioni e retribuzioni, non solo all’instaurarsi del rapporto
pensionistico, ma anche nel prosieguo del tempo”.
Inoltre è principio acquisito e consolidato che “ la pensione
è una retribuzione differita e, come tale, equiparata nel
diritto alla retribuzione” ( sentenza della Corte Costituzionale).
L’alternativa al trasferimento nei Fondi proposta dalla manovra del
Governo è quella di lasciare il proprio TFR in azienda (se al di
sotto dei 50 dipendenti rimarrà effettivamente a disposizione
del titolare, se al di sopra dei 50 verrà trasferito all’INPS
che lo gestirà per conto del Ministero del Tesoro e con il quale
si andrà a finanziare opere di infrastruttura e magari qualche
guerra).
Come si può facilmente dedurre, se lo si destina ai Fondi si
alimenta e sostiene un sistema economico che genera solo disuguaglianze
e ingiustizie, se lo si lascia in azienda o sarà il padrone a
continuare a spenderlo per cambiare magari la barca, o sarà lo
Stato a ricevere un prestito da noi lavoratori completamente gratis.
E’ come chiedere: vuoi che utilizzi i tuoi soldi per fare la guerra a
nord o per fare la guerra a sud?
Per queste ragioni riteniamo che l’intera manovra sul TFR, soprattutto
date le modalità con cui i lavoratori sono chiamati ad
esprimersi, e cioè tramite il meccanismo antidemocratico del
silenzio-assenso (7) sia un furto e una presa in giro per i lavoratori.
La nostra opposizione nasce dall’ esigenza di difendere lo “stato
sociale” nelle sue varie forme e servizi, salario indiretto dei
lavoratori, che in sostanza viene messo fortemente in pericolo.
Siamo a rivendicare una pensione giusta e dignitosa senza dover per
forza pagarcela durante tutta la vita, perché di pagare sempre
noi e sempre così tanto siamo stanchi.
Con le politiche di contenimento salariale degli ultimi decenni
è già difficile arrivare alla fine del mese addirittura
con due redditi, figuriamoci se dobbiamo accantonare anche una seconda
quota ( una la paghiamo già!) per la pensione!
(1) determina un’erogazione mensile corrispondente a circa il 40-50%
dell’ultima retribuzione.
(2) nato dalle lotte del ’68 (legge n° 153 del 30 aprile 1969) e
che determina un’erogazione mensile corrispondente a circa il 70-80%
dell’ultima retribuzione.
(3) La previdenza comprende la pensione di vecchiaia, di
anzianità, di invalidità, ai superstiti, di convenzione
internazionale per il lavoro svolta all’estero.
L’assistenza comprende l’assegno sociale, gli ammortizzatori sociali
(cassa integrazione, mobilità), la malattia, la
maternità, l’assegno familiare.
(4) gli anni lavorati fino al 1995 verranno calcolati con metodo
“retributivo” e gli anni successivi al 1995 con metodo “contributivo”.
(5) il TFR nasce nel 1919 come prima forma di regolamentazione
dell’indennità di fine rapporto riservata agli impiegati, nel
1942 viene introdotto nel codice civile e nel 1966 viene esteso a tutti
i dipendenti privati e pubblici.
(6) Tra cui Luciano Vasapollo, prof. All’Università “La
Sapienza” di Roma
(7) Meccanismo “silenzio-assenso”: il lavoratore ha sei mesi di tempo
per esprimere la propria volontà su dove vuole destinare il
proprio TFR. Se non si esprime il TFR “passa” automaticamente al Fondo
di categoria o quello più presente in azienda.
Il rinnovo Contrattuale dei
metalmeccanici
Nel pieno rispetto del trend salariale degli ultimi 20 anni, e del
recepimento delle ulteriori norme antioperaie varate da questo governo,
si è aperta a Marzo la discussione tra le tre federazioni di
categoria FIM-FIOM-UILM, per la definizione delle richieste dei
Metalmeccanici sia dal punto di vista salariale che normativo.
La prima cosa importantissima da notare è che nessuna delle tre
federazioni ha fatto una consultazione dei metalmeccanici, o per lo
meno dei propri iscritti, prima di costruire la propria base di
discussione per le richieste del rinnovo. Come al solito i diretti
interessati vengono lasciati fuori nella parte più importante
del rinnovo contrattuale, la preparazione della piattaforma
rivendicativa, salvo poi chiamarli a scioperare, in un sorta di
conflittualità concertata, su piattaforme già deboli e
che poi alla fine della tornata contrattuale si trasformano in veri e
propri bidoni per i lavoratori. Di fronte a una tale critica qualcuno
potrebbe opporre il fatto che nei metalmeccanici prima di firmare i
contratti si fa il referendum. È vero. Si dimentica però
che le organizzazioni sindacali non sono mai state in grado nei
referendum di far votare più del 25% dei metalmeccanici. Ancora
più importante il fatto che si producono, come nello scorso
rinnovo, situazioni in cui nella fabbriche più combattive e che
hanno dato il maggior contributo alla lotta contrattuale gli accordi
bidone vanno sotto, e invece nelle fabbriche piccole, poco o per niente
sindacalizzate, spesso senza RSU, dove quindi non si ha nemmeno la
speranza di poter fare un contratto aziendale che in qualche modo
corregga il tiro, i contratti passano con percentuali elevatissime di
consenso.
Lo scorso contratto, per esempio, alla fine si è chiuso con
delle concessioni importanti sulla parte normativa in barba al fatto
che si trattava solo per la parte salariale, e con un risultato in
termini di aumenti salariali davvero irrisorio rispetto ai 130 euro che
si chiedevano inizialmente.
In realtà le aziende hanno erogato ai metalmeccanici 400 euro
per i 12 mesi del 2005, 880 euro per i 12 mesi del 2006 e 570 euro per
i 6 mesi del 2007 (allungamento di sei mesi della scadenza
contrattuale, ufficialmente per sciogliere il clima di
conflittualità), per un totale di 1850 euro in 30 mesi che
significano un aumento medio lordo al 5° livello di 61,66 euro, che
netti sono 47 euro al mese, una miseria.
Lo specchietto riepilogativo della discussione tra FIM-FIOM-UILM,
sembra recepire le richieste di governo e confindustria, soprattutto
per quanto riguarda la parte normativa.
La prima “richiesta” (?) che salta all’occhio e quella di portare il
limite massimo di contratti atipici nelle aziende dal tetto del 11%
dello scorso contratto al 15% per il prossimo. Su questo tutte le tre
federazioni sono d’accordo, compreso sul fatto che i contratti di
apprendistato non sono compresi in questa cifra. L’unica differenza
è che la Fim vuol tenere fuori quota i contratti di inserimento
e la FIOM invece dice che devono essere calcolati all’interno del
limite del 15%.
In ogni caso entrambe le organizzazioni, che spesso dibattono di lotta
alla precarietà, nel capitolo dedicato al “Mercato del Lavoro”
interpretano già le esigenze delle aziende di avere più
flessibilità e precarietà.
È prevista la riforma dell’inquadramento unico, in pratica ci
sarà un incremento dei livelli salariali, che lasceranno
differenziati rispetto agli altri lavoratori i soli quadri aziendali.
Su questa materia non c’è nessuna intesa tra FIM-FIOM-UILM,
perché non si hanno le idee chiare su come funzionerà
nell’applicazione concreta nei luoghi di lavoro. Un gran caos che in
ultima analisi si trasformerà in ulteriore possibilità
per le aziende di gestire in maniera clientelare le differenze di
livello tra i lavoratori.
Per quel che riguarda l’orario, si ribadisce quanto firmato lo scorso
anno in materia di orario plurisettimanale e si pongono le basi per
fare ulteriori concessioni alle aziende. Confindustria spinge per
l’orario annuale e l’atteggiamento sindacale invece di essere un netto
NO è quello di inserire un poco alla volta questo amaro boccone
nella vita dei lavoratori.
La parte più volgare della discussione per la definizione della
bozza è quella sui diritti: le uniche richieste concrete sono
l’istituzione della sanità integrativa aziendale (probabilmente
perché il governo prevede un ulteriore giro di vite alle spese
sanitarie pubbliche) e l’incremento del contributo aziendale per i
fondi pensione integrativi. Proposte oscene di fronte al fatto che
nelle assemblee negano spudoratamente di promuovere i fondi integrativi.
Sugli incrementi salariali siamo alla solita discussione fra i
tre….ognuno dice la sua cifra, ma la media sarà attorno a una
richiesta di 130 euro in varie tranches al 5° livello. Anche
stavolta insomma, nel pieno rispetto delle regole della concertazione,
si fa una richiesta economica che non sarà assolutamente in
grado di coprire la perdita di salario che i lavoratori hanno avuto a
causa dell’aumento dei prezzi, e di una Finanziaria di lacrime e sangue.
La differenza fra lo scorso contratto e questo sta nel fatto che
l’altra volta la richiesta, a detta della FIOM, era stata così
bassa (130 euro) perché l’industria metalmeccanica era in crisi;
oggi la richiesta è la stessa della volta scorsa, anche se
quest’anno l’industria è in forte espansione.
Nonostante questo rinnovo si preannuncia un ulteriore bidone per i
metalmeccanici, le tre organizzazioni richiedono il pagamento di una
quota contratto ai lavoratori non iscritti al sindacato, FIM e UILM ne
rivendicano l’obbligatorietà, la democratica FIOM dice che deve
essere volontaria.
Magari si metteranno d’accordo su una sorta di silenzio assenso.
Attendiamo la versione definitiva
della piattaforma unitaria, ma già dalle premesse la critica non
può che essere forte: nelle assemblee e nelle iniziative che si
organizzeranno, sarà molto importante fare emergere questa
critica sviluppando sia iniziative di lotta autonome, sia proponendo il
più possibile ordini del giorno che rimettano al centro la
difesa reale del salario e dei diritti, senza contropartite in cambio
sulla precarietà e sulla flessibilità.