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torna a lotte sindacali

marzo 2007

Contributo di alcuni/e lavoratori e lavoratrici del settore metalmeccanico di Sesto San Giovanni.

assemblealavoratori@libero.it

Le nuove frontiere dell’attacco padronale ai salari
La lotta per la difesa e il miglioramento dei salari è sempre stato la base e il motore scatenante della lotta di classe. Da una parte le aziende hanno utilizzato il contenimento e l’abbassamento dei salari per aumentare i margini di profitto, essenziali per tenere testa alle imprese concorrenti a livello internazionale. I lavoratori lottano per migliorare le proprie condizioni di vita, sia attraverso aumenti salariali, sia attraverso l’aumento di quella quota di “salario indiretto” sotto forma di pensioni, TFR, abbassamento delle tasse, casa, servizi sociali (trasporti, scuola, sanità).

Negli ultimi venti anni, l’inasprirsi della crisi economica internazionale, e quindi della competizione fra padroni, Paesi e blocchi regionali (USA-UE-Giappone) ha portato da una parte a continue guerre di conquista e di rapina, dall’altra ad un attacco ai salari della classe operaia dei Paesi capitalistici “avanzati”.

Con la solita promessa di futuri benefici in cambio di attuali sacrifici, l’obiettivo che in questi anni Confindustria ha ottenuto è stato quello di portare i salari italiani ai livelli più bassi d’Europa, aumentando al tempo stesso l’instabilità e la precarietà del lavoro. Ciò si è riflesso nelle politiche dei vari Governi di differenti orientamenti (DC, “pentapartito”, governi “tecnici”, di centro-destra e di centro-sinistra) tutti in perfetta continuità nei termini di legislazioni a scapito del lavoro e del salario. Un breve sunto storico, solo per rinfrescare la memoria: nel 1985 un referendum conferma la decisione del governo Craxi di congelare parzialmente la “scala mobile”, ossia quel meccanismo che legava gli aumenti di salario a quelli del costo della vita, sebbene non in forma adeguata; nel biennio 1992-1993 , il governo Ciampi presiede i famosi accordi fra confindustria e cgil-cisl-uil sulla famosa politica dei redditi, con l’articolazione della contrattazione su due livelli (il CCNL di categoria e gli integrativi aziendali) e l’adeguamento dei salari sulla base di una “inflazione programmata” da sempre inferiore a quella reale; nel 1995 la Riforma Dini aumenta l’età pensionabile e sgancia l’erogazione della pensione dal sistema retributivo e lo aggancia a quello contributivo; nello stesso anno viene firmato dai sindacati l’accordo per la regolamentazione delle agenzie interinali, in pratica si legalizza il precariato; nel 1997 il Pacchetto Treu norma l’utilizzo della manodopera precaria (interinali e co.co.co.); nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione da parte del governo D’Alema (che segue la riforma Bassanini) assegna alle regioni la gestioni di importanti servizi sociali, come la sanità e la scuola, smantellando interi pezzi di welfare state, come il Sistema Sanitario Nazionale; n el 2003 entra in vigore la Legge 30, che amplia a dismisura i casi di ricorso a lavoro precario da parte delle aziende, individuando ed ordinando tutta una serie di figure lavorative (lavoro somministrato, apprendistato, co.co.pro, a chiamata, intermittente, ecc.); infine arriviamo alla riforma del TFR e alla ventilata nuova riforma delle pensioni, imposta da Prodi nei 12 punti della sua azione di governo. Nel mezzo ci sono state Leggi Finanziarie e rinnovi contrattuali che hanno sempre più aumentato il divario fra profitti e rendite da una parte, salari dall’altra.

Ma al di là di chiacchiere e propaganda, contano i fatti. E allora vediamo che, sul fronte salariale, assistiamo ad una progressiva diminuzione degli aumenti salariali: +7,7% nel 1986-’90, +5,8% nel 1991-’95, +2,9% nel 1996-2000 e +3% nel 2001-05. Come giustamente scrivevano alcuni delegati e operai di Sesto nel 2005 “Nella realtà i prezzi sono aumentati dall’introduzione dell’EURO del 35% negli ultimi quattro anni che fa una media dello 8,7% annuo contro un dato strumentale dell’ISTAT del 2% . La riduzione dei salari di quasi il 20% di questi ultimi due anni è un dato incontestabile, ad esempio in media i prezzi degli affitti sono cresciuti del 80%, e così i prodotti ortofrutticoli che sono aumentati dal 35 al 40 % ad ogni cambio di stagione, i trasporti hanno subito aumenti del 60% e gli alimenti di prima necessità (pane, latte, uova e sale) hanno subito complessivamente aumenti medi del 40 %.” A fronte di questo, l’ex governatore della Banca d’Italia, Fazio esultava “In Italia, secondo la contabilità nazionale, nel settore privato la quota del capitale sul valore aggiunto (…) è cresciuta ininterrottamente dalla metà degli anni settanta fino al 2001, raggiungendo livelli storicamente elevati. (…) La quota dei profitti è aumentata in misura più elevata nei trasporti, nelle comunicazioni e nella produzione e distribuzione di energia, settori caratterizzati da condizioni di mercato meno concorrenziale (…) e interessati negli anni recenti da un processo di privatizzazione”. (…)”. In soldoni, il 10% delle famiglie più ricche possiede il 45,1% dell’ammontare della ricchezza netta.

Non contento, il vice-presidente di Confindustria, Alberto Bombassei rilancia : per i padroni il salario dovrà differenziarsi sul territorio perchè ''è la stessa Unione Europea che spinge verso differenziazioni territoriali''. Bombassei allarga le richieste confindustriali con una detassazione delle ore di lavoro straordinario.

Con queste premesse e con questo contesto, la stagione contrattuale del 2007, che riguarda quasi 10 milioni di lavoratori e interessa vari settori dell’Industria (per primi i metalmeccanici), dei Servizi, della Pubblica amministrazione e dell’Artigianato, assumerà un’importanza cruciale, proprio perché si salderà allo scippo del TFR e alla controriforma delle pensioni. Da questa base oggettiva deve partire il movimento di lotta. Con una ristrutturazione che determina un aumento della precarietà e della disoccupazione, il movimento dei lavoratori incontra ostacoli “oggettivi” non facili da superare. Ma non sono questi ostacoli oggettivi a costituire il problema principale. Il continuo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro porta inevitabilmente alla ricomposizione della condizione proletaria, indipendentemente dal tipo di contratto. Il problema vero sta, invece, nell'atteggiamento dei vertici del sindacatoconfederale, nella sua rinuncia a sostenere e unificare il movimento, e nel suo tentativo di portare il proletariato a sostenere il capitale italiano, pubblico e privato, ad aumentare la produttività e lo sfruttamento della forza-lavoro.

In queste prime mobilitazioni operaie che si sono espresse contro la Finanziaria, contro lo scippo del TFR, contro la riforma delle pensioni e poi nei rinnovi contrattuali, sempre più chiara diventa la linea di demarcazione tra la concertazione e il conflitto. Come lavoratori e lavoratrici, delegati e delegate, il nostro compito è di sviluppare il movimento di lotta, collegandolo in tutti i suoi momenti ed in tutti i territori. Nel lavoro costante e quotidiano di organizzazione, di agitazione e di lotta, nelle assemblee, negli scioperi, nelle manifestazioni, dobbiamo tutti e tutte contribuire a ristabilire quella indispensabile autonomia teorica, politica e materiale di classe che è l'unica garanzia del futuro. Un’autonomia che dovrà trovare negli organismi di lotta e di partecipazione di cui i lavoratori si doteranno, la sua manifestazione concreta.

PENSIONI E TFR

Dopo gli anni ’60-’70, sia in Italia che nel resto d’Europa, i lavoratori hanno conosciuto una lenta, ma costante e inesorabile erosione di tutti quei diritti e quelle conquiste in campo sociale e salariale ottenute con dure lotte e sacrifici.
Da una fase in cui il livello delle tutele era molto elevato si è passati oggi ad una fase di neoliberismo selvaggio in cui si sviluppa un sistema economico capace solo di costruire una società con sempre maggior differenziazioni al suo interno, in cui il sistema di “protezione sociale” va sempre più indebolendosi a danno delle fasce a basso reddito, ma non solo (la percentuale di popolazione che non supera la soglia di povertà cresce costantemente).
In questa strategia antisociale complessiva anche il sistema pensionistico pubblico è stato oggetto di continui attacchi, anche tramite campagne allarmistiche che ipotizzavano e ipotizzano tuttora il cosiddetto “crack delle pensioni”, previsto inizialmente per l’anno 2000, poi spostato al 2020 e poi proiettato al 2030 secondo alcuni, al 2050 secondo altri.
La strategia dominante, quindi, è quella di realizzare un sistema contributivo privato per tutti, e di abolire di conseguenza quello pubblico.
Oggi ci troviamo in una fase di “transizione”.
Le varie riforme pensionistiche succedutesi negli ultimi 15 anni, (dalla riforma Amato – legge 503/92-, alla Riforma Dini – legge 335/95-, alla controriforma Berlusconi ) aprono la strada proprio a questo.
E’ infatti nel 1993 che viene introdotta in Italia la “ previdenza complementare”, che si configura come un sistema volto ad affiancare la tutela pubblica con forme di assicurazione a capitalizzazione di tipo privatistico. Ma è solo nel 1995, con la Riforma Dini e l’introduzione del “calcolo Contributivo”(1) che si sancisce il bisogno di ricorrere a tali strumenti per assicurarsi una vecchiaia serena ( ma vedremo poi che nemmeno questo è vero).
Dunque, ad oggi, il sistema di previdenza in Italia si basa su tre “pilastri”:
· I°: pubblico obbligatorio ( versamenti all’Inps )
· II°: integrativo o complementare ( dato dai Fondi negoziali o chiusi, dai Fondi aperti di banche e assicurazioni )
· III°: economie private che il lavoratore ha accumulato nel corso della vita e/o polizze di assicurazione sulla vita.
I vari Governi succedutesi si sono affannati a dire che i conti dell’INPS sono in rosso ( falso!) e che non sarebbe più sostenibile erogare pensioni secondo il “calcolo retributivo”(2), (l’ultima generazione a raggiungere la pensione con questo metodo sarà quella che maturerà i requisiti nel 2017), ma nessuno di loro ha mai dato spiegazioni sul fatto che esiste una legge del 1989, che stabilisce la separazione tra Previdenza (di competenza dell’INPS) e Assistenza ( di competenza dello Stato, ma da sempre data in gestione all’INPS), mai applicata(3).
Nonostante oggi l’INPS continui a farsi carico anche dell’ Assistenza, non chiude ugualmente il bilancio in negativo.
E’evidente che se si attuasse tale separazione si determinerebbe una situazione ben più favorevole al mantenimento del vecchio sistema previdenziale obbligatorio, ma verrebbero meno quegli equilibri di bilancio pubblico forzati e finalizzati esclusivamente alla stabilizzazione delle logiche monetariste di Maastricht ( le logiche che determinano lo stare dentro o fuori “ l’Europa” ).
Cercare di tutelare il sistema previdenziale pubblico non è in linea nemmeno con l’obiettivo in atto anche nel nostro paese di rafforzare e rilanciare i processi di finanziarizzazione dell’economia.
Dal 2017 al 2036 si potrà accedere alla pensione con un calcolo cosiddetto “misto”(4), dal 2036 solo con calcolo contributivo puro. Ciò determinerà l’aumento esponenziale di masse di “nuovi poveri”. Per cercare di arginare ora il problema che i Governi dovranno affrontare dopo il 2017, cioè quando i lavoratori accederanno ad una pensione che non permetterà loro di vivere, ecco che ci si ricorda di quella riserva di denaro fresco su cui molte volte tanti soggetti hanno cercato di mettere le mani, e cioè i TFR ( Trattamento di Fine Rapporto) dei lavoratori, di cui la stima annua è nell’ordine dei 19 miliardi di euro.
Il TFR è salario dei lavoratori differito (5). Per i lavoratori esso ha sempre rappresentato una riserva “forzata” utile nei momenti di disoccupazione, di bisogno, per la cura e lo studio dei figli.

Oggi l’intento è quello di snaturarne completamente la sostanza.
E con questo istituto i signori del Parlamento e i signori di Confindustria, con la non opposizione o addirittura accondiscendenza dei Sindacati Confederali, intendono prendere “due piccioni con una fava”.
Da una parte non vogliono affrontare l’emergenza della previdenza pubblica, che da un punto di vista “sociale” sarebbe contrastabile attuando soluzioni quali una lotta seria al lavoro nero, all’evasione contributiva, al precariato, una lotta per una piena occupazione femminile e per un’occupazione regolare degli immigrati.
Dall’altra vogliono cercare di dare nuova linfa all’economia finanziaria, a discapito del sistema produttivo.
E i Fondi Pensione a cui destinare la propria liquidazione, aperti o chiusi che siano, sono lo strumento per attuare questa strategia.
E’ per questo che i Fondi Previdenziali, soprattutto quelli negoziali (cioè quelli stipulati tra associazioni datoriali e sindacati), hanno caratteristiche attrattive per i lavoratori, come la defiscalizzazione e la detraibilità.
Ma nonostante ciò, dal 1993 ad oggi solo circa il 13% dei lavoratori ha sottoscritto un Fondo, un po’ per diffidenza, un po’ perché non è vero che conviene aderirvi. Non a caso, tanto per fare un esempio, lo Statuto del Fondo COMETA dei metalmeccanici e dei chimici conferma l’insicurezza, in quanto prevede, oltre che comprare azioni, anche di finanziare le stesse aziende per i suoi fabbisogni.
Dallo studio di alcuni economisti (6) emerge che, destinando l’intero TFR e una piccola quota dello stipendio ( in percentuale ad esempio dell’1o 2 o 3%) al Fondo non si riuscirebbe ugualmente ad avere una quota adeguata di reddito tale da garantirsi un livello di vita dignitoso.
Il giovane che volesse raggiungere un reddito di tipo privato e che, sommato a quello pubblico, gli permettesse di avere una pensione come quella dei suoi genitori, oltre al TFR e al contributo aziendale dovrebbe versare intorno al 10% del suo reddito mensile per 30-40 anni.
E considerando che un numero sempre maggiore di giovani accede al mercato del lavoro solo attraverso forme di lavoro atipico ( che prevedono contribuzioni bassissime, assenza di TFR ecc..), è facilmente intuibile che, anche attraverso i Fondi Pensione Integrativi, si otterrà una pensione da miserabili dopo una vita di lavoro con stipendi e redditi da miserabili.
L’art. 36 della Costituzione recita:” Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
Alcune sentenze della Corte Costituzionale, i cui principi debbono essere considerati tuttora validi, in quanto mai rinnegati, hanno stabilito che “non deve mai sussistere una differenza irragionevole fra pensioni e retribuzioni, non solo all’instaurarsi del rapporto pensionistico, ma anche nel prosieguo del tempo”.
Inoltre è principio acquisito e consolidato che “ la pensione è una retribuzione differita e, come tale, equiparata nel diritto alla retribuzione” ( sentenza della Corte Costituzionale).
L’alternativa al trasferimento nei Fondi proposta dalla manovra del Governo è quella di lasciare il proprio TFR in azienda (se al di sotto dei 50 dipendenti rimarrà effettivamente a disposizione del titolare, se al di sopra dei 50 verrà trasferito all’INPS che lo gestirà per conto del Ministero del Tesoro e con il quale si andrà a finanziare opere di infrastruttura e magari qualche guerra).
Come si può facilmente dedurre, se lo si destina ai Fondi si alimenta e sostiene un sistema economico che genera solo disuguaglianze e ingiustizie, se lo si lascia in azienda o sarà il padrone a continuare a spenderlo per cambiare magari la barca, o sarà lo Stato a ricevere un prestito da noi lavoratori completamente gratis.
E’ come chiedere: vuoi che utilizzi i tuoi soldi per fare la guerra a nord o per fare la guerra a sud?
Per queste ragioni riteniamo che l’intera manovra sul TFR, soprattutto date le modalità con cui i lavoratori sono chiamati ad esprimersi, e cioè tramite il meccanismo antidemocratico del silenzio-assenso (7) sia un furto e una presa in giro per i lavoratori.
La nostra opposizione nasce dall’ esigenza di difendere lo “stato sociale” nelle sue varie forme e servizi, salario indiretto dei lavoratori, che in sostanza viene messo fortemente in pericolo.
Siamo a rivendicare una pensione giusta e dignitosa senza dover per forza pagarcela durante tutta la vita, perché di pagare sempre noi e sempre così tanto siamo stanchi.
Con le politiche di contenimento salariale degli ultimi decenni è già difficile arrivare alla fine del mese addirittura con due redditi, figuriamoci se dobbiamo accantonare anche una seconda quota ( una la paghiamo già!) per la pensione!

(1) determina un’erogazione mensile corrispondente a circa il 40-50% dell’ultima retribuzione.

(2) nato dalle lotte del ’68 (legge n° 153 del 30 aprile 1969) e che determina un’erogazione mensile corrispondente a circa il 70-80% dell’ultima retribuzione.

(3) La previdenza comprende la pensione di vecchiaia, di anzianità, di invalidità, ai superstiti, di convenzione internazionale per il lavoro svolta all’estero.

L’assistenza comprende l’assegno sociale, gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità), la malattia, la maternità, l’assegno familiare.

(4) gli anni lavorati fino al 1995 verranno calcolati con metodo “retributivo” e gli anni successivi al 1995 con metodo “contributivo”.

(5) il TFR nasce nel 1919 come prima forma di regolamentazione dell’indennità di fine rapporto riservata agli impiegati, nel 1942 viene introdotto nel codice civile e nel 1966 viene esteso a tutti i dipendenti privati e pubblici.

(6) Tra cui Luciano Vasapollo, prof. All’Università “La Sapienza” di Roma

(7) Meccanismo “silenzio-assenso”: il lavoratore ha sei mesi di tempo per esprimere la propria volontà su dove vuole destinare il proprio TFR. Se non si esprime il TFR “passa” automaticamente al Fondo di categoria o quello più presente in azienda.

Il rinnovo Contrattuale dei metalmeccanici

Nel pieno rispetto del trend salariale degli ultimi 20 anni, e del recepimento delle ulteriori norme antioperaie varate da questo governo, si è aperta a Marzo la discussione tra le tre federazioni di categoria FIM-FIOM-UILM, per la definizione delle richieste dei Metalmeccanici sia dal punto di vista salariale che normativo.

La prima cosa importantissima da notare è che nessuna delle tre federazioni ha fatto una consultazione dei metalmeccanici, o per lo meno dei propri iscritti, prima di costruire la propria base di discussione per le richieste del rinnovo. Come al solito i diretti interessati vengono lasciati fuori nella parte più importante del rinnovo contrattuale, la preparazione della piattaforma rivendicativa, salvo poi chiamarli a scioperare, in un sorta di conflittualità concertata, su piattaforme già deboli e che poi alla fine della tornata contrattuale si trasformano in veri e propri bidoni per i lavoratori. Di fronte a una tale critica qualcuno potrebbe opporre il fatto che nei metalmeccanici prima di firmare i contratti si fa il referendum. È vero. Si dimentica però che le organizzazioni sindacali non sono mai state in grado nei referendum di far votare più del 25% dei metalmeccanici. Ancora più importante il fatto che si producono, come nello scorso rinnovo, situazioni in cui nella fabbriche più combattive e che hanno dato il maggior contributo alla lotta contrattuale gli accordi bidone vanno sotto, e invece nelle fabbriche piccole, poco o per niente sindacalizzate, spesso senza RSU, dove quindi non si ha nemmeno la speranza di poter fare un contratto aziendale che in qualche modo corregga il tiro, i contratti passano con percentuali elevatissime di consenso.
Lo scorso contratto, per esempio, alla fine si è chiuso con delle concessioni importanti sulla parte normativa in barba al fatto che si trattava solo per la parte salariale, e con un risultato in termini di aumenti salariali davvero irrisorio rispetto ai 130 euro che si chiedevano inizialmente.
In realtà le aziende hanno erogato ai metalmeccanici 400 euro per i 12 mesi del 2005, 880 euro per i 12 mesi del 2006 e 570 euro per i 6 mesi del 2007 (allungamento di sei mesi della scadenza contrattuale, ufficialmente per sciogliere il clima di conflittualità), per un totale di 1850 euro in 30 mesi che significano un aumento medio lordo al 5° livello di 61,66 euro, che netti sono 47 euro al mese, una miseria.
Lo specchietto riepilogativo della discussione tra FIM-FIOM-UILM, sembra recepire le richieste di governo e confindustria, soprattutto per quanto riguarda la parte normativa.
La prima “richiesta” (?) che salta all’occhio e quella di portare il limite massimo di contratti atipici nelle aziende dal tetto del 11% dello scorso contratto al 15% per il prossimo. Su questo tutte le tre federazioni sono d’accordo, compreso sul fatto che i contratti di apprendistato non sono compresi in questa cifra. L’unica differenza è che la Fim vuol tenere fuori quota i contratti di inserimento e la FIOM invece dice che devono essere calcolati all’interno del limite del 15%.
In ogni caso entrambe le organizzazioni, che spesso dibattono di lotta alla precarietà, nel capitolo dedicato al “Mercato del Lavoro” interpretano già le esigenze delle aziende di avere più flessibilità e precarietà.
È prevista la riforma dell’inquadramento unico, in pratica ci sarà un incremento dei livelli salariali, che lasceranno differenziati rispetto agli altri lavoratori i soli quadri aziendali. Su questa materia non c’è nessuna intesa tra FIM-FIOM-UILM, perché non si hanno le idee chiare su come funzionerà nell’applicazione concreta nei luoghi di lavoro. Un gran caos che in ultima analisi si trasformerà in ulteriore possibilità per le aziende di gestire in maniera clientelare le differenze di livello tra i lavoratori.
Per quel che riguarda l’orario, si ribadisce quanto firmato lo scorso anno in materia di orario plurisettimanale e si pongono le basi per fare ulteriori concessioni alle aziende. Confindustria spinge per l’orario annuale e l’atteggiamento sindacale invece di essere un netto NO è quello di inserire un poco alla volta questo amaro boccone nella vita dei lavoratori.
La parte più volgare della discussione per la definizione della bozza è quella sui diritti: le uniche richieste concrete sono l’istituzione della sanità integrativa aziendale (probabilmente perché il governo prevede un ulteriore giro di vite alle spese sanitarie pubbliche) e l’incremento del contributo aziendale per i fondi pensione integrativi. Proposte oscene di fronte al fatto che nelle assemblee negano spudoratamente di promuovere i fondi integrativi.
Sugli incrementi salariali siamo alla solita discussione fra i tre….ognuno dice la sua cifra, ma la media sarà attorno a una richiesta di 130 euro in varie tranches al 5° livello. Anche stavolta insomma, nel pieno rispetto delle regole della concertazione, si fa una richiesta economica che non sarà assolutamente in grado di coprire la perdita di salario che i lavoratori hanno avuto a causa dell’aumento dei prezzi, e di una Finanziaria di lacrime e sangue.
La differenza fra lo scorso contratto e questo sta nel fatto che l’altra volta la richiesta, a detta della FIOM, era stata così bassa (130 euro) perché l’industria metalmeccanica era in crisi; oggi la richiesta è la stessa della volta scorsa, anche se quest’anno l’industria è in forte espansione.
Nonostante questo rinnovo si preannuncia un ulteriore bidone per i metalmeccanici, le tre organizzazioni richiedono il pagamento di una quota contratto ai lavoratori non iscritti al sindacato, FIM e UILM ne rivendicano l’obbligatorietà, la democratica FIOM dice che deve essere volontaria.
Magari si metteranno d’accordo su una sorta di silenzio assenso.

Attendiamo la versione definitiva della piattaforma unitaria, ma già dalle premesse la critica non può che essere forte: nelle assemblee e nelle iniziative che si organizzeranno, sarà molto importante fare emergere questa critica sviluppando sia iniziative di lotta autonome, sia proponendo il più possibile ordini del giorno che rimettano al centro la difesa reale del salario e dei diritti, senza contropartite in cambio sulla precarietà e sulla flessibilità.