Testimonianze da Falluja
Fallujah: finalmente la verità
19 febbraio 2005
a cura di Angela Lano (*)
(*)giornalista e studiosa del mondo arabo-islamico
E’ una sensazione agghiacciante, di rabbia paralizzante, di commozione
intrattenibile quella che ghermisce coloro che si addentrano nella
lettura
dell’articolo “Falluja, the truth at last” (Falluja, la verità,
finalmente),
pubblicato nel sito dell’inglese Socialist Workers Party online.
E’ il resoconto del massacro degli abitanti della città di
Falluja, in Iraq, di
cui i nostri media embedded, cioè, a seguito delle truppe della
coalizione
Usa-Gran Bretagna-Italia-Polonia, ecc., non ci hanno parlato se non nei
termini del
“contrastare” le forze dei ribelli”, dei “terroristi”, degli
“insorti”.
Ma quali terroristi? Se leggerete fino in fondo, vi renderete conto che
SI
TRATTAVA DI CITTADINI - DONNE, GIOVANI, BAMBINI, VECCHI -, ATROCEMENTE
ASSASSINATI DAI MILITARI USA PER IL SOLO FATTO DI ESSERE IRACHENI.
Stroncati mentre aprivano fiduciosi le porte delle loro case, o mentre
scappavano.
Come in un film dell’orrore, mi è passata davanti la scena del
bimbo di
cinque anni che si getta sul corpo ormai senza vita della madre, uccisa
a
sangue freddo dai soldati del più potente esercito del mondo, e
da quella
posizione impotente, piena di dolore e di paura, gli giunge la scarica
di
pallottole che lo fulmina.
Crimini di guerra, di questo si tratta. Non c’è civiltà
da esportare, né
democrazia da impiantare: nessuno può ancora onestamente credere
alla
menzogna della guerra contro il terrorismo e per la democrazia.
C’è
solo da rubare le ricchezze altrui, perché, come dicono Bush
& co., “Il nostro
stile di vita non è negoziabile”. C’è da ammazzare,
sadicamente, donne, vecchi,
adolescenti e bambini. Esattamente come facevano i nazisti. L’unica
differenza è che chi ha invaso impunemente lo stato sovrano
dell’Iraq è
anche il padrone incontrastato del mondo, e dunque domina i media, e i
governi, e le borse, e gli affari.
Il governo italiano, con la sua “lealtà” a quello statunitense e
a una
guerra di rapina e di sterminio, sta violando non solo la Costituzione
ma
anche il diritto internazionale e umanitario.
La brava Giuliana Sgrena, ora finalmente libera, era forse di Falluja e
di
questo massacro che voleva scrivere quando è stata rapita da
forze non
ancora bene identificate? Dobbiamo dunque chiederci cui prodest il suo
rapimento e perché l’auto blindata, che la stava conducendo
all’aeroporto
nel giorno della sua liberazione, è stata attaccata, come in un
agguato, da militari statunitensi con una scarica di trecento colpi che
hanno ucciso l’agente del Sismi, Nicola Calipari e ferito la
stessa Giuliana.
Troppe stranezze, troppi silenzi, troppe verità occultate, troppa
disinvoltura dei media nell’accettare spiegazioni inspiegabili e
nell’avallare tesi confezionate da altri.
Il tg 3 di sabato 5 marzo ha mandato in onda un video sul massacro di
Falluja e sul possibile uso di bombe chimiche da parte statunitense,
ma non prima di definirlo “video propaganda”... Incredibile: chi
dà le
notizie, chi denuncia, chi veicola informazioni differenti da quelle
“permesse”,
fa... propaganda e non giornalismo. E’ proprio così: ormai
siamo in un vero e
proprio regime, e anche la linguistica e la semantica sono stravolte.
I popoli arabo-islamici hanno accesso a informazioni più
approfondite e
realistiche delle nostre in merito alla guerra in Iraq, grazie a ottime
tv
come al-Jazeera: è facile per noi dire che quelle televisioni
trasmettono
“odio” dai loro schermi, se poi le nostre “embedded” tacciono, e
tacendo si
rendono complici, insieme al nostro governo, di crimini di cui la
Storia e
le coscienze chiederanno conto.
Testimonianza del
Dott. Salam Ismael (*) che ha portato aiuti a Fallujah.
(*) Attualmente il governo britannico rifiuta al Dott. Salam Ismael il
reingresso in Gran Bretagna.
Questa è la storia di come gli Stati Uniti hanno assassinato una
città.
ALL’INIZIO fu l’odore che mi colpì, un odore difficile da
descrivere e che
non dimenticherò mai. Era l’odore della morte. Centinaia di
cadaveri
che si stavano decomponendo nelle case, nei giardini e nelle strade di
Fallujah. I corpi marcivano dove erano caduti, corpi di uomini, donne e
bambini,
molti per metà mangiati dai cani randagi.
Una ondata di odio aveva spazzato via due terzi della città,
distruggendo
case e moschee, scuole ed ospedali. Era la tremenda e spaventosa potenza
dell’assalto militare degli USA. I racconti che sentii nei due giorni
successivi vivranno in me per sempre. Voi potete pensare di sapere
ciò
che è accaduto a Fallujah. Ma la realtà è peggiore
di quanto forse potreste
avere immaginato.
A Saqlawiya, uno degli improvvisati campi profughi che circondano
Fallujah, abbiamo trovato una vecchia di 17 anni. “Sono Hudda Fawzi
Salam Issawi del
distretto di Jolan a Fallujah”, mi disse, “Cinque di noi, compreso un
vecchio vicino di 55 anni, quando è cominciato l’assedio sono
rimasti
intrappolati insieme nella nostra casa a Fallujah.
«Il 9 novembre i marines americani sono arrivati alla nostra
casa. Mio
padre ed il vicino andarono alla porta per incontrarli. Non eravamo
combattenti.
Pensavamo di non avere nulla da temere. Sono corsa in cucina per
mettere il velo, dal momento che dovevano entrare in casa degli uomini
e sarebbe
stato inopportuno farmi vedere a testa scoperta. Questo mi ha salvato
la vita.
Appena mio padre ed il vicino si avvicinarono alla porta gli
americani aprirono il fuoco su di loro. Morirono all’istante.
Io e mio fratello di 13 anni ci nascondemmo in cucina, dietro al
frigorifero. I soldati entrarono nella casa e presero mia sorella
maggiore.
La picchiarono. E quindi le spararono. Ma non videro me. Appena se ne
erano andati, ma non prima di avere distrutto i nostri mobili ed avere
rubato il
denaro dalla tasca di mio padre».Hudda mi raccontò di come
ha
confortato la sorella morente leggendo versi del Corano. Dopo quattro
ore la sorella morì.
Per tre giorni Hudda e suo fratello sono rimasti con i loro partenti
assassinati. Ma avevano sete e da mangiare avevano soltanto pochi
datteri.
Temevano che i soldati sarebbero ritornati e decisero di provare a
scappare dalla città. Ma vennero individuati da un cecchino USA.
Hudda venne colpita ad una gamba, suo fratello correva ma fu colpito
alla
schiena e morì all’istante. «Mi preparai a morire. - mi
disse - Ma fui
trovata da una soldatessa americana che mi portò
all’ospedale». Alla
fine si ricongiunse ai membri sopravvissuti della sua famiglia.
Trovai anche altri sopravvissuti di un’altra famiglia del distretto di
Jolan. Mi dissero che alla fine della seconda settimana di assedio le
truppe USA percorsero Jolan. La Guardia Nazionale irachena utilizzava
altoparlanti per chiedere alla gente di uscire dalle case portando
bandiere bianche,
portando con se tutti i loro effetti personali. Venne loro
ordinato di
raccogliersi fuori vicino alla moschea di Jamah al-Furkan, nel centro
della città.
Il 12 novembre Eyad Naji Latif ed otto membri della sua famiglia, uno di
loro un bambino di sei mesi, raccolsero i loro effetti personali e
camminarono in una unica fila, secondo le istruzioni, verso la moschea.
Quando raggiunsero la strada principale all’esterno della moschea
udirono un grido, ma non riuscirono a capire cosa veniva gridato. Eyad
mi ha
detto che poteva essere stato “ora” in inglese. Poi iniziarono gli
spari.
I soldati USA apparvero dai tetti delle case circostanti ed aprirono il
fuoco. Il padre di Eyad venne colpito al cuore e sua madre al petto.
Morirono all’istante. Anche due dei fratelli di Eyad furono colpiti,
uno al
petto ed uno al collo. Due delle donne vennero colpite, una ad una mano
e
l’altra ad una gamba. Quindi i cecchini uccisero la moglie di uno dei
fratelli diEyad.
Quando cadde, suo figlio di cinque anni corse da lei e rimase sopra il
suo
corpo. Uccisero anche lui. I sopravvissuti fecero ai soldati dei
disperati
appelli perché cessassero il fuoco.
Ma Eyad mi disse che ogni volta che uno di loro tentava di alzare una
bandiera bianca veniva colpito. Dopo diverse ore provò ad alzare
il
braccio con la bandiera. Ma lo colpirono al braccio. Infine
provò ad alzare la
mano. Così lo colpirono alla mano.
I cinque sopravvissuti, compreso il bambino di sei mesi, stettero
distesi
sulla strada per sette ore. Poi quattro di loro strisciarono fino alla
casa più vicina per trovare riparo. Il mattino successivo anche
il fratello che
era stato colpito al collo riuscì a strisciare verso la
salvezza. Rimasero
tutti nella casa per otto giorni, sopravvivendo di radici e di una tazza
d’acqua che avevano risparmiato per il bambino. L’ottavo giorno furono
scoperti da alcuni membri della Guardia Nazionale irachena e portati in
ospedale a Fallujah. Essi sentirono che gli americani arrestavano
tutti gli uomini giovani, così la famiglia fuggì
dall’ospedale e ottenne finalmente
delle cure in una città vicina.
Essi non sanno in dettagli cosa accadde alle altre famiglie che erano
andate verso la moschea come ordinato. Ma mi dissero che la strada era
bagnata di sangue.
Ero arrivato a Fallujah in gennaio come parte di un convoglio di
aiuti umanitari finanziato
da donazioni britanniche. Il nostro piccolo convoglio di camion e
pulmini portava 15 tonnellate
di farina, otto
tonnellate di riso, medicinali e 900 capi di vestiario per gli orfani.
Sapevamo che migliaia di profughi erano accampati in condizioni
terribili in quattro campi alla periferia della città.
Lì sentimmo racconti di famiglie uccise nelle loro case, di
feriti
trascinati in strada ed investiti con i carri armati, di un container
con
dentro i corpi di 481 civili, di assassinio premeditato, saccheggio ed
atti di ferocia e crudeltà che superano ogni immaginazione. Per
tale motivo
decidemmo di entrare a Fallujah a investigare. Quando entrammo in
città
quasi non riconoscevo il posto dove avevo lavorato come medico
nell’aprile
del 2004, durante il primo assedio.
Trovammo persone che vagavano come fantasmi tra le rovine. Alcuni
cercavano i corpi dei parenti. Altri cercavano di recuperare dalle case
distrutte
alcuni dei loro beni. Qua e là, piccoli gruppi di persone
facevano la coda
per carburante o cibo. In una coda alcuni sopravvissuti lottavano per
una
coperta. Ricordo di essere stato avvicinato da un’anziana donna, i suoi
occhi gonfi di lacrime. Mi afferrò per il braccio e mi
raccontò di come la
sua casa era stata colpita da una bomba USA durante un’incursione
aerea. Il soffittò crollo sul figlio di 19 anni, tagliandogli
entrambe le gambe.
Non poté ottenere aiuto. Non poteva andare in strada
perché gli americani
avevano postato cecchini sui tetti ed uccidevano chiunque si
avventurasse
fuori, anche di notte.
Fece del suo meglio per fermare l’emorragia, ma fu inutile. Rimase con
lui, il suo unico figlio, finché questi morì. Ci vollero
quattro ore perché
morisse.
Il principale ospedale di Fallujah fu preso dalle truppe USA nei primi
giorni dell’assedio. L’altra sola clinica, la Hey Nazzal, venne colpita
due
volte dai missili USA. I suoi medicinali e l’attrezzatura medica vennero
tutti distrutti. Non c’erano ambulanze, le due ambulanze che venivano ad
aiutare i feriti furono colpite e distrutte dalle truppe USA.
Abbiamo visitato case del distretto di Jolan, un’area povera di
lavoratori
nella parte nord occidentale della città che era stata il centro
della
resistenza durante l’assedio di aprile. Sembrava che questo quartiere
fosse stato scelto per la punizione durante il secondo assedio. Ci
spostavamo di
casa in casa, scoprendo famiglie morte nei loro letti, o
abbattute in soggiorno o
in cucina. Tutte le case avevano i mobili fracassati ed i beni
sparpagliati.
In alcuni posti trovammo corpi di combattenti, vestiti
in nero e con le cartucciere. Ma, nella maggior parte delle case, i
corpi
erano di civili. Molti erano in vestaglia, molte delle donne non
avevano il velo, il che significa che nella casa non vi erano altri
uomini che quelli
della famiglia.
Non vi era nessuna arma, nessun bossolo. Ci divenne chiaro che
eravamo testimoni delle
conseguenze di un massacro,
il macello a sangue freddo di civili inermi ed indifesi. Nessuno sa
quanti sono morti.
Ora le forze d’occupazione spianano i quartieri con i bulldozer per
coprire il loro crimine.
Ciò che è accaduto a Fallujah è stato un atto di
barbarie. La verità deve essere raccontata al mondo intero.
(dal sito http://freebooter.da.ru/)